«Questa; e; la bella; vita; che; ho; fatto; il sotto; scritto; rabito vincenzo; nato; a chiaramonte; qulfe; (in via; corsica;) dallora; provincia; di; siraqusa; figlio; di; fu; salvatore; e; di; qurriere; salvatrice; chilassa, 31. marzo; 1899». Così comincia il lunghissimo dattiloscritto in cui Vincenzo Rabito, contadino «inaffabeto» giunto alla licenza elementare a trentacinque anni, ha raccontato (tra il 1967 e il 1974) la sua vita «maletratata, e molto; travagliata; e molto; desprezata». Più di mille pagine a interlinea zero, in cui quasi tutte le parole sono separate ricorrendo a un punto e virgola. Un uso ipertrofico – se non iperbolico – che sembra testimoniare la natura esotica – se non esoterica – di questo segno d’interpunzione: raro, difficile e dunque prestigioso (o forse, semplicemente, superfluo e incomprensibile, e dunque recuperato come separatore di parole).

L’inglese Lynne Truss sembra confermare questa percezione, quando (nel suo Eats, Shoots & Leaves, del 2003, tradotto in italiano come Virgole, per caso) denuncia un certo uso snobistico del punto e virgola. Nel mondo accademico, sostiene, «si è arrivati a una vera e propria epidemia di punti e virgola “pretenziosi e iperattivi” ... usati per mascherare un pensiero impreciso». Non tutti, però, sono d’accordo. Recensendo nel “New Yorker” il suo libro, il premio Pulitzer Louis Menand scrive: «Un’inglese che faccia lezioni sui punti e virgola agli americani è un po’ come un americano che tenga a un francese una lezione sulle salse».

E allora cosa dovremmo dire noi, che quel punto e virgola lì lo abbiamo inventato? Era il lontano febbraio 1496 (1495 secondo il calendario veneto), quando nella tipografia veneziana di Aldo Manuzio veniva pubblicata un’opera del giovane umanista Pietro Bembo: il dialogo De Aetna. In quell’opera apparivano per la prima volta (almeno per un testo stampato in caratteri latini) il punto e virgola, la virgola di forma moderna e l’apostrofo; e venivano usati in maniera innovativa anche gli accenti, creando un modello che si sarebbe via via diffuso nelle varie lingue europee.

Certo, non si può dire che oggi gli italiani (scrittori e no) usino la punteggiatura con la stessa consapevolezza. A proposito di salse, già Gadda lamentava – in certa scrittura letteraria – «una vaga disseminazione di virgole e di punti e virgola, buttati a caso, qua e là, dove vanno vanno, come capperi nella salsa tartara».

E proprio il punto e virgola, segno misto e dunque ibrido per natura («i due segni duramente affrontati, immoti, gli occhi negli occhi, come due pistoleri western», scriveva Manganelli), risulta negli ultimi decenni il più trascurato.1 Probabilmente, anche per via del crescente discredito internazionale. In una guida pubblicata da poco in America se ne sconsiglia l’uso negli approcci telematici, perché darebbe un’idea di troppo studiato e artefatto; un po’ come truccarsi prima di andare in palestra, si dice (di questo passo, viene da pensare, il punto e virgola si userà solo nelle faccine ;-).

Se davvero si vuole parlare di un’imminente “morte del punto e virgola”, però, bisogna tener presente che l’agonia sarebbe cominciata un bel po’ di tempo fa. «Siamo costretti a rivelare che il punto e virgola ha dei nemici. In questo mondo non c’è pace per nessuno. E quei nemici sono feroci a tal segno che vorrebbero morto e sepolto il povero punto e virgola», scriveva allarmato – in un suo saggio sulla punteggiatura manzoniana – il professor Piero Zama. Il riferimento era probabilmente alla provocazione lanciata da Leo Longanesi in un articolo di qualche anno prima: «Altro ci rimarrà della prosa di frammento, ma il punto e virgola ne è la parte ben morta. Salutiamolo con molto rispetto ma senza troppo rimpianto». Correva l’anno 1939.

