Ora che gli italiani – grazie a sms e e-mail prima, a chat e social network poi – sono diventati un popolo di graforroici, anche le regole dell’ortografia cominciano a essere messe in crisi. Per rendersene conto basta navigare qualche ora in Internet, magari salpando da Google per una bella gita sul . Come tutti i principali motori di ricerca, Google non è sensibile ad apostrofi e accenti, per cui non si possono ricavare dati quantitativi. Tuttavia, basta una rapida ricognizione per accorgersi che un pò non si trova solo – larghissimamente – nei blog e nei forum, ma anche in comunicati stampa, report aziendali e brochure pubblicitarie, per non dire di tesi e tesine. Come i mulini di cui raccontava Riccardo Bacchelli, i po’ «si contano forse sulle dita, e ogni anno scemano, e per scoprirli bisogna andare apposta a cercarli». Ancora un poco – forse – e un pò diventerà la regola, un po’ l’eccezione (cioè, in prospettiva, l’errore).

La responsabilità, certo, è anche dei cattivi maestri. La frequenza dell’errore negli sms si dovrà – tra l’altro – al T9 di molti telefonini, che quando si digita la sequenza p + o fa apparire automaticamente sullo schermo un bel ; col risultato di risparmiare un carattere, ma non una figuraccia (almeno se il destinatario è tra quelli che non si sono adeguati alla nouvelle vague). Il fatto che in Twitter il sembri meno frequente (su un milione e duecentomila tweet analizzati da Stefania Spina nel luglio 2013, le grafie po’ sono il 76%; «il restante 24% è suddiviso tra po e il classico ») si dovrà anche agli smartphone, che di solito suggeriscono la forma corretta.

Ma a volte quegli stessi smartphone – e i loro cugini tablet – sono causa di altri guai: alcuni, ad esempio, trasformano i ce in c’è. Di qui l’effetto comicamente rivoluzionario (¡que viva il c’è!) di messaggi come questo di Fiorella Mannoia: «Politici... a tutte le ore. C’è ne fosse uno che ci dice in sintesi un programma», o quest’altro di Flavio Briatore: «I partiti. Se i soldi non c’è l’hanno non li spendono...».

A proposito di politici, l’onorevole Michaela Biancofiore («senza sentire n’è i dirigenti del Pdl n’è verificare la sensibilità dei nostri elettori») si difendeva così dallo sfottò di Gian Antonio Stella (Se per l’onorevole l’italiano è un optional): «Chiunque possieda un iPad può provare in questo istante a scrivere ne con l’accento e si troverà un ne apostrofato». Ma allora perché, come ricordava Stella nel suo articolo, l’onorevole scrive anche , stà e ? Risposta: «Ho scritto un po’ con l’accento sulla o, è vero, non come lo vedete ora, perché chiunque usi un computer sa che si trovano le lettere già accentate e che per mettere l’accento di lato devi fare tre mosse con la mano molto poco pratiche quando si scrive in velocità».1 (L’accento di lato?).

A un’altra onorevole, Roberta Lombardi, che nella sua pagina facebook aveva scritto, riferendosi al sito Dagospia, «di solito leggo fonti un pò più “alte”», Roberto D’Agostino (l’autore del sito) ha risposto: «Brava, continua a leggere “fonti un pò più ‘alte’”, magari scoprirai che un po’ si scrive con l’apostrofo...». Permaloso, ma ortograficamente impeccabile.

L’errore linguistico come arma di lotta politica, d’altra parte, non è certo una novità dei nostri giorni. Nel suo Come parlano i deputati (1913) Ernesto Rivalta racconta, ad esempio, di Marco Minghetti – sotto il cui governo, nel 1876, l’Italia raggiunse per la prima volta il pareggio di bilancio – che usava spesso gli per “a lei”; o di Giovanni Lanza, ministro della Pubblica Istruzione dal 1855 al 1857, messo alla berlina perché gli era scappato di scrivere Itaglia.

Quando Giuseppe Bottazzi (meglio noto come Peppone) scrive uno sgrammaticato manifesto per denunciare «un’offensivo insulto» («qualora il quale non la smette dovrà poi pentirsene»), don Camillo ne ride nel consueto colloquio col Crocifisso. Ma stavolta (il racconto Il manifesto è in Mondo piccolo, 1948) il Cristo risponde freddamente: «Ognuno si esprime come può. Mica è lecito pretendere che uno il quale ha fatto solo la terza elementare badi alle sfumature stilistiche». «Signore!» esclama don Camillo sconsolato. «Voi chiamate sfumatura un guazzabuglio di questo genere?» (“È vero” potremmo esclamare noi, “ma i politici di oggi non hanno mica la terza elementare!”).

