Quando c’era egli era tutta un’altra cosa. La grammatica era rispettata, come ogni altra autorità. Tutti si esprimevano bene, e con gentilezza verso il prossimo. E anche se i treni non arrivavano già più in orario, tutto al mondo era ancora in ordine. O almeno ognuno sembrava stare al proprio posto, esattamente come i pronomi.

Roberto e Mariolina Nerelli sono due fanciulli di dodici e di dieci anni. Roberto è il primogenito, Mariolina la secondogenita. Essi abitano, con i loro genitori, a Roma; il loro babbo è funzionario di una Compagnia Aerea e, per questo motivo, viaggia molto. La loro mamma non ha un lavoro extradomestico; ella è una casalinga, accudisce alle faccende di casa con l’aiuto di una lavoratrice a ore e si occupa particolarmente dell’educazione e dell’istruzione dei suoi due bambini.

Questo brano, citato da Giuseppe Patota per mostrare la convergenza tra «grammatica della società e grammatica della lingua», proviene dal libro di testo su cui il futuro linguista – dodicenne – studiava l’italiano nel 1968. Anche in queste poche righe, perfettamente coerenti con una visione del mondo, della famiglia e della donna che oggi ci appare assurdamente retriva, la lingua indulge in un bamboleggiare ridicolo già all’epoca: i ragazzi sono fanciulli, il padre è il babbo e la madre è ella. Non di nome (come, che so io, Ella Fitzgerald), ma di pronome: in stretto ossequio alla rigida censura scolastica nei confronti di lei (e lui, e loro) in funzione di soggetto. Censura di lunghissimo corso, che risale alle origini della nostra tradizione grammaticale.

Già il padre della grammatica italiana, l’umanista veneziano Pietro Bembo, nelle sue Prose della volgar lingua (1525) faceva i salti mortali per cercare di dimostrare che scrivendo in un suo sonetto «ciò che non è lei», Petrarca – l’unico modello di lingua e di stile da lui ritenuto valido insieme a Boccaccio – non aveva usato lei come soggetto. I versi incriminati erano questi:

... et ò sì avezza

la mente a contemplar sola costei,

ch’altro non vede, et ciò che non è lei

già per antica usanza odia et disprezza.

Per uscire d’impaccio, un altro grammatico, Giovan Francesco Fortunio, aveva proposto, in quegli stessi anni, di cambiare il testo e farlo diventare «e non è in lei»; proposta riesumata, tra Sette e Ottocento, dagli Accademici della Crusca. Commentava sarcastico Alessandro Verri (sempre lui, l’illuminista milanese): «Ah poffare! un Petrarca reo di un errore di grammatica, con tanto scandalo de’ buoni?».

Poco più di mezzo secolo dopo, Vincenzo Monti – un altro che per la Crusca e il suo vocabolario non nutriva gran simpatia – torna sulla questione. Rifiuta l’aggiunta di quell’in, convinto che «per sospetto di una chimerica scorrezione grammaticale il delicatissimo sentimento del poeta sia stato miseramente tradito»; ma si guarda bene dal rinnegare, «come una delle più sante, la regola grammaticale che danna il pronome Lei in caso retto». Nega, piuttosto, «che quella regola rimanga infranta», impegnandosi anche lui (con grande dovizia di autorevoli esempi) a mostrare come «quel Lei del Petrarca sia un manifestissimo accusativo».

Negli stessi anni, un aspirante poeta come Carlo Leopardi (in certe cose il cognome non basta) scriveva al fratello commentando un proprio sonetto: «So che Lei non si può dire in caso retto, non so se disperare e avvampare si possano adoperare in senso attivo. Chi se ne frega? Per Recanati è d’avanzo». Ancora per molto tempo, in effetti, la trasgressione di questa regola ha provocato un brivido (o in altri casi un senso di colpa) simile a quello di un peccato.

A nulla è valso l’esempio di Manzoni, che nella seconda edizione dei Promessi sposi – coerente con il suo modello fiorentino parlato – ha tolto molti egli ed ella presenti nella prima edizione, preferendo usare le forme lui e lei. Prontamente contestato, peraltro, dai letterati dell’epoca. Scriveva Giovan Battista De Capitani – a caldo – nel suo Voci e maniere di dire più spesso mutate da Alessandro Manzoni (1842): «Se finora ci fu agevole il rinvenire le ragioni di appoggio alle mutazioni fatte dal nostro A., non è così in questa costante, dove, per quanto noi ci siamo distillato il cervello, non ci venne giammai dato di scoprire un esempio classico, e quel che più rileva, un motivo sodo e giusto d’introdurre una simile innovazione».

