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Quella macchia sul muro è un bambino
È sempre un giorno di novembre quando un giudice per le indagini preliminari, sotto la luce al neon di un ufficio del Tribunale di Palermo, racconta per la prima volta la vera storia dell’insospettabile signor Lo Sicco. Un martedì. Il magistrato scrive e rilegge le sue parole nello schermo del computer. Proprietà. Appartamenti. Uffici. Negozi. E il solito pedigree motoristico di uno che comunque ama il lusso. Una Ferrari 348 targata Modena. Una Porsche Carrera. Una Mercedes 210. Una Mercedes 200C. Una Yamaha XJ 600. Una Moto Guzzi 850. Oltre a quattro auto Fiat e tre autocarri. Le centoventuno pagine del decreto di sequestro preventivo riassumono anni di lavoro discreto dei carabinieri della caserma di Palermo San Lorenzo. Lavoro che insegue tappa dopo tappa la crescita silenziosa e rapida di un imprenditore. E quel giovedì, il 4 novembre 1993, giorno della verifica del Comune e del Genio civile in via del Bersagliere, a quarantacinque anni Pietro Lo Sicco ha saldamente la carriera nelle sue mani. Non sa che tutti i suoi beni stanno per essere confiscati.
Ci si permetta di ricordare, scrive il giudice, come questo sia il medesimo periodo in cui un imprenditore palermitano taglieggiato dalla mafia, Libero Grassi, che coraggiosamente si era esposto per rifiutare il ricatto mafioso, non riusciva a ottenere credito bancario, pur avendone certamente diritto. Lo Sicco, invece, poteva vantare sicuramente una maggiore «credibilità» di fronte al sistema bancario siciliano… Mentre batte la frase sulla tastiera, il magistrato sottolinea il significato nascosto di quel tipo di credibilità chiudendo la parola proprio tra due virgolette.
Libero Grassi, imprenditore condannato a morte dalla mafia per essersi rifiutato di pagare il pizzo, viene ucciso a sessantasette anni a Palermo il 29 agosto 1991. Il medesimo periodo, come lo definisce il giudice nel decreto di sequestro, continua con l’omicidio di Salvo Lima e i misteri che lo avvolgono. Il politico democristiano vicino a Giulio Andreotti viene assassinato a sessantaquattro anni il 12 marzo 1992. Andreotti conserverà l’incarico di presidente del Consiglio fino al 24 aprile. Nella lunghissima carriera che ha attraversato indenne quasi mezzo secolo di Guerra fredda, scandali e sospetti, è il suo settimo governo. L’ultimo. Il 4 aprile ad Agrigento Cosa nostra ferma con mitra e fucili a pompa le indagini su mafia, banche e politica del comandante della sezione di polizia giudiziaria della Procura, il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, cinquantanove anni. Lo massacrano sulla sua auto, raggiunta e bloccata a metà di un viadotto, non troppo lontano dalla casa-museo del premio Nobel Luigi Pirandello. Il 21 aprile a Lucca Sicula, in provincia di Agrigento, viene ammazzato l’imprenditore edile Paolo Borsellino, trentun anni. Sabato 23 maggio 1992 a Capaci mezza tonnellata di esplosivo sotto l’autostrada che dall’aeroporto di Palermo arriva in città uccide il giudice Giovanni Falcone, cinquantatré anni, sua moglie Francesca Morvillo, quarantasette anni non ancora compiuti. E i tre ragazzi della scorta. Sono l’agente Vito Schifani, ventisette anni, l’agente scelto Rocco Dicillo, trent’anni, e l’assistente Antonio Montinaro, ventinove anni. I feriti sono ventitré. Domenica 19 luglio, sempre a Palermo, fanno esplodere l’autobomba in via D’Amelio. Muore un altro giudice, Paolo Borsellino, cinquantatré anni. E muoiono i cinque ragazzi della scorta. L’agente Vincenzo Li Muli, ventidue anni, l’agente Emanuela Loi, ventiquattro