«Svegliati! Svegliati, cazzo!»1

Così comincia Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, il romanzo che nel 2007 ha vinto il premio Strega, il più ambito premio letterario italiano. A trent’anni di distanza da Porci con le ali e da quell’incipit in cui le doppie zeta anatomiche erano evocate quattro volte di seguito, le parolacce non destano più nessuno scandalo. Soprattutto, non hanno più alcuna carica ideologico-espressiva. «Un incipit così», ha scritto di recente Lidia Ravera (autrice, insieme a Marco Lombardo Radice di quel finto Diario sessuo-politico di due adolescenti uscito nel 1976) «non prometteva niente di serio. Non un classico dell’erotico, né un testo sperimentale. Ma neppure un ponderato saggio sulla liberazione sessuale, ciò che avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni mie e di Marco». Trent’anni dopo, la liberazione non è stata tanto sessuo-politica quanto sessuo-verbale.

Le parolacce infatti, che ci piaccia o no, fanno ormai parte del modo di esprimersi quotidiano di quasi tutti gli italiani. Secondo uno studio del 2000, in televisione se ne sentivano 70-100 al giorno; secondo un altro del 2003, una ogni 21 minuti (negli USA studi analoghi hanno raggiunto conclusioni non molto diverse); nel film campione d’incassi Natale sul Nilo (2002) se ne contavano cento in cento minuti. Nazional-popolare per nazional-popolare, nell’edizione 2008 del Festival di Sanremo, le parolacce che hanno risuonato sul palco dell’Ariston sono state cinque: un paio nella canzone di Marco Masini (già celebre per titoli come Vaffanculo e Bella stronza), un paio nel brano rock degli Afterhours, una in quello rap dei Gemelli Diversi. L’anno prima erano state altrettante, ma pronunciate da cantanti di età ed estrazione molto diversa: oltre a Daniele Silvestri (che qualche anno prima ci scherzava su: «Per non dire cazzo, dire in quanto donna io non ce l’ho») e ai giovani Pietro Baù e Pier Cortese, anche Fabio Concato e persino Milva, che cantava un testo dello scrittore bestseller Giorgio Faletti.

Già nel 1993, d’altra parte, cazzo risultava al 722° posto tra i vocaboli più ricorrenti nel parlato degli italiani: dopo notare e prima di verde. Nel frattempo il telefonino – percepito ormai come una sorta di protesi – ha portato con sé l’allargarsi indefinito della sfera del privato. Si parla (e si scrive) dei fatti propri in qualunque momento, in qualunque situazione, di fronte a chiunque, con un conseguente allentarsi del comune senso del pudore linguistico. E a tutto ciò si aggiunge la facilità con la quale si possono cogliere, registrare e diffondere situazioni comunicative che fino a poco fa si sarebbero esaurite nella dimensione privata (la sindrome di YouTube).

Nell’èra della riproducibilità tecnologica a oltranza, il confine – anche linguistico – tra privato e pubblico è diventato sempre più labile, consentendo un continuo sconfinamento della prima sfera nella seconda. Un fatto non secondario, visto che il confine tra pubblico e privato coincide in gran parte con quello tra formale e informale: quindi condiziona pesantemente – in ogni epoca – la scelta del registro espressivo. Il privato, insomma, è diventato pubblico: non politico, come voleva il movimentismo di sinistra.

Ma la detabuizzazione del turpiloquio (lo “sdoganamento intellettuale” delle parolacce) proviene proprio da lì, dalla contestazione studentesca. Nella prima metà del secolo scorso, come racconta Giovanni Nencioni, «pareva spinta, e non pronunciabile davanti a donne, anche la locuzione metaforica rifarsi una verginità». E il filologo Giorgio Pasquali notava scandalizzato in un saggio del ’41: «Oggi signore e studentesse dicono, senza rossore né consapevolezza, fesso, me ne frego, lo sfotto,2 che sono in origine termini sessuali ... al tempo che io ero scolaro, a Roma verso il ’900, quello che ora pare il più innocente di tali vocaboli, fesso, attirava un ceffone dalle mani paterne». All’inizio del film Umberto D. (regia di Vittorio De Sica, 1952), il protagonista – un funzionario in pensione – attacca discorso con un passante e parla male della sua padrona di casa:

– Mi ha anche aumentato l’affitto quella... scusi...