A nulla è valso, verrebbe da dire, anche il ’68; a nulla gli anni Settanta e le Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica promosse da Tullio De Mauro e da un agguerrito gruppo di linguisti; a nulla lo schiacciante affermarsi di lui e lei nel parlato (nel 1993, il rapporto fra egli e lui era di uno a venti; ella risultava definitivamente scomparso). Ancora oggi la demonizzazione continua ad agire tra le mura scolastiche, portando talvolta a effetti grotteschi. Spronati dalle correzioni dei loro insegnanti («lui non è un pronome soggetto», «lui non si usa come soggetto»), alcuni studenti cadono in clamorosi ipercorrettismi, producendo frasi in cui egli ed ella sono usati anche – in maniera agrammaticale – in funzione di complemento: «Guido spiegò ad egli», «è fortemente innamorato di ella».

E pensare che già negli anni Trenta, ci dice Alfredo Panzini (un letterato che per le novità linguistiche aveva poca simpatia), «lui e lei per egli ed ella sono d’uso comune», anche se ancora hanno «un po’ del confidenziale». Forse per questo il fascismo – nelle sue canzoni di propaganda – continuò a usare ella, come già accadeva nella passionale Vipera («ella portava un braccialetto strano / una vipera d’oro attorcigliata / che viscida parea sotto la mano», 1919) o nella moralistica Balocchi e profumi («ella nel salotto profumato ... porge il labbro tumido al peccato», 1929).

Mentre nelle canzoni lei comincia a fare capolino più spesso solo nei testi sanremesi degli anni Cinquanta («sapere che lei m’ama», Serenata a nessuno; «lei si avvicina alla fonte più divina / è già “mammina” ed io son già “papà”», Campana di Santa Lucia). E dagli anni Sessanta diventa dominante anche in canzoni dal tono melodrammatico («sull’altar lei sta piangendo» Tony Dallara, La novia), così come accade – ormai – per lui («lui mi è rimasto nel cuore» Rita Pavone, Lui). Qualche decennio dopo, ella ed egli rimangono disponibili solo in chiave ironica: «Parlandoti di me ti dirò egli», canta Battisti su testo di Pasquale Panella in Tubinga (1994); e nella lingua beffarda di Elio e le Storie Tese si trovano passaggi come «egli ha nascosto una microspia nei tuoi piedi di balsa» (Il vitello dai piedi di balsa, 1992).

Qualcosa di simile succede – con un po’ di ritardo – nei fumetti di Topolino, in cui di ella non c’è traccia già dagli anni Cinquanta, ma lui appare solo dal 1970 e ha la meglio su egli solo negli anni Ottanta. E anche, con un ritardo ulteriore, nella lingua dei giornali: fino a tutti gli anni Sessanta l’uso di lui rimane limitato a pochi casi con valore enfatico; dai primi anni Ottanta lei alterna con qualche sporadico essa; dall’inizio dei Novanta lei e lui si affermano stabilmente (anche se egli non smetterà mai del tutto di essere usato).

In molti altri ambiti della lingua scritta – dalla narrativa al teatro, dalla saggistica alla memorialistica – la svolta decisiva avviene negli anni Sessanta, quando l’uso di ella – e in misura minore di essa – si dirada radicalmente a favore di lei, e il rapporto paritario che c’era nel decennio precedente tra egli e lui si sbilancia a favore del secondo (esso risulta usato poco o nulla fin dagli anni Quaranta).

Al plurale, eglino ed elleno erano minoritari e aulici già nell’Ottocento. Nel primo capitolo dell’autobiografico L’età favolosa (1940), Bruno Cicognani rievoca un episodio accaduto alla metà del secolo precedente. Una mattina si presenta alle alunne un nuovo professore: «Un giovane basso, tarchiato, senza cura affatto del modo di mettersi, con una selva di capelli neri ondulati e alti intorno alla fronte aperta». Senza neanche salutare, «con una voce e un tono tra l’aspro e il solenne, comincia: – Elleno adunque...». Le ragazze scoppiano a ridere. Il professore, allora, fissa negli occhi la più allegra: «– Lo so che ella avrebbe detto: “Sicché loro ...”», le dice facendole il verso con un tono da monella, «– ma è bene intendersi sùbito: qui si conviene aver rispetto alla grammatica, qui non si parla al modo delle ciane».1

Eglino ed elleno erano troppo arcaici, loro troppo andante: di qui la precoce fortuna, al plurale, di essi ed esse. Per i quali, chissà perché, non vale la presunta regola (priva di qualunque fondamento storico) che al singolare riserva esso ed essa ad animali o cose. «Il pronome esso usasi tanto di persone che di cose», affermava già Fortunato Demattio nella sua Grammatica storica della lingua italiana (1872). E a buon diritto, visto che gli esempi partono dal Medioevo («Dice uno scolaio contra ad un altro: “Tu se’ venuto troppo tardi a scuola”. Et esso dice: “A te no ’nde rispondo”» Brunetto Latini, La Rettorica) e proseguono fino ai classici del Novecento: «Essa [Iduzza] poteva riferire, soltanto, di aver sofferto un grande capogiro» Elsa Morante, La storia). “Com’era umano esso” si potrebbe concludere, parafrasando Fantozzi. E com’è comico, ormai.