anni, l’agente scelto Claudio Traina, ventisette anni, l’agente scelto Eddie Walter Cosina, trent’anni, e l’assistente capo Agostino Catalano, quarantatré anni. Il 27 luglio a Catania viene ucciso l’ispettore di polizia Giovanni Lizzio, quarantasette anni, capo della sezione antiestorsioni della questura. Il 17 settembre, ancora a Palermo, fanno fuori a colpi di pistola Ignazio Salvo, sessant’anni, l’Intoccabile come lo chiamano avversari e nemici. Imprenditore, amico di Salvo Lima, esponente democristiano della stessa corrente di Giulio Andreotti, ricco gestore delle esattorie siciliane con il cugino Nino Salvo. La sentenza del 30 gennaio 1992, con cui la Corte di cassazione conferma le condanne per il maxi processo, lo riconosce affiliato a Cosa nostra. Grado di sottocapo nella famiglia di Salemi, provincia di Trapani. Il 10 novembre a Gela la mafia colpisce Gaetano Giordano, cinquantacinque anni, proprietario di una profumeria. Il commerciante, come Libero Grassi, si rifiuta di pagare il pizzo. Lo uccidono davanti al figlio, Massimo, ventidue anni, che resta ferito. Il nome dei Giordano l’hanno estratto a sorte da una rosa di commercianti che a Gela avevano denunciato il racket delle estorsioni. Il 17 dicembre sparano ancora a Lucca Sicula. Viene assassinato l’agricoltore Giuseppe Borsellino, cinquantaquattro anni, papà di Paolo Borsellino, il giovane imprenditore ammazzato in aprile. Giuseppe è stato condannato a morte per aver denunciato i mafiosi che volevano controllare l’impresa edile del figlio. E per aver fatto il nome dei mandanti e dei suoi assassini. L’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto uccidono il giornalista Beppe Alfano, quarantasette anni. Venerdì 15 gennaio 1993 il Raggruppamento speciale dei carabinieri arresta Salvatore Riina, sessantatré anni, Totò ’u Curtu, il Corto, capo di Cosa nostra dal 1982. Latitante dal 1969. Soltanto pochi investigatori sanno in quei giorni che il capo dei capi, appena uscito dal covo di via Bernini a Palermo, è stato riconosciuto da un mafioso pentito, Baldassarre Di Maggio, trentanove anni, ammanettato una settimana prima al Nord, l’8 gennaio, a Borgomanero in provincia di Novara.
Il 14 maggio poco dopo le nove e mezzo di sera, in via Fauro nel quartiere Parioli a Roma, Cosa nostra dimostra di poter colpire ovunque. Un’autobomba con cento chili di esplosivo scoppia al passaggio della Mercedes con il giornalista tv di Mediaset Maurizio Costanzo, cinquantaquattro anni, e la sua compagna, Maria De Filippi, trentun anni. Sette i feriti. Tra loro, le due guardie del corpo private che, su un’altra auto, stanno scortando la coppia. L’esplosione demolisce balconi, cornicioni e le pareti divisorie di quattro palazzi di sei e sette piani. L’onda d’urto strappa dai muri tapparelle, persiane, finestre per un raggio di cento metri. Sessanta le auto danneggiate. Sei completamente distrutte. Una di queste, una Fiat 127, la ritrovano dentro i locali di una camiceria. Il 27 maggio, un giovedì, un Fiat Fiorino viene parcheggiato a Firenze in via dei Georgofili. Proprio sotto alla torre de’ Pulci, tra la Galleria degli Uffizi e l’Arno. Pieno centro storico. L’autobomba scoppia di notte. Quattro minuti dopo l’una. Distrutte la torre e molte case. Gravi danni anche agli Uffizi. Muoiono Caterina Nencioni, cinquanta giorni, Nadia Nencioni, otto anni, la loro mamma Angela Fiume, trentasei anni, custode dell’Accademia dei Georgofili e dell’antica biblioteca che hanno sede nella torre, il loro papà, Fabrizio Nencioni, trentanove anni, vigile urbano, e uno studente, Dario Capolicchio, ventidue anni. I feriti sono quarantotto.