Nell’impeto della polemica – va detto – un apostrofo in più o in meno può sfuggire a tutti. «Sono un maschio educato e non violento, che ha avuto la fortuna di aver avuto una famiglia che gli ha trasmesso il valore della parità dei sessi e che ha frequentato un’ottimo liceo classico pubblico e un’ottima università pubblica», si leggeva in un articolo apparso nel quotidiano “Europa” il 24 agosto 2013. E – neanche a farlo apposta, sempre in merito al dibattito sul maschilismo della società italiana – “Il fatto quotidiano” pubblicava il 22 dicembre dello stesso anno un articolo intitolato: “Attaccate perché donne”: gridare al sessismo è un’alibi. Per carità, non sempre tutto ciò che viene pubblicato nei giornali si deve alla penna – anzi, alla tastiera – di chi ha scritto l’articolo: di sicuro non i titoli, ma a volte neanche certi passaggi, aggiunti o modificati redazionalmente. Resta il fatto che vedere certi errori nero su bianco in una pagina a stampa non fa mai una bella impressione.

Certo, l’errore brucia ancora di più quando lo si prova sulla propria pelle. In Internet si è ironizzato molto a proposito della scritta tatuata sul braccio di una soubrette televisiva: «Un’unica città ... un unico colore ... un unica e sola fede». E altre volte gli errori si trovano scritti a caratteri cubitali sui muri delle nostre città. In una delle tante fotografie di scritte murali che circolano in rete si legge Q’ANTO TI AMO; in un’altra: LORGOGLIO NON SERVE, poi di seguito, vergato da un’altra mano: MA L’APOSTROFO SÌ. Forse ha ragione Bartezzaghi, quando scrive che «l’apostrofo, oggi, è un po’ come le quattro frecce dell’automobile: si mette e si toglie quando non si sa bene cosa dobbiamo segnalare al prossimo». E poi conclude, riferendosi a quelli che confondono io c’entro con io centro: «L’apostrofo è insomma un bacio rosa fra le parole c’entro (qualcosa) o non centro (la soluzione giusta)?».

Quando si parla di apostrofi, d’altra parte, il pensiero va sempre a quella frase pronunciata più di un secolo fa dal Cyrano di Rostand. Quella in cui il bacio, che nell’originale francese era un puntino sulla i («un point rose qu’on met sur l’i du verbe aimer»), è diventato – grazie alla traduzione di Mario Giobbe – «un apostrofo roseo messo tra le parole t’amo!».

Ma la vita – si sa – non è sempre in rosa, e allora ecco che negli anni quell’apostrofo è potuto diventare ironicamente rosso («forse è solo un sospiro prodiano, un apostrofo rosso tra le parole gna’ famo», scriveva Sebastiano Messina commentando il simbolo dell’Unione, ex-Ulivo); violentemente blu («il livido, un apostrofo blu tra le parole t’ammazzo», si leggeva in un’amara vignetta di Ellekappa sul femminicidio); gioiosamente giallo («un limone è un apostrofo giallo tra le parole impepata ’e cozze», recita l’epigramma Vodka lemon nel blog di tal Severineserizy).

Dorato, o marrone, o beige sarà stato l’apostrofo di Franco IV e Franco I, che nel 1968 lanciarono la loro hit dell’estate: Ho scritto t’amo sulla sabbia. Con quell’elisione alla Cyrano – t’amo – che oggi ci suona antiquata, ma nelle canzoni dell’epoca era ancora frequentissima («come prima più di prima t’amerò», Tony Dallara; «io t’amo più della mia vita», Gianni Morandi; «t’amo t’amo e tu / tu non sai perché», Equipe 84 su testo di Mogol).

Più che di apostrofi, però, leggere le canzoni è una questione di accenti. Perché a renderle leggere è la musica che le accompagna. Quella che fa cantare ai Baustelle «io vi amò / vi odio ma vi amo però» e ai Prozac+ «acidòacidà», a Battiato di «una vecchia brètoné» e di «furbi contrabbandieri màcedonì» (anche se Carmen Consoli, invece della «sàlubre autoironia», avrebbe potuto tranquillamente – e più correttamente – cantarne una salùbre).

Scrivere canzoni, d’altra parte, è una questione di ritmo: di ritmo e di rima. Per questo, più che poesia popolare, i testi di canzone sono uno strano caso di poesia pop-orale. Anche messi su carta, si portano dentro la musica per cui sono nati, la loro intrinseca vocalità (mai come in questo caso, carta canta). Si portano dentro, come un codice genetico, la loro natura pop – cioè facile, diretta – di parole che restano così, nel cuore della gente.