– No, dica pure, dica pure, siamo tra uomini: puttana, puttana!

Siamo tra uomini. Fino ai primi anni Sessanta, le parolacce si potevano considerare ancora cosa da uomini, caratteristiche soprattutto di ambienti chiusi come le caserme (a lungo per linguaggio da caserma si è inteso proprio il turpiloquio) o di un ambiente sociale svantaggiato. Dopo il fatidico ’68, sull’onda della contestazione, quelle parole proibite sono diventate rapidamente alla moda, tutt’uno coi tic linguistici del cosiddetto “sinistrese”.

Nell’ironico dizionarietto intitolato Il piccolo sinistrese illustrato (di Paolo Flores D’Arcais e Giampiero Mughini, 1977), si possono trovare parole ed espressioni come impegno, militanza, oggettivamente («è la parola chiave del terrorismo ideologico»), il personale è politico, revisionismo, ribadire («è un non dire pieno di forza, di energie, di convinzione»), struttura e sovrastruttura, ma anche cazzate («parola magica che esorcizza») e scopare. E basta sfogliare la raccolta Care compagne, cari compagni. Lettere a Lotta Continua (1978), per rendersi conto dell’iteratività rituale con cui venivano usate certe parolacce: «mi riferisco alle varie cazzate fatte durante il percorso del corteo»; «io non parlo delle altre femministe (per ora), ma di te che non capisci un cazzo»; «ha deciso di farla finita con questa vita merdosa e ruffiana»; «ma quanti compagni hanno veramente capito che cazzo vuol dire questa storia del personale e del politico?».3

Di lì ai salotti, il passo fu breve: «Nei salotti moderni, nelle famiglie – le disagiate, le agiate e le ricche – oggi si parla come in tempi per nulla lontani non si sarebbe osato», scrive Italo Zingarelli nel 1979, «e nelle conversazioni trovano posto barbarismi, sproloqui, battute oscene e frasi irrispettose».

Quello che è cambiato è lo spazio sociale. Ma le parolacce non sono certo un’invenzione della modernità. Il turpiloquio, anzi, è presente fin dalle più remote attestazioni della nostra lingua. Basta pensare a quell’iscrizione risalente alla fine dell’XI secolo conservata a Roma nella Basilica inferiore di San Clemente. È la didascalia di un affresco in cui il santo, proprio mentre i servi del pagano Sisinnio cercano di farlo prigioniero, viene trasformato per miracolo in una pesantissima colonna di pietra. Sisinnio, innervosito, esorta con veemenza i suoi servi: «Fili de le pute traite».

Basta pensare alle parolacce che Dante fa dire ai personaggi del suo poema. Già i contemporanei dovettero esserne colpiti, se è vero che uno dei suoi primi commentatori – Iacomo della Lana – volle giustificare quella «parladura sporca e villana» spiegando che Dante se ne servì perché «la materia e l’atto del luogo lo costrinse», essendo quel luogo «l’inferno, in lo quale è ogni inordinazione e disconcio». Ed è in effetti nel diciottesimo canto dell’Inferno che s’incontrano Alessio Interminelli «col capo sì di merda lordo» e «l’unghie merdose» di Taide, «la puttana che rispuose al drudo suo»; nel ventunesimo della stessa cantica il diavolo Barbariccia, che «aveva del cul fatto trombetta», e nel ventottesimo persino Maometto, ridotto in modo tale da mostrare «’l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia».