Il 27 è un numero che ritorna. Il 27 giugno a Milano la polizia è in fibrillazione per la soffiata su un possibile attentato al concerto di Bob Dylan, come ha rivelato il vicequestore in pizzeria. Il 27 luglio è la notte delle bombe a Roma. E della strage a Milano. L’ultima azione terroristica di Cosa nostra. Ma non l’ultimo omicidio. Nel quartiere della chiesa di San Gaetano a Palermo, il rione Brancaccio, c’è un parroco che predica dal sagrato. Le sue parole, la sua opera offrono un’alternativa ai bambini e ai ragazzi che vedono nei mafiosi i loro idoli. Don Pino Puglisi quei futuri rapinatori, futuri spacciatori li toglie dalla strada. Lo uccidono il 15 settembre. Il giorno in cui compie cinquantasei anni. Così, si saprà poi, hanno ordinato i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. I due boss di Brancaccio ora rispondono a Leoluca Bagarella, cinquantun anni, il nuovo capo dei capi che ha sostituito Totò Riina, arrestato a gennaio.
Un conto preciso dei morti in Italia non esiste. È possibile leggere quasi tutti i nomi degli oltre centomila soldati caduti durante la Prima guerra mondiale. Nomi e cognomi indelebilmente scolpiti nelle lapidi del sacrario militare di Redipuglia. O a Nervesa della Battaglia lungo il Piave. Ma non esiste un luogo pubblico che raccolga l’elenco delle vittime della mafia siciliana. Né della ’ndrangheta calabrese. Né della camorra campana. L’associazione intitolata a Peppino Impastato, il giornalista siciliano ucciso da Cosa nostra a trent’anni il 9 maggio 1978, ricorda 469 nomi dal 1945 al 1993. Diciotto nel 1989. Trenta nel 1990. Trenta nel 1991. Trentasei nel 1992. Ventiquattro nel 1993. Un’anagrafe della disfatta. E sono soltanto le vittime innocenti. Non i regolamenti di conti. Cioè i mafiosi uccisi da altri mafiosi. Includendo nel calcolo le guerre fra clan, varie stime contano in Sicilia almeno duemilacinquecento morti.
Non c’è soltanto il massacro della famiglia Nencioni, tra le azioni spietate di Cosa nostra da non dimenticare mai. Caterina, Nadia, la loro mamma e il papà spazzati via dall’autobomba nel centro di Firenze. Bisogna anche raccontare la storia di due gemellini. Salvatore e Giuseppe Asta, sei anni. La mattina del 2 aprile 1985 sono in macchina con la mamma. Quel martedì, come tutte le mattine. Barbara Rizzo, trent’anni, li sta portando a scuola. La sua Volkswagen Scirocco corre lungo la provinciale 20. La strada che sfiora il profilo occidentale della Sicilia fino a Trapani. Qualcuno poco lontano sta osservando la scena. Guarda la curva su cui tutte le macchine rallentano. La spiaggia e la stele che ricorda la leggenda dello sbarco di Enea in Italia. Un albergo. Poche case in riva al mare. Le onde che imbiancano gli scogli di Pizzolungo. E sull’altro lato della strada, l’erba verdissima agitata dalla brezza. I fiori di un giallo intenso che solo la primavera siciliana sa far crescere. I balzi di dolomia che si arrampicano fino a Erice, ’u Munti, il monte, su cui anche nelle giornate di sole si inchinano le nuvole. Sono le otto e mezzo passate. Arriva una Fiat 132 pesante, blindata. E dietro, una Fiat Ritmo. Le due auto affiancano e superano la Volkswagen. Barbara Rizzo non ama andare forte su quella strada. Ha due bambini in macchina. Chi osserva la scena ha una missione da compiere. Non ci pensa due volte. Preme il bottone sul radiocomando. L’autobomba parcheggiata lungo la provinciale esplode con un tuono che sentono fino a Trapani. La nuvola di fuoco, fumo e polvere strappa via tegole e infissi. Frantuma vetri e finestre nel raggio di un chilometro.
