Di fiume in fiume (e senza allontanarsi troppo dal Po). Appena attraversato l’Adda e giunto finalmente in terra di San Marco – al sicuro dal mercante, dal notaio, dai birri, dall’oste e da tutta quella folla che aveva popolato i suoi incubi di uomo in fuga – Renzo, scrive Manzoni, «si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta».

Un momentino? Sì, conferma Tommaseo nel suo dizionario, «chiedendo che altri aspetti, usasi sovente: Un momentino». E in quegli anni anche un filologo come D’Ovidio può lamentarsi col suo collega D’Ancona delle beghe scolastiche, dicendo che rispetto alle domestiche «sono un momentino peggio». Un momentino peggio: proprio come Un attimino bella, il titolo di un racconto di Aldo Nove («Mi chiamo Rosalba, ho ventisette anni e sono un attimino bella»).

Vallo a spiegare a tutti quelli che continuano a infierire sul gracile attimino. Quindici anni fa l’ha fatto anche un futuro presidente del Consiglio («No, per carità, dimmi tutto, ma non mi parlare di “attimino”», si legge in Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro, di Matteo Renzi e Lapo Pistelli, 1999). Una ventina d’anni fa lo faceva Andrea De Carlo nel suo Arcodamore («potresti non dire un attimino, per piacere?»; era il 1993).1 Trentacinque anni fa lo faceva Ottiero Ottieri («e per piacere non dica “attimino”», Di chi è la colpa, 1979), segno che quel diminutivo era già un tormentone. E in effetti: «Please, mi reggi un attimino tu il volante?», chiedeva Claudio Baglioni a una bella autostoppista nella sua W l’Inghilterra (1973), forse cercando di trasformare un tormentone linguistico in un tormentone musicale.

Già, perché la parola tormentone ha ormai da tempo diversi significati, tutti tenuti insieme dalla parentela etimologica (evidente a prima vista) con il tormento, cioè con il latino tormentum “strumento di tortura”, a sua volta dal verbo torquère “torcere”. In campo giornalistico s’intende per tormentone un argomento proposto con insistenza eccessiva; nel mondo dello spettacolo, una battuta o un’azione ripetuta ossessivamente con intenti comici; in quello della canzone, un ritornello destinato a essere cantato all’infinito. In campo linguistico tormentone indica appunto uno stereotipo, una parola, una frase, un modo di dire che a un certo punto diventa di moda e invade – senza una reale necessità – i discorsi parlati e scritti di moltissimi parlanti e scriventi.

Negli anni Settanta c’è stato, ad esempio, il cioè messo alla berlina da Carlo Verdone in programmi televisivi come “Non stop” o in film come Un sacco bello. Scriveva Luca Goldoni nella prefazione di un suo libro intitolato proprio Cioè (1977): «Quando parlo con un ragazzo, al primo cioè mi concentro e dico stiamo attenti, adesso puntualizza meglio. Al secondo cioè strizzo gli occhi e mi sforzo per non perdere neppure una sfumatura. Al terzo cioè la mia tensione è allo spasimo. Poi mi lascio andare come un naufrago e non seguo più le capriole del discorso. Certo, certo, ripeto stancamente ... Non ci sono dubbi che, così come si dice “gli anni dei telefoni bianchi” o “gli anni del centrosinistra organico”, un giorno si dirà: gli anni del cioè».

Agli stessi anni risalgono i tic di «quelli che lo statu quo, che nella misura in cui, che nell’ottica» (come cantava Enzo Jannacci): tormentoni vagamente intellettualistici e politicizzati, tipici di quella generazione. La generazione, come ricorda Ornella Castellani Pollidori, del portare avanti un discorso, della presa di coscienza, del problema a monte, dello zoccolo duro, dell’uscita dal tunnel: «Chi è in là con gli anni le avverte ormai come terribilmente datate e le rapporta a una precisa fase del passato. Ai giovani d’oggi invece dicono poco o niente». Il fastidio per certe espressioni stereotipate, peraltro, era emerso già all’inizio della stagione contestataria. Racconta Gian Luigi Beccaria di una scritta apparsa su una lavagna della facoltà di Architettura di Roma durante l’occupazione del 1968: «I signori oratori si astengano dal pronunciare le seguenti parole: a livello, strumentalizzazione, al limite, demistificazione, documento, sensibilizzazione, discorso – dico discorso –, momento, nelle strutture, non a caso, nella misura in cui».