Già all’inizio del secolo, d’altra parte, Giuseppe Malagoli aveva notato che non era raro, «nello scrivere moderno, l’uso del punto fermo dove una volta si sarebbero messi i due punti o anche il punto e virgola». Una delle prime testimonianze dell’insorgere di quello che è stato recentemente definito «estremismo interpuntorio»: virgole per pause brevi, punti per pause lunghe; i segni intermedi giudicati superflui.

Quest’atteggiamento, spiega Bice Garavelli Mortara nel suo Prontuario di punteggiatura (2003), deriva da una concezione ingenua della punteggiatura. Quella per cui l’interpunzione servirebbe a riprodurre le pause del parlato e non – come invece è – a segnalare i legami tra le varie parti di un testo. Se la questione è solo riprendere fiato, allora bastano e avanzano la pausa forte segnalata dal punto e quella debole segnalata dalla virgola.

Troppo spesso continua a perpetuarsi l’idea – falsa anche questa – per cui la punteggiatura non avrebbe vere regole, ma sarebbe affidata più che altro al gusto; o appunto all’orecchio. Nella Grammatica di Giannettino (1883), il protagonista a un certo punto domanda: «Come si fa a sapere quando nel periodo si deve adoperare la virgola, il punto e virgola e i due punti?». Collodi risponde:

Queste, caro mio, sono cose, che a suo tempo le imparerai meglio con l’uso e col criterio, che con i precetti della Grammatica. A ogni modo, credilo a me, se oggi, scrivendo qualche letterina al babbo e alla mamma, sbaglierai a metter bene una virgola o un punto e virgola, non sarà poi la rovina del mondo.

Nel solfeggio in quattro quarti usato da alcune grammatiche ottocentesche per rendere i rapporti tra i principali segni d’interpunzione, la virgola contava come uno, il punto e virgola come due, i due punti come tre, il punto come quattro. Oggi, potremmo dire, il punto vale uno e la virgola mezzo.

Se ancora nel 2001 tutti i libri finalisti del premio Strega usavano regolarmente il punto e virgola (con la significativa eccezione di Annalucia Lomunno, classe 1972), nel libro vincitore del 2008 (il bestseller La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, classe 1982) si trovano soltanto punti fermi, virgole e qualche sparuto – quanto inevitabile – punto interrogativo. Un sistema semplificato, che esclude deliberatamente la punteggiatura intermedia: «Si sarebbe arrabbiato suo padre, come una belva. E lei doveva preparare una bugia. Una storia che stesse in piedi senza buchi o contraddizioni. Non se lo sognava nemmeno di dirgli quello che le era capitato veramente. La nebbia, ecco, colpa della nebbia». Punto e best. Seller.

Come notava già nel 1964 Gian Luigi Beccaria, i segni d’interpunzione hanno perso da tempo «il tradizionale ruolo di dividere il periodo in sintagmi legati alla logica ed alla grammatica, per assumerne uno nuovo, quello di strutturare la frase secondo schemi musicali». Ma negli ultimi anni quegli schemi si stanno facendo – anche in letteratura – sempre più elementari. La partitura non si fissa più su un pentagramma, ma su un’unica linea, simile piuttosto a un emotivo elettrocardiogramma.

«Quando siamo soli a casa io mi affaccio alla porta e la guardo. Lei non mi vede. Almeno così credo fino a che un mattino con la mano mi fa segno di avvicinarmi. Allora io mi avvicino, raggiungo il letto in punta di piedi» (Susanna Tamaro, Per voce sola). «C’era la luna piena. Era alta e luminosa. Si vedeva lontano, come fosse giorno. I campi sembravano fosforescenti. L’aria ferma. Le case buie, silenziose» (Niccolò Ammaniti, Io non ho paura). Meglio allora le brusche sospensioni di Aldo Nove: «avevo semplicemente voglia di parlare e [a capo]»; «ho sentito per la prima volta per sempre le labbra di Silvia che e allora [a capo]»; «la sua voce non l’avrei più sentita almeno fino a quando.»; «mi faceva tenerezza come [a capo]» (Amore mio infinito).