Il pubblico ministero arrivato da meno di due mesi in Procura, Carlo Palermo, trentasette anni, è sulla Fiat 132, seduto sul sedile dietro. Si è fatto un nome a Trento come giudice istruttore. E, senza sapere dove le inchieste l’avrebbero portato, è arrivato agli uffici di due società finanziarie controllate dal Partito socialista. Il 16 giugno 1983 Carlo Palermo ordina le perquisizioni. Tra i documenti sequestrati, alcuni riportano il nome del segretario del Psi, Bettino Craxi, che proprio quell’estate diventerà presidente del Consiglio. L’indagine insegue le tracce di un commercio di armi con la Somalia, di cui tra l’altro il cognato di Craxi, futuro sindaco a Milano, è console onorario. E con l’Argentina, la dittatura dei generali e dei loro amici italiani iscritti a una loggia massonica segreta, la P2. Per l’Italia potrebbe essere l’inizio di Mani pulite. Con nove anni di anticipo. Ma Craxi protesta. Accusa Palermo di averlo coinvolto illecitamente. La Procura generale della Corte di cassazione dà ragione a Craxi. Incolpa il giudice di Trento e gli toglie l’inchiesta. Adesso sotto indagine è il magistrato. Lo trasferiscono. Lui chiede di andare in Sicilia. Proprio a Trapani. Per continuare il lavoro avviato da un collega, Giangiacomo Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia il 25 gennaio 1983.
Ecco perché Carlo Palermo è sulla strada che attraversa le poche case di Pizzolungo. E perché, dopo appena quarantatré giorni di servizio in Sicilia, Cosa nostra gli recapita il regalo che gli ha annunciato con una telefonata anonima pochi giorni prima. La voce al telefono lo chiama proprio così: il regalo. Il magistrato scende dai rottami della Fiat 132 con un fischio potente nelle orecchie e una caviglia ferita. Sono molto più gravi due agenti della scorta. Antonio Ruggirello ha un occhio accecato dalle schegge. Salvatore La Porta ha tagli profondi alla testa e sul corpo. Le loro condizioni sono disperate. Rosario Maggio e Raffaele Di Mercurio, l’autista e il caposcorta, hanno ferite meno serie. Mi guardavo intorno, ricorderà Carlo Palermo, e cercavo quell’altra auto che avevo visto mentre sorpassavamo. Era sparita.
Tra i soccorritori, da una vicina vetreria arriva Nunzio Asta, trentotto anni. Anche lui ha sentito il tuono. Non capisce. Non sa. C’è una macchia di sangue sul muro, al primo piano del villino tra il mare e i fiori. Non immagina. È suo figlio. Del suo piccolo, resta soltanto quella sagoma rossa sulla facciata. L’impronta della cassa toracica, annoterà impietoso il verbale della polizia scientifica. Il corpicino del fratellino è disseminato per decine di metri. Barbara, la mamma, la moglie, è un cadavere sfigurato su un terrapieno a trecento metri dal cratere dell’esplosione. La Volkswagen Scirocco si è ritrovata esattamente tra l’autobomba e la Fiat 132 blindata. Irriconoscibili i rottami. Irriconoscibile quello che resta di una donna e due bambini. Pezzi di ferro, di vita e di morte si mescolano tutt’intorno. Due scarpine annerite. Un diario bruciato.