– Il mare l’abbiamo avuto anche noi a Milano, tutto cosparso del suo bell’ondeggìo che c’è dentro, esso andava...

– Esso?

– ...da Porta Lodovica fino in via Farini: via Torino tutto un scoglio, che c’è ancora il pesce adesso in via Spadari.

(Risate del pubblico).

– A me mi piace il mare.

– Piantala!

– A me mi piace il mare.

– Basta!

– Esso mi piace molto.

(Fragorose risate dal pubblico).

Così i comici Cochi e Renato, in una loro celebre gag. Due modi diversi di sottolineare quell’esso, perché esso – già all’inizio degli anni Settanta – faceva ridere. E fa ridere anche in anni più recenti («le varie funzioni a cui esso è preposto», cantano Elio e le Storie Tese in Silos), perché nessuno lo userebbe mai nel parlato, innanzi tutto; ma anche perché spesso è proprio di troppo.

Basta dare un’occhiata agli esempi inverosimili di tante grammatiche scolastiche: «un cane ha abbaiato a lungo, esso si trova in pericolo»; «ho accarezzato il gattino di Laura, esso si è messo a fare le fusa». Quello che non funziona non è tanto il pronome scelto, quanto il fatto che sia nel parlato (dove il collegamento tra le frasi sarebbe stato diverso) sia nello scritto (dove invece della virgola ci sarebbero voluti i due punti), la ripetizione del soggetto risulta ridondante.

L’italiano, a differenza dell’inglese o del francese, non richiede l’espressione obbligatoria del soggetto; e non sarà un caso che nella famosa revisione dei Promessi sposi, la gran parte dei vari egli ed ella non sia stata sostituita, ma drasticamente eliminata. «Dinanzi agli edifizii ammirati dallo straniero, egli pensa, con desiderio inquieto, al camperello del suo paese, alla casetta a cui egli ha già posti gli occhi addosso» diventa, ad esempio, «davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casetta a cui ha già messi gli occhi addosso» (capitolo VIII).

Ma l’Italia, si sa, è un paese di nostalgici, e tra i nostalgici di quando c’era egli si può trovare anche qualcuno che scrive sulle prime pagine dei giornali:

... pure oggi, e anche domani, egli rappresenterebbe un candidato di certo fortissimo in qualunque nuova elezione. ... All’Italia vecchia e immobile del sempre eguale, all’Italia dell’insipida chiacchiera politica per addetti ai lavori, dell’arabesco concettuale avvitato su se stesso, egli contrappone con la sua figura un Paese giovane ... Certo: egli è anche uno portato ad andare a volte oltre il segno ... Proprio da questo punto di vista appare sostanzialmente incomprensibile quanto egli sta facendo da tre mesi ... È singolare che oggi egli si faccia tentare dall’idea di diventare il segretario di un partito del genere. ... E a quel punto egli sarebbe in grado di imporre agevolmente le sue condizioni: sia per il programma che per la composizione delle liste. Quelle condizioni di rottura e di novità che di fronte al deserto e al vecchiume della Destra egli ha saputo rappresentare e in cui il Paese non vuole cessare di sperare.

Lui che scrive è Ernesto Galli Della Loggia (“Corriere della Sera”, 12 luglio 2013): egli chi è?

Se non ci siete arrivati, potreste provare a buttare un occhio ai prossimi capitoli: magari la soluzione è nascosta lì, visto che i politici citati saranno tanti. Attenzione, però, perché – come ammoniva Ennio Flaiano nella sua fulminante Grammatica essenziale (1959) – «è pericoloso sporgersi dal capitolo». Poi continuava con altri preziosi consigli: «Cedete il condizionale alle persone anziane, alle donne e agli invalidi. Lasciate l’avverbio dove vorreste trovarlo. Chi tocca l’apostrofo muore». Dovete fare molta attenzione, dunque, perché proprio di apostrofi si parla nel capitolo che sta per cominciare.

1 Se per caso non lo sapeste, la voce fiorentina ciana viene dal nome della protagonista di un melodramma settecentesco (Madama Ciana, cioè Luciana) e significa – o significava – “donna volgare, sguaiata, pettegola”. Ah, quasi dimenticavo: quel professore era Giosue Carducci.