Ma a volte un po’ pop (pure troppo) è il modo in cui le canzoni vengono scritte o trascritte. Nel 2006, Claudio Baglioni ha intitolato l’inno ufficiale delle Olimpiadi invernali di Torino , con l’accento al posto dell’apostrofo (o della grafia va, diffusa già nel fiorentino ottocentesco anche per l’imperativo). E molti anni prima, l’elenco delle canzoni stampato nell’album di Francesco De Gregori che ha per titolo il suo nome presentava Cercando un’altro Egitto, con un apostrofo di troppo (eliminato nelle successive edizioni del disco). Per non parlare delle trascrizioni che oggi si leggono in rete: un meraviglioso spaccato sociolinguistico, in cui la densità degli errori di ortografia tende ad aumentare per i pezzi più apertamente mainstream e a diminuire nel caso dei cantautori d’annata (anche se, va detto, il solito un pò attraversa davvero tutti i generi).

“Sono solo canzonette”, starà pensando qualcuno di voi. E invece, a volte, ci si mettono anche gli scrittori. «Mi chiede se non gli dò un passaggio», scrive ad esempio Andrea De Carlo in Due di due (così, almeno, l’edizione Oscar Mondadori). Ma De Carlo è in buona compagnia: se si cerca tra i libri finalisti al premio Strega dal 1947 al 2006, casi di si trovano in abbondanza, soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta.

«Le dò la colpa di avermi voluto lasciar solo...» (Elio Vittorini, Le donne di Messina, 1949)

«Dò la mia vita agli americani» (Corrado Alvaro, Quasi una vita, 1951)

«“Ti dò del lei,” disse, “perché non ho alcuna ragione di darti del tu...”» (Alberto Moravia, I racconti, 1952)

«Non ti spiace, vero, se ti dò ancora del tu?» (Alberto Arbasino, L’anonimo lombardo, 1960)

«Dò ragione al dottor Max» (Goffredo Parise, Il padrone, 1965)

«Dò un ordine con un gesto alla signora Violante» (Maria Bellonci, Rinascimento privato, 1986)

«Ma io te ne dò molti di più» (Tommaso Landolfi, A caso, 1975)

«Ci pensa su, poi risponde: perché io gli dò la metà dell’incasso» (Melania Mazzucco, Vita, 2003)

Ora: se in l’accento evita possibili confusioni con la preposizione semplice da, in a cosa serve? A distinguere il verbo dalla nota musicale? E allora perché non il ré di Spagna o il sól dell’avvenire? Come notava Aldo Gabrielli nel suo Si dice o non si dice? (1976), «le grammatiche prescrivono di limitare l’accento alla sola terza persona singolare dell’indicativo presente: egli dà. Invece poi, nell’uso, incontriamo accentate anche la prima e la seconda singolare, io dò, tu dài, e la terza plurale, essi dànno. ... Gli stessi nostri scrittori vanno a lor gusto» (come s’è visto).

Gabrielli, da parte sua, ha «sempre sostenuto che un accento in più non guasta mai». Strano criterio, in verità, contestato già tre secoli prima dal Bartoli: «Alcuni accentano quasi ogni parola ch’è d’una sillaba sola terminata in vocale, e come queste son sì frequenti, le loro scritture paiono uno stormo d’allodole o d’upupe, col pennacchio e la cresta in capo. Io per me non so che vi si facciano, e mi par poca discretione gravar quelle misere sillabe, che per la piccolezza sono le più deboli e per ciò dovrebbono essere le men premute». Tanto più, verrebbe da dire, se l’accento è grave (ovvero pesante anche di nome).

Ma, restando in tema, la gravità degli errori d’ortografia non è sempre stata così grave. La questione degli accenti sui monosillabi, in particolare, è rimasta in discussione per diversi secoli. Anche i bambini oggi sanno – o dovrebbero sapere – che “su qui e qua l’accento non ci va”. Ancora per tutto l’Ottocento, però, nella scrittura privata si era molto più elastici. A testimoniarlo c’è l’uso epistolare di scrittori come Belli («sorbitevi sù questa bevanda»), di nobildonne come Laura Maffei di Canossa («dal principio della rivoluzione in quà»), di politici come Depretis («le scrivo quì alla Camera»).

Mi rendo conto che a questo punto quello che rischia di farsi pesante è proprio il mio discorso (così almeno la rimpiangerete, adesso, la vituperata leggerezza delle canzonette). Ma come si fa a non raccontarvi di quando anche l’acca era un optional? A lungo, in effetti, anche la necessità di usare l’acca nelle voci del verbo avere è stata in discussione. Certo: l’esigenza di distinguerle dalla congiunzione o, dalle preposizioni ai e a, dalla parola anno, c’è sempre stata. Fino a un paio di generazioni fa, però, si poteva oscillare tra le grafie ho, hai, ha, hanno e le grafie ò, ài, à, ànno (una soluzione, quest’ultima, che nel 1969 il Dizionario di ortografia e pronunzia registra ancora, sia pure come «rara»).