Quella mattina a Pizzolungo polizia e carabinieri chiudono la strada. Nunzio Asta e gli altri primi soccorritori vengono allontanati in fretta. Lui torna nell’officina. Più tardi gli telefonano dalla questura. Hanno ritrovato una targa. Sono risaliti a lui. Era la sua Volkswagen. Era la sua famiglia. Il papà di Salvatore e Giuseppe, il marito di Barbara, muore di crepacuore nel 1993. L’anno delle nuove stragi. Della famiglia dei due gemellini, resta Margherita. Aveva undici anni. Quella mattina di aprile era già a scuola.
Così, anche la mattina del 4 novembre 1993 davanti al gigantesco condominio tirato su in via del Bersagliere a Palermo, dopo centinaia di attentati e migliaia di morti, non sarebbe difficile prendere posizione. E il costruttore Pietro Lo Sicco è uno che nei confronti di Cosa nostra la sua posizione l’ha presa. Nettissima. Bisogna immaginare di essere seduti accanto al giudice per le indagini preliminari, mentre arricchisce di particolari il decreto di sequestro. E leggere le sue parole direttamente sullo schermo del computer.
Pietro Lo Sicco comincia la sua attività d’imprenditore edile agli inizi degli anni Ottanta, quando ancora gestiva un distributore di carburante in società con la moglie. Invero, batte con precisione sulla tastiera il magistrato, Lo Sicco, ancor prima di diventare costruttore di grosso spessore, scalando il vertice dell’imprenditoria palermitana, ha gestito a partire dal 1979 per conto della società IP un distributore in via Villagrazia, angolo via Aloi, a Palermo. L’intestataria della licenza era ed è tuttora sua moglie.
L’apparizione ufficiale dell’imprenditore Lo Sicco nel settore edile, annota il giudice, la si può far risalire al maggio del 1980, quando costituisce la sua prima società immobiliare insieme con la moglie, la Lopedil srl. Da quel momento in poi comincia, non senza difficoltà, l’oscura ascesa imprenditoriale, contrassegnata dalla nascita di altre società immobiliari. L’imponente attività edificatoria si sviluppa in diversi quartieri di Palermo. E il 2 giugno 1983, insieme con la moglie, costituiva una ulteriore società edile denominata Lopedil costruzioni srl. In questo contesto, aggiunge finalmente il giudice, si inserisce una speculazione edilizia utile allo scopo di questa indagine.
È proprio il condominio sotto verifica la famosa mattina del 4 novembre 1993. E a questo punto il magistrato vuole raccontare l’intera operazione.
Anni prima, scrive, il 6 febbraio 1985, Pietro Lo Sicco, amministratore unico della Lopedil costruzioni srl, acquista per 470 milioni di lire dalla Leonia srl il lotto di terreno edificabile di 2129 metri quadri, sito in Palermo tra le vie Simone Valguarnera e via dell’Artigliere. Ove, successivamente, edificherà in base a una concessione edilizia illegittima, il noto complesso residenziale di via del Bersagliere 77, richiamato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che più avanti vedremo. Quello stesso terreno, precisa il magistrato, la Leonia srl l’aveva comprato per 441 milioni dalla moglie di un altro nome famoso nella storia di Cosa nostra: Rosario Spatola, nato a Palermo il 1° settembre 1938.
Il giudice sa bene che l’affare è possibile soltanto grazie ai rapporti tra la famiglia Lo Sicco e gli associati mafiosi, come li chiama nel suo decreto di sequestro. È il capitolo più complesso e delicato dell’indagine, spiega, perché è contrassegnato da un groviglio di relazioni e di contatti tra Lo Sicco e appartenenti alla criminalità organizzata.
Si comincia dalla famiglia.