Come s’è detto, l’ascesa del punto fermo è cominciata molto tempo fa. Già alla fine dell’Ottocento, Raffaello Fornaciari – nella sua Sintassi italiana dell’uso moderno – definiva «degni di biasimo», perché «contraffanno all’indole della lingua italiana coloro che seminano i punti fermi ad ogni momento, cincischiando così le parti d’un medesimo concetto, che dovrebbero andare unite». Il fenomeno fu abilmente esasperato dallo sperimentalismo di Gabriele D’Annunzio (storico nemico delle virgole: «costrutto molto virgolato è costrutto molto bacato») in un’opera destinata a suggerire il ritmo di tanta prosa novecentesca: «È la sera di santo Stefano. Il suo fuoco è acceso. Sono seduto là dov’egli soleva sedere. Di tratto in tratto egli mi annienta. Mi perdo in lui» (Notturno, 1916).

Alla fine degli anni Cinquanta si era già un pezzo avanti: «Per tema di stancarci e di stancare (i delicatini dell’èra atomica), cincischiamo le parti d’un medesimo concetto, parliamo e scriviamo per balzi telegrafici», ironizzava Leo Pestelli (che evidentemente aveva letto la Sintassi del Fornaciari). A metà degli anni Sessanta, il vezzo era già largamente diffuso nella scrittura giornalistica. Dal “Corriere della Sera” del 15 novembre 1966: «Un morto è stato scoperto ieri in un fossato. Lo cercavano da giorni. Aveva 62 anni. Un buttero, figlio di butteri maremmani».

Oggi, il vezzo non è più considerato tale e quell’ascesa si è trasformata in un dominio assoluto. La dittatura del punto fermo, però, è un po’ come quella del tu a tutti i costi: semplificando artificialmente, finge di equilibrare i rapporti; accorciando virtualmente le distanze, dà l’illusione della vicinanza. Il punto spezza il periodo e gli impedisce di piegarsi, arcuarsi, di acquisire la sinuosità che spetterebbe a un discorso non banale; annullando le gerarchie, toglie profondità e spessore: appiattisce (mentre invece – avete notato l’ultimo periodo? – tra un punto e l’altro si possono usare quasi tutti i diversi segni d’interpunzione: non è poi così difficile! Basta volerlo...).

Per contro, quasi come forma di compensazione, oggi si ricorre in modo sempre più massiccio alla punteggiatura espressiva, con grande scialo di punti esclamativi e puntini di sospensione. Nel 1968, lo stesso Antonio Frescaroli che proprio in quegli anni speculava sulla «morte del congiuntivo» (come si dirà nel prossimo capitolo) aveva dato per spacciato il punto esclamativo: «Un segno che ha i giorni contati», scriveva. Forse – va detto a sua parziale discolpa – si era lasciato influenzare dalla celebre invettiva pronunciata da Ugo Ojetti quarant’anni prima:

Odio il punto esclamativo, questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, quest’asta della bestemmia, questo pugnalettaccio dell’enfasi, questa daga dell’iperbole, quest’alabarda della retorica.2

Forse. Fatto sta che oggi (a quarantasei anni di distanza da quella profezia; contando i giorni, circa diciassettemila), il punto esclamativo è padrone assoluto della scena. Una conseguenza dell’onnipresente pseudoparlato che ha invaso tutti i tipi di scrittura. Ma anche, si direbbe, del giovanilismo cronico insito nella tanto decantata società della comunicazione. «Il punto esclamativo è come il punto d’onore» – ha scritto Jacques Dyssord nel suo La parrocchia del Moulin Rouge, 1923 – «se ne abusa finché si è giovani; ma poi il punto interrogativo sembra più opportuno».

