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Nata il 4 novembre

Quella mattina al risveglio è stata l’ultima volta che ho sentito la voce di Rocco. Ero in Romania per lavoro. Non mi ha più richiamato. Non l’ho più cercato. In questi anni mi sono chiesto se sia finita così perché Rocco si è arreso. Oppure perché si sono arresi gli italiani. E ho concluso che tra il dramma di Lia, costretta dai genitori a sposare un picciotto della ’ndrangheta, e la storia di Rocco non ci sia differenza. Lia si doveva sacrificare alla regola criminale della sua famiglia. Rocco è stato sacrificato. Così come in questa nuova stagione, nata dall’esplosivo e dal sangue del 1993, tutti noi italiani ci siamo lasciati lentamente sacrificare.

Sono tornato a cercare Lia. Ma i proprietari hanno chiuso l’albergo. E di lei non so più nulla. L’ispettore, quello che mi ha parlato della taglia che il clan di Nonna ’Ndrangheta avrebbe messo sulla mia testa, è stato intercettato e indagato. Anche i magistrati dell’Antimafia sono arrivati a lui. A lungo è rimasto sull’elenco dei prossimi da arrestare. Poi l’hanno lasciato perdere. Forse perché i suoi legami con i mafiosi erano dovuti ai debiti per la cocaina e c’erano criminali più pericolosi da catturare. L’alto funzionario, quello che mi aveva elegantemente consigliato di non disturbare la mafia dei fiori, ha fatto una modesta carriera. Ci davamo del tu con amichevole rispetto. Non ci siamo mai più parlati. Lasciata Milano, lui ha avuto soltanto incarichi periferici. Ma non per causa mia. La polizia ha ancora ottimi anticorpi, che sono poi i suoi dipendenti onesti. Così non è stato necessario andare a informarne il capo. Da allora quel primo dirigente, l’ispettore, i loro amici non mi hanno più dato consigli. Hanno invece fatto carriera gli altri due funzionari. Quello che appena trentatré ore dopo l’attentato a Milano fa la confidenza su Casa nostra. E il suo collega che già il 6 agosto sa della trattativa tra Stato e Cosa nostra, indica la sede coperta dei servizi segreti come obiettivo dell’autobomba. E non mi ha mai mostrato le carte.

Poche settimane dopo l’ultimo messaggio di Rocco e la sua voce impastata nella segreteria telefonica, la Corte d’Assise d’appello conferma sei dei nove ergastoli decisi in primo grado per i mandanti e gli assassini di Ghiaccio, Luca e il loro papà. Due ergastoli vengono invece commutati in trent’anni di reclusione. E la terza sentenza a vita non confermata si trasforma in un’assoluzione. Con un misto di sollievo e brivido per tutti noi che ascoltiamo sulla panca del pubblico. Tra i ventuno imputati, assolti anche i capibanda del Fortino condannati in primo grado soltanto per traffico di droga. Le nuove norme processuali hanno reso inutilizzabili le confessioni di Rocco. Era uno dei famosi cinque punti che scatenarono la protesta delle Procure di Milano e Palermo contro il governo di centrosinistra e il ministro dell’Interno.

La ’ndrangheta nel frattempo ha aperto colonie in Germania, Spagna, Portogallo, Australia. La camorra è nel Sud degli Stati Uniti, in Francia, Spagna, Inghilterra, Scozia, Venezuela. La mafia si è così raffinata che in Italia dopo aver indossato il doppiopetto della politica è andata a mimetizzarsi nell’imprenditoria, nelle banche, nella finanza. Le sue aziende amiche le incontri ovunque. Ormai la loro presenza è una sorpresa soltanto per quanti non vogliono ammettere la realtà.

Anche gli altri quattro punti voluti dal governo sono stati approvati dal Parlamento. Dalla chiusura delle carceri di massima sicurezza dell’Asinara e Pianosa alla soppressione delle Criminalpol. Il Ros dei carabinieri, no. È sopravvissuto. Non è ancora nato qualcuno in grado di imporre ai carabinieri una decisione che i carabinieri non vogliano accettare.