Certamente, avverte il magistrato, i rapporti di parentela non sono idonei, di per sé, a fondare alcuna circostanza indiziante a carico di Lo Sicco, così come per qualsiasi altra persona. Vero è, comunque, e lo si dice con assoluta laicità, che raramente accade, e ancor più raramente poteva accadere ai tempi dei matrimoni delle figlie del costruttore, che le parentele con famiglie ad alta densità mafiosa siano acquisite da soggetti ignari di queste circostanze ed estranei al mondo mafioso. Ed è parimenti vero che è assai difficile ricordare esempi di soggetti che dopo il matrimonio, acquisiti questi diretti rapporti, non siano stati associati agli interessi mafiosi dei loro parenti o da questi sfruttati a tal fine. In particolare, elenca ora il giudice per le indagini preliminari, le parentele acquisite da Pietro Lo Sicco sono le seguenti. La figlia, nata a Palermo il 19 maggio 1969, abitante in via del Bersagliere 77, cioè nel palazzo sotto inchiesta, è sposata con Salvatore Savoca, pluripregiudicato per associazione per delinquere e altro, scomparso per lupara bianca a ventotto anni il 26 luglio 1991. Salvatore è fratello di Giuseppe Savoca, pluripregiudicato, assassinato a Palermo la stessa mattina.
Salvatore Savoca in realtà manca da casa dal 24 luglio. Quel giorno il fratello Giuseppe, trent’anni, esce dal carcere palermitano dell’Ucciardone. Ha un permesso di tre giorni. Giuseppe è stato arrestato nel 1990. Fine pena, il 1993. La mattina del 26 luglio, verso le 11, è in macchina. Sotto un caseggiato del quartiere Brancaccio aspetta Emanuela, la figlia di otto anni, salita con la mamma a salutare i nonni. È un venerdì di sole. Gli assassini arrivano in moto. Uno appare al finestrino. Proprio accanto a Giuseppe. L’altro spara da dietro. Dentro il cristallo del lunotto. Giuseppe muore subito. Suo figlio Andrea in ospedale. Sparano a tutti e due. Andrea aveva compiuto quattro anni tre giorni prima. Quattro anni. Esclusi gli attentati, è la più giovane vittima di un agguato di mafia. Il suo fratellino, Massimiliano, due anni, si salva perché sul sedile posteriore è troppo piccolo. Le pallottole fischiano sopra la sua testa. Si salva anche perché un bimbo di due anni non ha abbastanza parole per essere considerato un testimone. Poche ore dopo l’omicidio del piccolo Andrea e di suo padre, un uomo spaventato suona il campanello alla caserma dei carabinieri di Isola delle Femmine, un paese sul mare appena fuori Palermo. È lì per denunciare la scomparsa di un ragazzo di ventotto anni, Salvatore, suo genero. Quell’uomo è Pietro Lo Sicco.
I fratelli Savoca, imparentati con uomini d’onore della famiglia del quartiere Brancaccio, lo stesso in cui verrà ucciso don Pino Puglisi, erano invisi a tutti noi, racconterà il pentito Giovanni Drago. In quanto non avevano nei nostri confronti il dovuto rispetto e omettevano sistematicamente di informarci delle loro azioni delittuose. Se mal non ricordo, aggiunge il collaboratore, i due fratelli avevano tentato un’estorsione ai danni del titolare di un distributore di benzina nel nostro mandamento. E costui si era rivolto a noi in quanto, pagando il solito pizzo, godeva della nostra protezione. Fatti i necessari accertamenti venimmo a sapere che autori del tentativo di estorsione erano proprio i due fratelli Savoca. Decidemmo allora di parlarne con Enzo Savoca, uomo d’onore e loro zio. Quest’ultimo, dice Giovanni Drago, ci assicurò che li avrebbe redarguiti, diffidandoli dall’operare nel nostro territorio senza il nostro consenso, ma i due continuarono a commettere furti e rapine a nostra insaputa. Questo, rivela il pentito, il motivo dell’omicidio dei due fratelli.