Per dimostrare che Una volta era tutto mitico, oggi è geniale, Luca Bottura – in un articolo dello scorso anno – citava il titolo di una canzone di De Gregori: L’aggettivo mitico, del 2001. Le canzoni, d’altra parte, si prestano a essere usate come una specie di carbonio 14 dei tormentoni linguistici: uno strumento per cercare di datarne la circolazione. Così, per storicizzare l’uso di tipo col valore di come, si potrebbe partire dal testo di Amico fragile, scritto da De André e dallo stesso De Gregori («luoghi meno comuni e più feroci, tipo “Come ti senti amico, amico fragile?”», 1975); per Esatto!, dall’omonima canzone portata a Sanremo da Francesco Salvi (1989); per come dire, da uno dei testi scritti per Lucio Battisti da Pasquale Panella («stemperi e riempi come dire centotré vasetti» A portata di mano, 1988).

Ma, a guardar bene, molti di questi tormentoni sono più vecchi. E non solo di qualche anno, come per il mitico di De Gregori, che risale almeno all’inizio del decennio precedente. Il come dire, ad esempio, non dispiaceva al Leopardi delle Operette morali («vivevano, come dire, da burla», «s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da lanterna»); certi usi di tipo si trovano già nel Bassani degli Occhiali d’oro («assorbito dalla relazione con qualche donnetta inconfessabile, tipo sarta, governante, serva») e prima ancora nel Marchese di Roccaverdina di Capuana («tipo Chianti, ma più forte»).

L’aspetto rilevante – quando si parla di tormentoni – non è la presenza, ma la frequenza con cui ricorrono certe parole o espressioni. Senza contare che, quando si parla di parole, la data di nascita non è quasi mai certa. Lo stesso tormentone, attribuito di solito ad Alberto Arbasino e datato 1969, circolava largamente negli anni precedenti («il tormentone delle preferenze» Zavattini, 1967; «ripetendo in chiave di tormentone» Dario Fo, 1966). Si può risalire almeno fino al 1920, quando lo scrittore e giornalista Antonio Baldini l’aveva usato per intitolare il capitolo finale di un suo libro: Il tormentone. Un epilogo. (Invece si era solo all’inizio: ce n’était qu’un début, si potrebbe dire, parafrasando un altro tormentone sessantottino).

I tormentoni e l’estasi. Da una parte quelle espressioni che tutti – chi più, chi meno – usiamo parlando come intercalari, riempitivi, formule di passaggio; dall’altra la libidine di chi le addita al pubblico ludibrio. Scriveva Francesco Piccolo nel suo L’Italia spensierata (2007): «Tra quelli che dicono “un attimino” e quelli che sbuffano, correggono e affermano “non sopporto quelli che dicono un attimino”; sto con i primi. È una vocazione». E Umberto Eco, in una Bustina di Minerva intitolata Come dire brutte parole in un attimino (1992), concludeva che «non esistono brutte parole»: «siamo noi che, usandole senza fantasia, le rendiamo odiose».2

Oggi una delle espressioni più odiate è il piuttosto che in funzione disgiuntiva, diffusosi dalla metà degli anni Novanta a partire da usi settentrionali. «È ormai abituale l’uso della parola piuttosto al posto della parola oppure», denuncia ad esempio la lettrice Ilaria Mosconi scrivendo a Corrado Augias (“la Repubblica”, 1° agosto 2004).