Per Rocco non finisce così. Lo Stato gli presenta il conto arretrato. E senza più programma di protezione, lo deve pagare tutto. In carcere, naturalmente. Il 12 settembre 2003 l’ufficio di sorveglianza del Tribunale di Vercelli gli concede la detenzione domiciliare. Rocco torna a casa dalla madre, nell’ex Fortino. L’unico posto dove può andare. Fine pena: novembre 2004. Vivere più di un anno chiusi in un appartamento, senza il pasto garantito dal carcere e senza poter uscire a guadagnarsi il pane, è un paradosso. Rocco, che non ha nascosto ricchezze in paradisi fiscali, lo risolve a modo suo. Il 2 febbraio 2004 viene bloccato da due motociclisti della polizia in borghese. Ha trentadue anni e una valigetta come qualunque uomo d’affari. Dentro ci sono 44.200 euro e 7400 dollari americani. Secondo i poliziotti, Rocco se li è appena fatti consegnare dai cassieri di una banca, minacciando una cliente con il taglierino. La squadra mobile lo accusa di altre quattro rapine. Hanno confrontato l’identikit dei testimoni con le cicatrici sul suo viso.

Due anni e mezzo dopo, a fine luglio, il Parlamento approva l’indulto. È il secondo provvedimento svuota carceri in tre anni. Una misura necessaria perché le varie maggioranze di centrodestra hanno riempito le celle di operai, braccianti, badanti, prostitute, casalinghe, disoccupati, purché stranieri non in regola con i documenti. E di adolescenti sorpresi con pochi grammi di droga, anche se per uso personale. Migliaia di detenuti vengono così liberati in pieno agosto. Le aziende sono chiuse e le città deserte per le ferie. Anche volendo, è dura non solo trovare un lavoro, ma perfino uno sportello di volontariato o una panetteria aperti. Rocco è di nuovo fuori. Di nuovo solo. Fa una rapina in agosto. Un’altra in settembre. Il 3 ottobre 2006, un martedì mattina, verso le undici entra in una filiale della Banca popolare a Torino. Il solito cappellino da baseball con la visiera abbassata sugli occhi. Si mette in coda con la scusa di cambiare un assegno. Me la raccontano così. Quando arriva il suo turno, Rocco dice alla cassiera che è armato e vuole i soldi. Lei gli domanda se li desidera in taglio da dieci, cinquanta o cento euro. Lui vuole i soldi che ha nel cassetto, non importa il taglio. La cassiera insiste con la sua finta gentilezza. Guardi, gli dice, che può scegliere, mi dica che banconote preferisce. I soldi, forza, subito. Ma è sicuro? Aspetti che guardo… Rocco capisce che i modi cortesi della ragazza sono una furbizia per perdere tempo. Ormai non può più contare sulla paura che l’effetto sorpresa scatena in una rapina e la paura è la sua unica arma. Rocco rinuncia e se ne va. I carabinieri lo rintracciano poco più tardi, in una via lì vicino. Ha in tasca il cappellino, una calza di nylon, il taglierino. Non prova nemmeno a scappare. In caserma non si comporta da duro. Non è più il boss del Fortino che in commissariato sfidava lo sguardo dei poliziotti. Ai carabinieri dice che ha bisogno di soldi, che ormai è senza casa. Confessa addirittura le rapine di agosto e settembre, senza che nessuno abbia ancora sospettato di lui. È un uomo che non ha più voglia di fare la guerra. E dalle sbarre della sua ultima gabbia, la vita dev’essere davvero un brivido volato via.

È una giornata di sole quando torno a Palermo a rivedere il palazzo di via del Bersagliere. Come quel 4 novembre di tanti anni fa, anche oggi la brezza del mare scavalca il monte Pellegrino e soffia poche nuvole bianche sopra la testa. Il grande obelisco di piazza Vittorio Veneto aspetta, in fondo a due filari di aranci pieni di frutti maturi che colorano la via. Il mega condominio costruito da Pietro Lo Sicco è qui davanti. Un colosso di undici piani sopra il rudere delle sorelle Pilliu impacchettato nei teli, come un mobile vecchio da nascondere in cantina. Il monumento al nostro tempo. Gli appartamenti sono abitati, pur essendo stati confiscati dallo Stato. A destra di un cancello nero, abbellito dalle punte dorate, il citofono elenca i clienti di Pietro Lo Sicco. C’è sicuramente una telecamera da qualche parte. Perché all’improvviso esce un uomo. Jeans, maglione girocollo marrone. Forse è un inquilino. Ma ha la faccia e il tono di chi vuole mettere paura.