Pietro Lo Sicco ha un altro genero. Attraverso il matrimonio della seconda figlia, scrive il giudice, nata a Palermo il 27 marzo 1971. Ed è un’altra parentela finita nelle indagini. Il marito della figlia minore, insomma, confermerebbe la regola. Il magistrato spiega infatti che suo padre è nell’elenco dei palermitani in contatto con la famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù. A lei, la seconda figlia, come alla prima, il costruttore dona un appartamento in via del Bersagliere. Sempre lo stesso palazzo, davanti al quale giovedì 4 novembre 1993 la verifica va avanti per tutta la mattinata.
Dopo un’ora Pietro Lo Sicco, il suo direttore dei lavori, i tecnici del Genio e i funzionari del Comune sono ancora alle prese con misure e discussioni. La questione non è soltanto la distanza del palazzo dalle case accanto. C’è una storia nella storia. Uno sfoggio di arroganza e abusi. Comincia nel 1987 quando Pietro Lo Sicco, come amministratore unico della Lopedil costruzioni srl, chiede al sindaco di Palermo il rilascio di una concessione edilizia per la realizzazione del condominio. Il costruttore specifica le particelle catastali dell’area interessata. Nel febbraio 1987 il progetto, che prevede la demolizione delle vecchie case accanto, passa un primo esame della commissione Edilizia. La procedura per ottenere l’autorizzazione prosegue nell’ottobre 1988. Quando davanti al notaio, Lo Sicco mostra l’atto d’obbligo. Cioè il documento che impegna il proprietario-costruttore a rispettare gli standard urbanistici in cambio del permesso a costruire. E nell’atto, dichiara di essere l’esclusivo titolare di tutte le particelle catastali che comprendono l’area del progetto.
Non è vero.
Tre di quelle particelle non sono sue. Sono di un’anziana pensionata, Giovanna Aresu. E delle sue figlie, Savina e Maria Rosa Pilliu. Ma grazie alla falsa dichiarazione davanti al notaio, il 3 marzo 1990 Pietro Lo Sicco ottiene dal Comune di Palermo la concessione edilizia numero 120.
Una mattina Savina e Maria Rosa Pilliu vedono, incredule, che il braccio di una scavatrice sta demolendo il tetto delle loro case. Corrono a protestare. I colpi della pala meccanica hanno già fatto danni irreparabili. E il condominio cresce. Piano dopo piano. Ben oltre il progetto approvato. Fino al 13 febbraio 1993 quando il Comune, avvertito del raggiro, sospende i lavori. Ormai è tardi, però. Il palazzo è quasi finito. L’ispezione del Genio civile deve accertare proprio questo. Deve verificare se Pietro Lo Sicco ha almeno rispettato le distanze minime di legge dalle case accanto che non ha mai comprato.
Alle 13, scrivono tecnici e funzionari sul verbale, ultimate le misurazioni si è sciolta la riunione dopo due ore dal suo inizio. L’autorizzazione a Pietro Lo Sicco prevedeva un primo edificio di dieci piani fuori terra, tre cantinati e una torre scale. E un secondo di otto piani, la torre scale e altri tre piani cantinati. Nel corso del sopralluogo, scrivono invece i tecnici del Genio civile, si è notato che la ditta ha realizzato due edifici strutturalmente indipendenti, costituiti rispettivamente da undici elevazioni fuori terra… e nove elevazioni fuori terra.
È insomma scappato un piano di troppo. E per questo viene segnalata l’infrazione alla Procura. Ma anche la distanza del condominio dalle case della famiglia Aresu non è a norma. Il distacco a filo dell’edificio, è scritto sul verbale del Genio civile, deve non essere inferiore a metri 12,75: invece risulta pari a metri 7,75.
Il verbale non lo firmano subito. I nove uomini riuniti da due ore in via del Bersagliere si salutano frettolosamente. Le nuvole che la brezza del mare soffia sopra di loro sono adesso più dense. Più bianche. Come sempre di pomeriggio. I nove tornano alle loro auto. Ciascuno con una sua idea in testa. Il giorno stesso il commissario straordinario del Comune di Palermo annulla la concessione edilizia numero 120. Ed è il primo passo verso l’ordine di demolizione del palazzo.