L’espressione è una delle Parole da buttare segnalate in una sorta di referendum indetto l’anno prima dall’inserto domenicale del “Sole 24 Ore” (Un inventario delle espressioni che i nostri lettori vogliono avviare allo smaltimento). Questa la classifica delle Dieci più aborrite pubblicata il 28 dicembre con il titolo Spazzadizionario 2003: 1. Quant’altro; 2. Assolutamente; 3. Un attimino; 4. Piuttosto che; 5. Esodo e controesodo; 6. Come dire; 7. Vacanzieri; 8. Spalmare; 9. Tra virgolette; 10. Polemica. Quello che colpisce – rileggendola oggi – non è tanto che l’avversione sia rivolta più alle cose che alle parole (in questi casi succede spesso), quanto il fatto che molte di quelle espressioni siano ancora in cima alle antipatie degli italiani.

Ecco, a dieci anni di distanza, le dieci parole peggiori del 2013 secondo un referendum indetto dalla trasmissione radiofonica “La lingua batte”: 1. Attenzionato; 2. Assolutamente sì; 3. Quant’altro, 4. Apericena; 5. Un attimino; 6. Piuttosto che; 7. Efficientare; 8. Location; 9. Skillare; 10. Anche no. Quelli che Diego Marani definiva – con la consueta postura estetizzante – «l’ineffabile assolutamente sì/no, il prolisso piuttosto che nel senso di “oppure”, il pedante attimino, l’immancabile quant’altro» sono tutti ancora lì. Difficile dire se si tratti di mode più durature o se sia solo l’antipatia per certi modi che è più dura a morire delle mode.

Del parlato, come si sa, non resta traccia: verba volant, dicevano gli antichi, ma scripta manent. E oggi, grazie a banche dati come quella di Google libri e a funzioni di ricerca come quelle di Google Ngram, si può tracciare, con un certo grado di verosimiglianza, la parabola di alcune parole o espressioni nell’uso a stampa degli ultimi secoli (o, come nel diagramma qui sotto, degli ultimi settant’anni).

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La parabola di quant’altro ci conferma la fortuna recente dell’espressione. Quella di nella misura in cui rende bene la vertiginosa escalation (tanto per usare un altro modismo) che va dai primi anni Sessanta fino al ’77, e ci dice anche che – quando il tormentone viene individuato e ridicolizzato – può rapidamente diradarsi, salvo poi riprendersi una volta che la censura collettiva si sia allentata. Un caso come quello di esatto, invece, ci fa capire come lo statuto di tormentone non coincida necessariamente con l’aumento della frequenza d’uso assoluta, ma con l’affermarsi di certi usi impropri o comunque svuotati del significato originario.

Fermo restando che il tormentone è tale soprattutto perché come tale viene percepito, come dimostrano i destini incrociati di mitico e di geniale. L’uso (poi abuso) di mitico risulta, dopo la costante crescita novecentesca e il picco alla metà degli anni Ottanta, leggermente in calo; ma geniale appare, ancora in anni recenti, meno usato di mitico e soprattutto molto meno usato (nello scritto) rispetto alla prima metà del Novecento.

Il ticchettio dei tic, d’altronde, segna da secoli il tempo della nostra lingua. Nel 1961, Dino Provenzal notava nel suo Curiosità e capricci della lingua italiana: «C’è chi ogni tre parole dice: “Morale: ecc.”. La “morale” sta bene in fondo all’apologo, ma non in mezzo a un discorso. C’è chi dice continuamente “tra parentesi”. Ma se tutto sta chiuso tra parentesi fuori che ci resta?». E metteva a confronto questi intercalari con altre espressioni effimere «come il suggestivo di mezzo secolo fa, il fantastico che imperversò nel primo dopoguerra e l’allucinante, lo sconcertante, il senz’altro di oggi».

Dal senz’altro al quant’altro. Oggi, c’è chi prende in giro il presidente della Lazio chiamandolo Claudio “quant’altro” Lotito; ma già il capufficio ritratto nel Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi (1890) veniva chiamato dai suoi sottoposti “cavalier Laonde”, per via dei «molti laonde, che seminava ne’ suoi periodi».