Chi stai cercando?

Sto guardando.

Ho visto che leggevi i nomi sul citofono, fa notare l’uomo.

Sì, leggevo i nomi sul citofono.

Ma cerchi qualcuno in particolare?

No, sto guardando il palazzo.

E perché leggevi i nomi sul citofono?

Per curiosità.

Allora qui davanti non si può sostare.

Non sono in macchina.

Nemmeno a piedi, sostiene quello.

Ho capito, nemmeno a piedi.

Mentre me ne vado, lui si gira a guardarmi un po’ di traverso. Forse per dimostrare che il suo profilo è ancor meno rassicurante della faccia.

Savina e Maria Rosa Pilliu, ora anziane, hanno vinto tutti i processi in cui sono state trascinate. Ma da più di vent’anni aspettano che le autorità, oltre a pronunciare sentenze, le facciano finalmente rispettare. Le due sorelle continuano a lavorare nel loro negozio di ottima gastronomia. Ed è sempre deserto. Quando entra qualcuno, è sicuramente un forestiero o un turista. Gli abitanti del quartiere, per non passare a loro volta dei guai, si tengono alla larga. Anche Pietro Lo Sicco ha passato i suoi guai. Hanno processato pure lui. Due volte. Concorso esterno a Cosa nostra, per i suoi affari con i clan. Corruzione di un assessore e concorso in truffa ai danni del Comune, per il condominio in via del Bersagliere. Sì, l’hanno condannato. Soltanto lui, però. Insomma, ha pagato anche per i nomi che non si sapranno mai. Principale testimone dell’accusa il nipote, suo ex assistente. Un uomo, il nipote, di cui i giudici sottolineano la precedente frequentazione con esponenti mafiosi, in particolare i fratelli Graviano, Filippo e Giuseppe, i boss di Brancaccio che hanno ordinato l’omicidio di don Pino Puglisi e tanto altro. In aula si parla anche dell’avvocato d’affari di suo zio. Come testimone, ovviamente, non come imputato. L’avvocato, racconta il nipote, ebbe a dire a me, io suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo facendolo entrare in sanatoria durante il governo di Silvio Berlusconi. Io ogni mattina lo andavo a prendere, continua, e lo accompagnavo all’Edilizia privata in Comune, dove lui metteva in atto il suo meraviglioso rapporto con l’assessore per cercare di tamponare la vicenda.

Ho ripensato a Rocco, a Lia, a Sarah, a Salvatore e Giuseppe Asta, ad Andrea Savoca, a Caterina e Nadia Nencioni. Ho pensato a loro una mattina di qualche anno fa. Resta per me il giorno più evocativo. Quella mattina alle dieci e mezzo il Senato si riunisce per eleggere il suo presidente, che in Italia è anche la seconda carica della Repubblica. Dopo il capo dello Stato.

La destra e Silvio Berlusconi hanno appena vinto le elezioni. La terza volta dal 1994. La diretta in tv fissa i volti dei senatori mentre, uno dopo l’altro, depongono la loro scheda nell’urna. Dallo scranno più alto e più importante domina l’antica aula il senatore più anziano. È Giulio Andreotti, il democristiano che ha ricoperto tutti gli incarichi più importanti ai quali un politico possa ambire. Tutti, tranne uno: la presidenza della Repubblica. Le cronache di palazzo dicono ci sperasse nel 1992. Ma l’omicidio del suo capo corrente Salvo Lima prima e poi la strage di Capaci, a elezione presidenziale in corso, hanno chiuso un’era anche dentro il Parlamento. Oggi Andreotti è presidente onorario. La sua voce nasale legge il voto scritto su ogni scheda. La scelta dei parlamentari di destra si sta concentrando su un loro senatore. E poco dopo mezzogiorno e mezzo, quando Andreotti ripete il suo cognome per la centosessantaduesima volta, scoppia l’applauso fragoroso. Il quorum è superato. Lo scrutinio raggiunge le centosettantotto preferenze. Quattro in più dei seggi affidati dagli italiani alla nuova maggioranza di governo. Qualcuno, insomma, anche dall’opposizione ha votato per il candidato avversario. La proclamazione ufficiale davanti ai 319 senatori e alle dirette radio, tv e internet arriva qualche minuto dopo. Come gesto di cortesia il maggiore partito di sinistra, il Partito democratico, non gli ha opposto nessun candidato. Sono sue le centodiciassette schede bianche. L’applauso adesso è ancor più fragoroso.

