Qualche tempo fa, nella sua pagina facebook, una professoressa raccontava il ripasso di analisi logica fatto in classe. Frase: La torta è stata fatta dalla nonna. Domanda: «Che complemento è “dalla nonna”?». Risposta: «Quello del poliziotto». «Quale poliziotto?». «Ma sì, quello là: agente, carabiniere, poliziotto, è uguale...».

Può capitare a tutti di non riconoscere un complemento. Anzi, viene da chiedersi perché la grammatica a scuola finisca spesso col ridursi a una pura tassonomia: una serie di nomi e di categorie che nella loro astrazione non sembrano avere (e in molti casi non hanno) una ricaduta reale sulla capacità di esprimersi adeguatamente in italiano. Quando invece la grammatica non è solo un insieme di regole astratte: è uno strumento dinamico, decisivo per l’appartenenza a una comunità e per la costruzione di una cittadinanza consapevole. «La fortuna di un popolo dipende dallo stato della sua grammatica», affermava il grande scrittore portoghese Fernando Pessoa: «non esiste grande nazione senza proprietà di linguaggio».

È evidente che – oggi più che mai – chi non possiede strumenti linguistici adeguati rimane un individuo a cittadinanza limitata. Non a caso, nei documenti programmatici del progetto OCSE sulla cosiddetta literacy, la competenza di lettura è definita come la capacità di interagire con l’informazione scritta per poter sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità e svolgere nella società un ruolo attivo. Purtroppo, conosciamo bene i recenti dati OCSE sulle competenze di lettura degli italiani. Circa un quarto dei nostri quindicenni si colloca al livello più basso delle capacità di comprensione di un testo; un altro quinto sta messo ancora peggio: manca, cioè, delle competenze minime per fare della lettura un’attività funzionale.

Di fronte a questi risultati, mettersi a lodare il tempo che fu è un atteggiamento non solo inutile, ma sbagliato. Anche perché non va dimenticato che nel 1861, l’anno della proclamazione del Regno d’Italia, gli analfabeti (parliamo di analfabetismo totale, non – come oggi – funzionale, o di ritorno) rappresentavano circa il 73% della popolazione e un secolo dopo, quasi metà degli italiani non aveva neanche la licenza elementare (nel 1971 erano ancora un terzo). Invece di rimpiangere il passato, bisogna sfruttare le occasioni che il presente ci offre. Ad esempio il fatto che la scrittura ha ormai invaso – grazie a e-mail, sms e chat – la vita quotidiana di tutti noi (tanto più quella dei giovani); o che Internet ci consente di attingere in maniera immediata a uno sterminato archivio delle più svariate forme di testualità (non solo scritta).

Questi e altri aspetti del mondo in cui viviamo non andrebbero demonizzati, ma utilizzati per rinnovare l’insegnamento della grammatica partendo da alcuni valori condivisi: realismo (materiali linguistici presi dalla realtà e non frasette o discorsetti inventati); pragmatismo (parlare e scrivere bene significa esprimersi in maniera adeguata ed efficace rispetto a un destinatario, a un argomento, a un obiettivo); pluralismo (giusto e sbagliato dipendono spesso dalla situazione in cui ci si trova a comunicare); dinamismo (una lingua viva è in continua evoluzione).

Non la grammatica un tanto al grammo, insomma, ma un insegnamento olistico che – senza trascurare nessuna delle parti – tenga sempre presente l’insieme: quell’intero che in una lingua è rappresentato innanzi tutto dai testi. Dalla concretezza dei vari usi, dunque: quello letterario, quello giornalistico, quello politico, quello scientifico, quello professionale, quello televisivo, quello telematico; abituando i ragazzi e le ragazze a passare da una tipologia all’altra, da un registro all’altro. Perché, in fondo, la grammatica è l’arte di dire le cose nel modo giusto al momento giusto. Le regole sono importanti, ma il piatto del giorno non può essere sempre linguine alla norma.

I modelli su cui si forma di solito l’idea di grammatica (grammatica come norma linguistica) sono da un lato – esplicitamente – la scuola; dall’altro – più o meno inconsapevolmente – i mezzi di comunicazione di massa (la tv per la lingua parlata, Internet e i social network per quella scritta). Proprio la grande distanza tra questi modelli è alla base di quella lacerazione tra l’essere (“si usa dire così”) e il dover essere (“ma si dovrebbe dire cosà”) che finisce tante volte col mettere in crisi i parlanti. Forse il vero italiano virtuale è quello di certa scuola, che ha continuato a trasmettere (grazie al potere della matita rossa e blu) un’immagine di lingua sempre meno aderente alla realtà circostante. Mantenendo in vita un improbabile “scolastichese”, s’instilla nei ragazzi l’idea che esista una specie di doppia verità linguistica e, separando drasticamente la norma dall’uso, si finisce con l’alimentare atteggiamenti di lassismo e di rinuncia (“tanto la grammatica che m’insegnano a scuola nella vita vera non serve”).