Basta pensare al lessico erotico di Pietro Aretino e più in generale alla tradizione comica cinquecentesca. A quel gusto un po’ pecoreccio che si può nobilitare risalendo agli italici sales d’ascendenza plautina, ma alla fin fine consiste in un cumulo di ammiccamenti piccanti e doppi sensi a sfondo sessuale. Intere scene della Calandra di Bibbiena o della Moscheta di Ruzante sono basate su questo tipo di equivoci. E un’esclamazione come potta! (che in origine si riferiva al sesso femminile) è usata dal fiorentino Machiavelli e dal napoletano Della Porta, dall’emiliano Ariosto e dal nolano Bruno. Il linguaggio comico vive, in questo campo, di un delicato equilibrio tra l’effetto crudo dell’oscenità e il gusto eufemistico (ma anche linguaiolo) per l’allusione più o meno velata, per la metafora fantasiosa, per la similitudine bizzarra. Soprattutto i discorsi dei personaggi di bassa estrazione sociale (uomini e donne) si riempiono così di bastoni, di code, di chiodi e bardelle, chiavi e toppe, manici e vanghe. Nella Mandragola di Machiavelli, Callimaco si può rivolgere a Nicia dicendogli di aver paura che sua moglie «la notte non sia mal coperta» e nel Candelaio di Giordano Bruno, Marta può rimpiangere quel tempo in cui lei e suo marito giocavano «a gamba a collo, alla strettola, a infilare, a spaccafico, al sorecillo, alla zoppa, alla sciancata, a retoncunno, a spacciainsieme, a quattro spinte, quattro botte, tre pertosa ed un buchetto».

Il turpiloquio sarà censurato dalla tradizione classicistica, che prese a modello la lingua idealizzata e antirealistica del Petrarca. (Il solito Pietro Bembo escludeva Dante dal canone dei modelli di lingua anche per via delle sue parole «rozze e disonorate»). Ma resterà ben vivo in quella puristica, che guardava appunto a Dante e alla presunta spontaneità del toscanesimo popolare. Una certa apertura in questo senso è mostrata anche dal Vocabolario della Crusca. Trovando nella quarta edizione del Vocabolario (1729-1738) la serie Fottitore, Fottitoio, Fottitura, Fottuto, Manzoni commentava a margine del suo esemplare con un quadruplo Ohibò! e annotava: «Perché tutte queste schifezze?». Meno pudichi si mostravano in quegli anni altri suoi colleghi, che – facendosi forti del motto ciceroniano per cui «littera non erubescit» (la lettera non arrossisce) – non esitavano a colorire i loro epistolari familiari con espressioni un po’ sboccate. Si va da Carlo Porta («il viaggio per colà è più breve di cinque miglia, e non costa un cazzo») a Pietro Giordani («la coglionaggine che mostrava superlativa»), da Giosue Carducci («sarebbe come se tu dicessi ... Giosue Carducci è un coglione») a Gino Capponi («l’Italia, la quale con queste stolide adulazioni si rincalza ogni giorno più nella merda»). Senza contare i musicisti («è un gran piacere trovarsi nel caso sempre di mandare a far ff.re tutto e tutti non è vero?», Vincenzo Bellini), gli scultori («Oh! Cazzo cazzo, osaste mai credere che mi fossi montata la testa per il Cavalierato?», Antonio Canova), gli uomini politici («bisogna che io pianga la mia coglioneria», Francesco Crispi).

Non si sottrae neppure il grammatico Basilio Puoti, un religioso di fede linguistica purista. Nello scrivere al canonico Raffaele Masi (dunque a un altro religioso), don Basilio inveisce nei confronti di un conoscente comune, chiamandolo coglione e arcicoglione; poi, in chiusura, mette le mani avanti: «Né vogliate vedermi o troppo avventato o troppo iroso se dico così». Evidentemente, Masi reagisce con un rimprovero o almeno con un blando richiamo, perché nella risposta Puoti si scusa: «Avete ragione, ché quando in me si riscalda la bile, io corro troppo con la penna». Ma poi, nel giustificarsi, se ne fa quasi scappare un’altra: «Il nostro arciprete con la sua indolenza o col fot... di tutto il mondo, moverebbe la bile anche in Abele».