Alla fine dell’Ottocento, Anton Čechov poteva immaginare un personaggio – il burocrate Efim Fomič Perekladin, segretario di collegio – che in quarant’anni non aveva mai usato un punto esclamativo. Oggi risulterebbe più verosimile un racconto su un personaggio che a quarant’anni – dunque giovane, secondo i parametri attuali – abbia usato in vita sua, come unici segni di punteggiatura, il punto esclamativo e i puntini di sospensione (ad apparire nei suoi incubi sarebbe piuttosto il punto e virgola).

Anche in questo caso, tuttavia, si può tornare indietro nel tempo: almeno fino al secondo Ottocento. «Dirò finalmente», affermava netto Giuseppe Rigutini nel suo La unità ortografica della lingua italiana (1885), «che l’uso dei puntolini ....,3 dove non ci sia reticenza, e che tanto piacciono oggi a certuni, fino da metter nelle pagine più puntolini che idee; come anche il ripetere due o tre volte il punto ammirativo!!!, talora seguito da due o più punti interrogativi !!!???; sono novità moderne da non raccomandarsi».

Novità moderne. Quanto ai puntini di sospensione, l’uso epistolare ottocentesco ne era pieno. Nelle lettere di quegli anni venivano usati per l’autocensura («il mal... or mi usciva dalla chiostra de’ denti il nefando nome, di quel cotale», Puoti), per allusioni di vario genere («la voglia che hai d’una mia lettera è voglia di... tu m’intendi», Manzoni), per rafforzare punti esclamativi e interrogativi («Un frescarello poi che Dio tel dica. Eppoi un Uomo!...», Belli; «dunque?... pensi alla sua quiete», Giusti).

Un uso – quello epistolare – che può essere considerato l’antenato di certe abitudini diffuse nell’odierna comunicazione telematica: soprattutto nelle chat e negli sms, i puntini risultano particolarmente frequenti. Anche come collante tra le frasi o tra i diversi messaggi: spesso aprono o chiudono il turno di parola, a indicare continuità col messaggio precedente o col successivo. C’è chi sostiene, anzi, che chiudere un messaggio – anche solo una frase – con un punto fermo sia ormai percepito come un segnale di aggressività, di freddezza, di distacco. (Punto. Devo metterlo: ma sappiate che non si è fatto apposta...).

Già nel 1991, peraltro, i puntini dovevano risultare usati e abusati in ogni tipo di testo, se è vero che Umberto Eco si sentiva autorizzato a scherzarci su:

«L’Italia è una repubblica fondata... sul lavoro (eh!)»

«L’Italia è, diciamo, una... repubblica fondata sul lavoro»

«L’Italia è una repubblica fondata... (???) sul lavoro»

«L’... Italia (se ci fosse) sarebbe una repubblica fondata sul lavoro»

«L’Italia è una repubblica fondata sui puntini di sospensione».

La stessa cosa vale per quel tipo di punteggiatura espressiva – a torto definita fumettistica – che accumula in serie punti esclamativi, a volte misti a interrogativi. Un uso, anche questo, che oggi troviamo largamente in chat ed sms (“È finita la pacchia, eh?!?”), ma era frequentissimo già nelle lettere – cartacee: carta, penna, busta, francobollo – scritte nel secolo scorso da adolescenti degli anni Ottanta: «L’idea non mi va?!!!!!!...», «Ecco perché ti sfido (!!?) ad un prossimo incontro». E prima ancora, molto prima che esistessero i fumetti, in tanta scrittura epistolare ottocentesca: «Ma vivaddio!!» (Crispi); «È incredibile!!!» (Bellini); «Ho proprio bisogno io di questo!?!!» (Verdi).

«Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io?», sbottava Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone il 22 aprile 1821. E continuava (lui sì, profetico): «Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere e significare con segni, come fanno i cinesi».

Profetico perché sembra già prevedere l’imprevedibile avvento degli emoticon, le famigerate faccine che nei messaggi telematici – dagli sms alle e-mail, da WhatsApp a facebook – integrano o sostituiscono la punteggiatura tradizionale, cercando di rendere iconicamente (cioè, grosso modo, come dei geroglifici) le emozioni di chi scrive.

Troppi, o troppo pochi i segni d’interpunzione?, si chiedeva il filologo Pio Rajna in un articolo del 1924. Quasi ottant’anni dopo, intervistato sul tema La punteggiatura che non c’è, Antonio Franchini (scrittore e editor) rispondeva spiegando Perché i segni che ci sono bastano e avanzano. Ma gli altri scrittori interpellati la pensavano diversamente: Alessandro Baricco voleva un segno che restituisse il senso di una brusca interruzione e proponeva lo slash (già usato in City); Enzo Fileno Carabba evocava due simboli della logica (⊂ “se... allora” e ≡ “se e solo se”); Emilio Tadini pensava di introdurre le digressioni usando il segno di radice quadrata; Michele Mari immaginava addirittura un segno a forma di lacrima.

Nessuno sembrava prendere in considerazione la possibilità di adottare una di quelle faccine che pure circolavano ormai largamente nell’uso telematico. La prima, pare, fu usata dal giovane informatico americano Scott Fahlman il 19 settembre 1982. Era – neanche a dirlo – una faccina sorridente. In fondo, per cambiare prospettiva, bastava ruotare lo sguardo di novanta gradi :-).

1 Persino la canzone di Toto Cutugno intitolata Punto e virgola si riferisce, in realtà, ai due diversi segni di interpunzione che – alla stregua di separati in casa – vengono evocati distintamente: «E poi mi stringi forte forte di più / virgola / la gonna e il resto sale più su / punto». Come del resto è normale nei testi di canzone: da Per una virgola degli Audio 2 («per una virgola la frase non si regola») a Punto di Jovanotti, inno all’energia palingenetica del punto a capo («vorrei che questa pagina tornasse bianca / per scriverci ti amo / punto»).

2 «Ojetti non è forse riuscito a convincere nessuno dell’opportunità di abolire del tutto quel segno; ma ha potuto conseguire egualmente un risultato apprezzabile: di vederlo usato con maggiore parsimonia», notava Ridolfo Mazzucconi nella sua Guida allo scrivere corretto (la «Quarta edizione riveduta ed accresciuta» è del 1936).

3 Già vi vedo: ma come? Quattro puntini! I puntini di sospensione devono essere sempre tre ... E invece no: o meglio, non a quel tempo. All’epoca, anche se l’uso oscillava, quasi tutte le grammatiche consigliavano di usarne quattro. Ancora Gadda ne usava sempre quattro; e non è detto che l’uso possa interpretarsi come un arcaismo interpuntorio, visto che nel 1957 Pestelli affermava: «Quanto alla vecchia questione di quanti abbiano a essere i puntini di reticenza, sarebbe chiusa da un pezzo, se non ci fosse peggior sordo di chi non vuole udire. Secondo fu sempre nei buoni scrittori, quattro». Certo, dando uno sguardo fuori d’Italia, sono tre quelli che rendono inconfondibile la prosa di Louis-Ferdinand Céline. Michele Mari, nel suo visionario romanzo Tutto il ferro della Torre Eiffel, li definisce «la più grande invenzione del secolo» e li immagina come «tre minuscole sfere nere, ognuna non più grande di un pallino da caccia», messe in vendita in «un piccolo scatolino di latta» insieme allo spleen in boccettina (per innaffiarci i fiori del male), alla A delle vocali di Rimbaud e al topicida di Emma Bovary.