Giulio Andreotti a questo punto deve farsi da parte. Con le gambe malferme esce dalla sua ultima apparizione di rilievo. E sullo scranno più alto, il secondo più importante della Repubblica, il presidente del Senato appena eletto si prepara a pronunciare il suo discorso più importante. Ha il volto ovale, né magro né grasso. La barba ben rasata. La fronte lucida. I capelli neri come l’inchiostro. Un taglio corto che, al posto del voluminoso riporto, lascia scoperta la calvizie. Gli occhiali da vista sottili. Le guance pallide di un uomo di cinquantotto anni. Uno sguardo devoto. La smorfia di soddisfazione. La diretta tv ora lo inquadra in primissimo piano. È l’ex avvocato d’affari di Pietro Lo Sicco.

La sua storia personale rappresenta per me tutti gli italiani che, venuti a contatto con la mafia, non se ne sono accorti. Da allora, ogni 4 novembre, mi torna in mente lui. Rivedo il presidente del Senato mentre celebra l’Unità d’Italia, onora i caduti delle Forze armate, bacia il Tricolore. Lo immagino quella mattina del 1993, il nono compleanno che Nadia Nencioni non ha mai festeggiato, mentre osserva i pochi metri di nastro numerato con cui l’ingegnere e l’architetto del Genio civile, davanti a lui, misurano la distanza tra l’onestà e Cosa nostra.

E come il Valium che stonava Rocco, come l’hashish che l’ha riportato a sognare Ghiaccio, la fuga da questo mondo stanotte, la mia fuga, è un sassofono a tutto volume nelle cuffie di un iPod. Red Sky at Night, rosso di sera. L’accordo lungo iniziale. Un Fa maggiore. Sempre lo stesso. Immobile. Sospeso. Senza fine. E i primi tre soffi nel sax che vanno a rompere l’equilibrio. Come una pietra nell’acqua senza vento. Il volume al massimo. Tanto forte da non sentire i passi sull’antico selciato. Forte da coprire il rumore pacifico della città. Il Ponte Vecchio e i suoi innamorati che lo attraversano abbracciati devono rimanere un film muto. Sono turisti stranieri, non sanno nulla di quel bagliore che per un attimo si è riflesso nel buio del fiume. Il cielo rosso di notte. Non immaginano il suono. Nessuno a Firenze ha mai più sentito un tuono così ripugnante. Una notte di primavera, una notte qualunque. Poco dopo l’una. Come allora. Caterina è troppo piccola per sapere chi sia Cosa nostra. A cinquanta giorni non puoi nemmeno parlare. Ma sua sorella Nadia a otto anni già compone poesie. L’ultima la scrive lunedì 24 maggio. Un foglio a righe. La data, il titolo, sei versi, la firma. E sotto, il disegno di un sole vivo e sorridente, il cappellino da notte al posto dei raggi, tre case e tre montagne appuntite, un albero, un bimbo in bicicletta, i colori intensi. È uno di quei fogli che i bambini usano a scuola per imparare a scrivere in corsivo. Pagine di quaderno che di solito restano tra i ricordi teneri di una famiglia. Il tramonto, si intitola. Ancora tre giorni e queste parole, il disegno, i colori entrano nel cielo, esattamente così com’è adesso qui sopra. Era rosso, sì, ma soltanto per un attimo. La poesia è incisa sulla lapide a pochi passi dal Ponte Vecchio. La lapide del nostro tramonto. Nadia Nencioni, nata il 4 novembre 1984, è la più giovane poetessa uccisa dalla mafia.

Il pomeriggio

se ne va.

Il tramonto si avvicina,

un momento stupendo,

il sole sta andando via (a letto)

è già sera tutto è finito.