L’ultimo garante della norma potrebbe diventare allora il correttore automatico, il cyber-maestro dalla penna rossa (e verde, per gli errori di sintassi e stile) che assiste alla composizione di tutti i nostri testi digitati: nel segreto della tua scrittura privata, la prof. non ti vede; il correttore automatico sì. Ma la sottile linea rossa (o verde) del correttore automatico non è poi un baluardo così solido. La sua natura meccanica, infatti, gli impedisce di cogliere le sfumature che – di là dall’ortografia – sono legate alla diversa formalità di un testo, al diverso tono, alle diverse intenzioni espressive. Senza tener conto che, come ha scritto Gian Luigi Beccaria, «la lingua non è un catechismo, e la grammatica è colma di oscillazioni, contraddizioni e incoerenze». Quella che divide la norma dall’errore è appunto una linea sottile: un confine labile e soprattutto mobile.

La nostra parola deriva dalle parabole evangeliche, ma – come ricordava icasticamente Raffaele Simone nel suo Libro d’italiano (1976) – «le “regole” di una “lingua”, le “leggi” che bisogna rispettare nel parlarle, NON CI SONO IMPOSTE DA DIO, non sono fissate per l’eternità». E invece in molte classi continua a essere diffusa proprio quella «grammatica-catechismo che si impara come un dogma di fede e che ti educa a considerare l’italiano come una reliquia intoccabile» (sono parole di Andrea De Benedetti); quella «norma-sommersa» (per usare una definizione di Luca Serianni), in base alla quale «alcune prescrizioni particolari, senza effettivo fondamento nella grammatica o negli usi reali della lingua, si trasmettono con una costanza degna di miglior causa».

I punti dolenti corrispondono ad altrettanti luoghi comuni del conservatorismo normativo: la caccia alle ripetizioni, ad esempio; la censura di quelle che i linguisti chiamano dislocazioni, normali già da tempo anche nella lingua scritta (costrutti come fagli questo bel regalo a tuo nonno vengono in certi casi segnati come errore dagli insegnanti, anche in temi che chiedono di scrivere una lettera a un amico); l’insofferenza per gli col valore di “a loro” e per lui, lei, loro in funzione di soggetto (ne abbiamo già parlato nel primo capitolo).

Certo, il problema non è di oggi. Basta guardare i quaderni di Checchina Ferri, scolara novenne di Sulmona, relativi agli anni scolastici 1876 e 1877. Seguendo arcaici modelli letterari, nelle frasette copiate o composte da Checchina il pronome soggetto è addirittura desso: «non sembrava desso», «pareva desso, ma poi non era»; a tornare si preferisce riedere («il riedere da Roma a Solmona è un gran dispiacere»), accanto a tutta una schiera di sinonimi aulici impiegati in riferimento alla vita di tutti i giorni: «è molto veglio il tuo cappello», «ho comprato uno speglio», «la polve è brutta», «sei molto ultore» (ultore, tra l’altro, vuol dire “vendicatore” e non “vendicativo”).1

In realtà, quell’italiano antico – troppo spesso idealizzato dai puristi ottocenteschi e poi da tutta una tradizione scolastica – ci mette a volte di fronte a forme e costrutti censurati in seguito dalla tradizione grammaticale. In certi casi, proprio quelli che oggi si additano come spie di una presunta decadenza linguistica. C’è il classico a me mi («una dallato ritta a me mi parve udir sonare» Boccaccio, Amorosa visione) o il periodo ipotetico con l’indicativo al posto del condizionale («se lo re Giamo avesse voluto, don Federigo suo fratello rimanea preso» Giovanni Villani, Cronica); ci sono vari usi anomali del che, come in «quale è la cagione che tu hai sete o fame?» (fatte le dovute proporzioni, non siamo troppo lontani dal Jovanotti di «sono fortunato perché non c’è niente che ho bisogno»).

Ferme restando le radicali differenze nella punteggiatura, i periodi si aprono spesso con E («Fece menare la rota de lo carro sopre lo capo de lo patre. Et tutto lo cerviello li aczacao») o anche – secondo il modello latino della cosiddetta coniunctio relativa – con il quale, la quale: «Santa Elisabet, filia del re d’Ungaria. La quale un giorno...» («per cui la quale cicale cicale cicale», Heather Parisi). Più in generale, abbondano gli anacoluti e le concordanze a senso, frequenti – ad esempio – nel Decameron: «Partissi adunque il Saladino e’ compagni» («anche se tante cose un senso non ce l’ha», commenterebbe qui Vasco Rossi).