Proposta nel Seicento da Lorenzo Magalotti e sostenuta nell’Ottocento da Policarpo Petrocchi, la grafia del tipo io ò non è mai riuscita ad affermarsi del tutto. «La proposta non prende», scriveva Niccolò Tommaseo nel primo volume del suo dizionario (1861), «e conviene attendere il tempo che dall’alfabeto se ne vadano via tutti gli h in un tratto». Eppure, esattamente mezzo secolo dopo, il secondo congresso della Società Ortografica Italiana (1911) consigliava – se non proprio di eliminarla del tutto – di limitare l’uso dell’h alle sole interiezioni (ah, eh, ih, oh, uh) e di ammettere per il verbo avere solo le grafie accentate. Tra le ragioni addotte, il fatto che tutte le altre distinzioni fra monosillabi erano affidate all’accento, e anche il fatto che in ò l’accento grave rendeva meglio la pronuncia aperta.

Simili prese di posizione dovettero avere qualche effetto, se è vero che nella Piccola guida d’ortografia pubblicata nel 1957 dalla Olivetti, due linguisti del rango di Bruno Migliorini e Gianfranco Folena osservavano: «Molti ormai mettono invece dell’h, l’accento». Tra quei molti – sia pure con un uso saltuario – c’erano stati anche Guido Gozzano, Sergio Corazzini, Aldo Palazzeschi nella prima edizione del suo Codice di Perelà (1911) e Sergio Tofano (in arte Sto, quello del Signor Bonaventura), almeno nelle favole dei Cavoli a merenda (1920): «Io ò ubbidito al vostro ordine e ò inventato la verghetta miracolosa».

Va detto che nell’Ottocento c’era anche chi – nelle lettere familiari – non si faceva mancare nulla, e metteva sia l’accento sia l’acca. Come Monaldo Leopardi (padre di Giacomo): «Fin qui vi hò esposto lo stato della cosa», o come Giulia Beccaria (figlia di Cesare e madre di Alessandro Manzoni): «Hò ottenuto che partissero perché la salute nostra e massime Enrichetta che deve prendere i bagni necessita la nostra andata colà».

Ma bisogna appunto ricordare che la drastica censura sociale dell’errore di ortografia è un fatto relativamente nuovo, legato alla scolarizzazione di massa: su questo terreno la scuola ha compensato l’impossibilità di normalizzare e centralizzare la pronuncia troppo segnata dalla provenienza regionale. È una scelta legata soprattutto alla scuola novecentesca quella di considerare gli errori di ortografia come mancanze da sanzionare con l’orrido frego della matita blu: un marchio più infamante della lettera scarlatta. Magari trascurando aspetti molto più rilevanti, come la sintassi e ancor più la capacità di strutturare – o almeno interpretare – adeguatamente un testo.

Ciò detto, guai – oggi – a sbagliare un apostrofo o un accento: significherebbe essere immediatamente (e giustamente) considerati persone poco serie e poco preparate. Nessuno, per dire, prenderebbe sul serio un medico che in una ricetta commettesse un errore di ortografia (ammesso che qualcuno riesca a leggerne la grafia). Il che vale – o dovrebbe valere – a maggior ragione per i nostri politici, che invece (come abbiamo visto) mostrano in materia una certa difficoltà. Specie nel distinguere gli omòfoni, vale a dire quelle parole e sequenze che hanno uno stesso suono ma diversi significati o funzioni. Casi come «e se riuscisse “Il Giornale” ha fare ciò che noi non siamo riusciti in 20 anni?» (Daniela Santanchè) o «il mio staff a posto all’attenzione di chi mi segue» (Gianni Alemanno), «un’ente locale – ripeto un’ente locale» (Stefano Boeri) si aggiungono ai vari , , stà di cui s’è già detto. Viene da chiedersi se, strafalcione per strafalcione, il Parlamento non intenda discutere prossimamente una legge contro l’omofonia.

1 Come che sia, bisogna prendere atto che questo tipo di pigrizia è ormai molto diffuso. I correttori attivi durante la digitazione dei testi (non sempre a ragion veduta, come s’è visto) e ancor più quelli che intervengono quando digitiamo una stringa nei motori di ricerca (per cui posso scrivere senpre char m fù e trovarmi spedito direttamente alla pagina di Wikipedia sull’Infinito di Leopardi) stanno favorendo – ormai è evidente – il diffondersi di un certo pressappochismo. Davvero, in certi casi, l’ortografia sta diventando un optional.