Lo stesso Manzoni, nei Promessi sposi, sembra usare con le pinze alcune espressioni additate – più o meno apertamente – come modismi. L’ironia più esplicita riguarda l’uso figurato di pagina: «Sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia», documentato in effetti solo dai primi dell’Ottocento. Formule simili accompagnano anche altre espressioni, come di carattere, “dalla forte personalità”, («Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere») o originale nel senso di “bizzarro, stravagante” («ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora»), espressione glossata già da Leopardi nel XCVII dei suoi Pensieri: «Quegli uomini che i francesi chiamano originali, non solamente non sono rari, ma sono tanto comuni che sto per dire che la cosa più rara nella società è di trovare un uomo che veramente non sia, come si dice, un originale».3

Era pignolo, Leopardi, in fatto di lingua: «sofistichissimo», per usare le sue stesse parole, «anche in fatto di punteggiatura»; perché, come scriveva in un’altra lettera a Pietro Giordani, «spesse volte una sola virgola ben messa dà luce a tutto il periodo». Se avrete la pazienza di seguirmi (tormentone niente male anche questo), vedrete coi vostri occhi che lo stesso non può dirsi di molti scrittori dei nostri giorni.

1 Nello stesso anno, Fulvio Scaparro pubblicava il pamphlet L’attimino sfuggente e nel 1997 Filippo La Porta – nel suo Non c’è problema. Divagazioni morali su modi di dire e frasi fatte – ribadiva: «Con “un attimino” siamo davvero al microattimo fuggente, al frammento pulviscolare, al momento fugace che già evapora mentre lo pronunciamo ... verso una zona deresponsabilizzata, libera da obblighi e impegni, extralight».

2 Un paio d’anni prima, Eco aveva usato un’argomentazione non dissimile nel suo Modi di non dire esatto. «Non vi è nulla di fondamentalmente inesatto nel dire esatto, salvo che chi lo pronuncia dimostra di aver appreso l’italiano solo dalla televisione. Dire esatto è come ostentare in soggiorno un’enciclopedia che notoriamente viene data in premio solo agli acquirenti di un detersivo». Ma anche in quel caso la moda era cominciata già da un po’. A ricordarcelo è, nel 1977, lo stesso Luca Goldoni di Cioè: «Anni fa (quando non era ancora di moda) mi piaceva sentirmi interrompere da un interlocutore con l’espressione: esatto. Adesso, appena apro bocca, è subito un crepitare di esatto. È diventata la formula per liquidare elegantemente il pensiero altrui e affermare il proprio».

3 A proposito di tormentoni, c’è stata un’epoca in cui uno dei più odiati era proprio l’avverbio che apre il titolo di questo libro. Scriveva Pestelli nel suo Parlare italiano (1957): «Avemmo sott’occhio lo sfogo d’una signorina contro l’avverbio Comunque, usato, come oggi si fa, nel vuoto: cioè, tanto fuori d’una proposizione sospesa per in qualsivoglia modo (“lo faccia comunque”), quanto assolutamente per comunque si sia o si fosse (“comunque, parto”). ... Lo dice evasivo, falso, viscido, vigliacco e peggio». A Pestelli, però, quell’avverbio non dispiace: «Per tornare al fortunato e tanto comodo comunque, chi volesse toglierne maggior riparo, ricordi che è allungabile in comunquemente, e non già a capriccio, ma col conforto dei dizionari e la sovrana autorità del Bembo». Solo che se questo libro si fosse intitolato Comunquemente anche Leopardi diceva le parolacce, nessuno avrebbe pensato a Bembo (il padre della nostra lingua che così spesso abbiamo avuto modo di evocare): tutti avrebbero pensato a Cetto La Qualunque, il personaggio di Antonio Albanese protagonista del film Qualunquemente.