L’abbinamento con le canzoni è solo un gioco. Ma è evidente che siamo in presenza di quel fenomeno messo in luce trent’anni fa da Giovanni Nencioni in un intervento intitolato proprio Costanza dell’antico nel parlato moderno: «Molti dei fatti censurati si conservarono nell’uso parlato, e nell’uso scritto di autori spregiudicati, sì che riaffiorano oggi alla superficie di un italiano agile e spedito». E in quei due aggettivi (agile e spedito) sembra di risentire l’auspicio fatto – altri vent’anni prima – da Italo Calvino: che l’italiano potesse diventare una lingua strumentalmente moderna, sconfiggendo l’antilingua «di chi non sa dire ho fatto ma deve dire ho effettuato».

Se ne potrebbe dedurre che alla scuola italiana la cultura del fare non sia mai andata troppo a genio. Anche in questo caso si tratta di una vecchia storia, se è vero che già nel Correttore degli errori più comuni di grammatica pubblicato nel 1936 (anno XV dell’èra fascista) si trovavano intere pagine di esercizi miranti a estirpare l’Abuso del verbo fare. «Faremo per terra una linea che servirà a segnare i confini del gioco» (come sinonimo corretto viene suggerito tracceremo), «il signor Podestà fece un discorso che fu molto applaudito» (pronunciò), «la cuoca ci ha fatto un pranzo squisito» (ammannito), «il Governo ha fatto una legge molto severa contro la bestemmia» (emanato o promulgato). Viene in mente il verbo perbenire, coniato da Tullio De Mauro quando era ancora un bambino e nel grido «per-be-ni-to-mus-so-li-ni-e-ja-e-ja-a-la-la» pensava di sentire il participio passato di un verbo: io perbenisco, tu perbenisci, ecc.

Basta scorrere le correzioni fatte da molti insegnanti delle scuole superiori, per rendersi conto che ancora oggi sono frequentissimi atteggiamenti di ostinato e oltranzista perbenismo lessicale: «non facevo i compiti [svolgevo, eseguivo]», «lui è arrabbiato [in collera]», «passano [circolano] molte macchine», «gli affari vanno più che bene [producono soddisfazioni]», «non c’è molto rumore [non si odono rumori]», «io mi misi [ricoprii il ruolo] in attacco». Altro che pane al pane e vino al vino: Serianni parla in proposito di calofemismi, perché qui non c’è – come negli eufemismi (dal greco eu “bene”) – una realtà sgradevole da rendere accettabile; c’è la convinzione che quei sinonimi servano a rendere il testo più “bello” (greco kalòs).

È quello che Beppe Severgnini chiama l’«italiano parallelo»: l’astratta lingua in cui «nessuno va, tutti si recano»; in cui «i capi non sgridano, redarguiscono e le ragazze non vengono avanti, incedono; non si fermano, s’arrestano; non se ne vanno, prendono commiato»; in cui «la faccia diventa volto, la pancia ventre, la testa capo e i piedi estremità».

Già: perché bisogna stare attenti anche a dove si mettono i piedi. Come ricordava centocinquant’anni fa Tommaseo nel suo dizionario, infatti, «il popolo, segnatamente nominando i piedi dinanzi a persone di riguardo, soggiunge: “Con rispetto parlando”, per non poter essere i piedi puliti come le mani; e perché con l’estremità del corpo più bassa l’uomo tocca quel ch’ha d’insalubre e d’immondo la terra». Con rispetto parlando, i piedi: non ci potrebbe essere slogan o motto più adatto per una lingua che continua a galleggiare, sospesa senza tempo, in uno spazio sfinito.

Intanto, nel mondo reale...

1 Nella stessa direzione vanno i ricordi di Ferdinando Martini (ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Giolitti, 1892-1893). Quando era scolaro lui, «Dio guardi a dire mi son messo a studiare ... Come usava il Salvini? Mi sono addato. – Io credo? Neanche per sogno! M’è avviso, son di credere, come insegna il Giambullari. Peggio, poi, chi osasse dare addirittura un tuffo nel volgare e finire una lettera col sono tuo affezionatissimo amico. Il commendator Annibal Caro era stato forse al mondo per nulla? Non aveva egli scritto mi ti do e dono per amicissimo? E ci dovevamo dare e donare per amicissimi anche noialtri».