Molti, negli ultimi anni, si sono indignati per le tante parolacce che si sentono nelle intercettazioni telefoniche legate ai vari casi giudiziari subito trasformati in casi di cronaca. Ma in realtà tra le telefonate di oggi e gli epistolari del passato non c’è tutta questa differenza. Chi scrive (o parla) non sa che sarà letto (o ascoltato) da persone diverse da quelle a cui si sta rivolgendo e quindi seleziona un registro linguistico improntato alla massima informalità. La differenza è che le telefonate intercettate diventano pubbliche dopo pochi giorni o – al massimo – mesi, mentre quegli epistolari privati sono stati resi pubblici (e come tali letti e studiati) solo molti anni dopo la morte degli autori. E la differenza ancora maggiore – anzi: decisiva – tra le due epoche è che nessuno, fino a cinquant’anni fa, si sarebbe sognato di usare deliberatamente parolacce in una situazione pubblica: in una conferenza, in un comizio, o più tardi parlando alla radio (il primo fu Cesare Zavattini, che il 25 ottobre 1976 ricorse alle solite doppie zeta) o in televisione.

Basterebbe ricordare il casino che scoppiò al Giro d’Italia del 1966 quando, durante il “Processo alla tappa” (trasmissione condotta da un grande giornalista come Sergio Zavoli), Felice Gimondi – già numero uno del ciclismo italiano – disse a un certo punto: «Oggi non era facile andare in fuga, perché là davanti quelli della Molteni facevano un gran casino». Zavoli ebbe un richiamo ufficiale della Rai; a Gimondi fu negata qualunque apparizione televisiva fino all’anno dopo, quando – previa lettera di scuse – venne riammesso alle interviste. (E pensare che qualche mese fa casino l’ha detto anche il papa: «La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”»). Il famigerato Codice di autodisciplina per la televisione, promulgato nel 1954 e in vigore di fatto fino agli anni Settanta, elencava una lunga serie di parole proibite: tra le altre, vizio, verginità, alcova, seno (anche in espressioni come in seno all’assemblea) o membro (non era ammesso neanche membro del Parlamento). In un numero del periodico “Vie Nuove” del 1956 si legge addirittura che, nell’applicare pedissequamente queste indicazioni, i collaboratori dell’amministratore delegato Filiberto Guala (poi fattosi frate), imbattendosi nel celeberrimo verso leopardiano «Silvia rimembri ancor», lo emendarono prontamente in «Silvia ricordi ancor». Una forma di attenzione verso le caste orecchie di telespettatori e telespettatrici (ammesso che l’aneddoto sia vero), ma anche nei confronti della sacrale immagine del poeta.

E invece. Cresciuti nell’oscurantismo bigotto della Recanati papalina – dunque in un ambiente ben diverso dalla Milano illuminista del Settecento – i fratelli Leopardi usavano tra di loro una libertà di linguaggio non così distante da quella dei fratelli Verri (il cui epistolario è colmo di libertinaggio linguistico).

Scrive Carlo a Giacomo: «Sai una cosa? Io sento molto la tua assenza anche in ciò, che non posso in tutto il giorno sfogarmi in un linguaggio un poco libero; non ho uno con cui ragionando accaloratamente possa buttar giù i cazzi, i per D. ec.; sempre bisogna ritener le parole sulla bocca». Quando scrive a Giacomo, in effetti, Carlo cerca in tutti i modi di proteggere la loro privacy: «Caro Buccio» (questo il nomignolo con cui era chiamato dai fratelli), «ti scrivo così dalla parte della fodera perché sul diritto ti deve poi scriver Mamma, la quale mi hà dato sacra parola di non rivoltare, sicché possiamo parlar liberamente».4

Parlare liberamente voleva dire – ad esempio – confessare di non voler «passare per coglione col maestro di posta che ho pure prevenuto, il quale non vede venire un cazzo sotto questo nome, e sicuramente s’imagina di che si tratta» o lamentarsi «di certe cazzate musicali che mi furono mandate» o ancora sfogarsi «delle ciarle che da lungo tempo vagavano per questo sempre fottuto paese». Giacomo, da parte sua, rispondeva a tono («quel coglione di Peppe», «puttana, o se non altro civetta», «la vera letteratura, di qualunque genere sia, non vale un cazzo con gli stranieri»), ma non si peritava di usare un linguaggio simile anche nelle lettere ad altri corrispondenti. «Ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente», scrive a Pietro Brighenti; e anche: «Il mondo è fatto al rovescio, come quei dannati di Dante che avevano il culo dinanzi ed il petto di dietro». Con Antonio Papadopoli, invece, si vendica di una donna che l’aveva fatto soffrire: «Come mai ti può capire in mente che io continui d’andare da quella puttana della Malvezzi?».

La cosa era cominciata molti anni prima, in effetti. Questo qui sotto è l’inizio di una scherzosa lettera alla marchesa Roberti, amica di famiglia, firmata “La Befana” (era il 6 gennaio 1810, Giacomo aveva dodici anni):

Carissima Signora. Giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra conversazione, ma la neve mi ha rotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagattelle per cotesti figliuoli, acciocché siano buoni, ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altr’anno gli porterò un po’ di merda.

Anche se più comune tra uomini, questa libertà di linguaggio non si poteva considerare esclusiva della comunicazione maschile. Scriveva la sorella Paolina a Giacomo: «Delle lettere che voi gli scrivete [a Carlo] poche me ne fa vedere; l’ultima è stata quella ove parlavate dei balli, e di quanto vi sono seducenti le donne ec. – che mi piacque molto, benché fosse un poco libera; ma mi avete avvezzato a tanta libertà che ormai poco fastidio più mi dà». Ancora più significativo, in quanto spia di un’emancipazione anche al di fuori dei rapporti familiari, il caso di Giuseppina Strepponi (la seconda moglie di Verdi) che nello “scompartimento riservato” di una lettera a Giulio Ricordi scrive: «Qual è il colmo della sorpresa per un cacciatore?... – Mirare un uccello in testa, e pigliarlo invece in c...».5

Oggi, certo, la parità con gli uomini può dirsi raggiunta. «La parolaccia è un bene comune. Delle donne più che degli uomini, di questi tempi», spiega in un suo articolo Maria Laura Rodotà. E non solo in Italia. Nella serie televisiva americana Sex and the City, per dire, il 56% delle espressioni usate dalle protagoniste contiene “parole tabù”; di recente, una di queste (shit, per la cronaca) è stata usata in un’occasione pubblica dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, dando luogo a una polemica incentrata più sulla sua natura di anglicismo che di parolaccia.

Come che sia, tutta questa libertà nella lingua dei secoli scorsi è stata a lungo inaccettabile per gli storici (della letteratura e non solo): inconciliabile con l’immagine austera e monumentale attribuita ai grandi personaggi del passato. Così – spesso – nel pubblicarne le lettere, gli studiosi le ripulivano dalle intemperanze verbali più smaccate. Nelle edizioni ottocentesche del carteggio di Massimo d’Azeglio, rincoglionimento poteva diventare melensaggine, rompicoglioni essere edulcorato in rompiscatole, ciula in balordo e l’esclamazione cazzo! traslata in capperi! Simili interventi si trovano ogni tanto anche in edizioni novecentesche: nella classica edizione Moroncini dell’epistolario di Leopardi, ad esempio, un minchionerie dell’autografo diventa corbellerie.

«Ma quindi, Minchiòne non è una parolaccia! *-*?», si chiede un utente delle Yahoo answers, incontrando la parola in un racconto di Giovanni Verga: «Su un Brano Orrendo di antologia (La Roba) un personaggio viene definito Minchiòne... :’) e nella nota c’è scritto: sciocco, sbadato. Giusto per essere un tantino raffinati». Già, delle due l’una: o gli scrittori non le hanno usate, o non sono parolacce. Tertium non datur, perché gli scrittori – si sa – le parolacce non le usano.

(Detto tra noi: cosa vi ha dato più fastidio nella citazione appena riportata? Che in Yahoo anche gli italiani non cerchino risposte, ma answers? Che in minchione non si sia avvertita – trattandosi di Verga – l’eco del dialetto siciliano? Che il testo, come spesso accade nelle scritture in rete, sia linguisticamente trascurato: stipato, oltretutto, di sghembe faccine e di inutili maiuscole? Ve lo chiedo perché proprio agli anglicismi, ai dialettismi e alle scritture telematiche sono dedicati gli ultimi tre capitoli di questo libro).

1 Sarà bene avvisarvi subito: questo capitolo è pieno di parolacce. Quasi tutte parolacce d’autore, è vero, ma pur sempre parolacce. Si potrebbe applicare a questo capitolo la frase che campeggiava nella copertina del “Venerdì di Repubblica” il 30 ottobre 2009: «Attenzione! Questo giornale contiene turpiloquio. La lettura è sconsigliata ai minori. (E a chi non segue abitualmente il calcio, i tg e la tv in genere)». All’interno, il servizio principale s’intitolava: Basta la parola. Come fu che diventò vezzo pubblico quel che una volta era vizio privato. Sottotitolo: Iniziò il ’68 come provocazione. Continuarono le tv private per fare audience. Adesso il turpiloquio, sdoganato dalla Lega, dilaga anche in politica. Niente da dire: le cose stanno proprio così. Dunque, se volete evitare di leggere tutte le parolacce che gli scrittori del passato hanno detto (pardon: scritto), potete tranquillamente saltare al capitolo successivo.

2 Proprio così: senza accento. Parlando del ruolo svolto dai giornalisti umoristici nel diffondere questo tipo di lessico, Pasquali aggiunge in nota: «Interessante il termine sfottò. Uno di questi giornali grecizzò scherzosamente anche nell’alfabeto lo sfotto di cui sopra, σφοττω. Il termine da titolo verbale di rubrica è divenuto nuovo sostantivo comune». La rubrica a cui fa riferimento Pasquali dovrebbe essere «un’appendice alle Cronache d’Attualità del Bragaglia ... un curioso repertorio di trafiletti satirici che il Bragaglia chiama Sfottò», in cui – per usare le parole della rivista “L’Italia che scrive” (1923) – «sfotte tutti e anche se stesso». La prima notizia che se ne ha risale a qualche anno prima: “La Commedia della domenica” parla già nel 1919 degli «sfottò delle “Cronache d’attualità”». Parola futurista, potremmo definirla, visto che ritorna nel titolo di uno spettacolo portato in giro alla fine degli anni Venti dallo stesso Anton Giulio Bragaglia insieme a Bontempelli, Marinetti e Folgore: Mottò e sfottò jazzbandistici.

3 Chi poteva immaginare, all’epoca, che la parolaccia in politica sarebbe diventata dominio quasi esclusivo del qualunquismo di destra? Primo venne Bossi, poi Berlusconi, e ora Grillo che – quanto a turpiloquio – li sta surclassando entrambi. Dal linguaggio popolare a quello populista. Va detto, a onor del vero, che nella campagna elettorale del 2008 il Psi provò a rievocare la memoria della contestataria incazzatura («Sono donna e sono incazzata», «Sono gay e sono incazzato», «Sono giovane e sono incazzato», recitavano i manifesti). Ma non se ne accorse nessuno.

4 Sì: scrive proprio con l’accento, una grafia non così rara all’epoca, come si racconta qui al capitolo 2. Se quel capitolo non l’avete letto (magari perché, incuriositi dal titolo, siete passati direttamente a questo sulle parolacce), ora è il momento di tornare indietro.

5 Annotava Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone l’8 dicembre 1823: «Grazia dal contrasto. Parolacce in bocca di donne o di forme e maniere maschili, o gentili e delicate ec. ... S’intende di donne avvenenti ec. e che la maschilità non passi i termini del grazioso nello sconveniente».