La sera del 4 novembre 1993 per l’insospettabile signor Pietro Lo Sicco chiude una giornata nera. Per le sorelle Pilliu si apre l’inferno delle minacce.
Se Savina e Maria Rosa Pilliu sono ancora vive, scrive con agghiacciante franchezza il giudice nel decreto di sequestro, lo si deve probabilmente alle entrature che Lo Sicco aveva nella pubblica amministrazione e nel sistema bancario palermitano, che hanno permesso al costruttore di porre nel nulla tutte le denunce che le coraggiose sorelle hanno posto in essere nei suoi confronti nella convinzione, che sino a oggi forse deve essere sembrata mal riposta, che esiste uno Stato di diritto e che chi commette reati deve ordinariamente pagarne le conseguenze e, soprattutto, che lo Stato deve stare dalla parte di chi reati non ne commette.
Le due sorelle lavorano nel loro negozio di alimentari, a pochi passi dal palazzo di via del Bersagliere. Il 1° maggio 1993, racconta Savina Pilliu, pur essendo festa il negozio era aperto. Già quel giorno notiamo che all’esterno era stata fatta una scritta che prendeva tutta la parete della facciata. La scritta diceva: Pilliu, la grascia continua.
La grascia in Sicilia è il grasso di maiale. Ma anche l’unto, lo sporco, la schifezza. Il giudice trascrive tutto il verbale con le dichiarazioni di Savina Pilliu.
Nel gennaio 1990, spiega lei, io e mia sorella Maria Rosa eravamo state contattate da un macellaio che ha il negozio nel quartiere. Il macellaio ci disse che era interessato a comprare alcuni magazzini nel palazzo che Lo Sicco doveva costruire e che da questi aveva saputo che aveva problemi con noi. Spiegammo che non era nostra intenzione ostacolare la costruzione dell’immobile, ma solo ottenere quanto ritenevamo dovuto. E cioè la permuta del nostro terreno con alcuni appartamenti del nuovo palazzo, salvo un conguaglio ove fosse necessario. Il macellaio ci disse che, se le cose stavano in questi termini, pensava che il problema si potesse risolvere. E ci disse anche che ci saremmo rivisti nell’ufficio di Lo Sicco. Questa riunione non è più stata fatta. Successivamente abbiamo compreso il motivo per cui il costruttore non accettò di incontrarci. Proprio in quel periodo aveva ottenuto la concessione a edificare e quindi non ci riteneva più un ostacolo.
Il 1° maggio 1993 le due sorelle tornano a parlare con il macellaio. Sono consapevoli che sia un personaggio da cui tenersi alla larga. Hanno saputo dalla televisione che tempo prima era stato arrestato per traffico di armi e narcodollari. Ma hanno capito come lui sia l’unico contatto che hanno per comunicare con il costruttore. E al macellaio raccontano che Pietro Lo Sicco le ha denunciate. Un suo esposto ipotizza reati di estorsione e corruzione di pubblico ufficiale. Dopo il terreno sottratto, dopo la casa demolita, adesso la beffa della denuncia. Proprio quel giorno, in quel momento, mentre Savina e Maria Rosa Pilliu sono a protestare nella macelleria, qualcuno scrive l’insulto sulla facciata del loro negozio.
Dal novembre del 1993 in poi, ricorda Savina Pilliu, abbiamo ricevuto io e mia sorella per tre volte dei fusti di calce. La prima volta ci arrivarono lo stesso giorno che eravamo andate in Prefettura per rendere dichiarazioni proprio su Pietro Lo Sicco. Su tali fatti, abbiamo presentato una denuncia al commissariato Libertà. In un primo tempo non mi sono preoccupata. Ma successivamente con mia sorella abbiamo saputo che questo invio aveva, nel linguaggio mafioso, il significato di una minaccia di morte.
Appare dunque di rilevante interesse, fa notare adesso il giudice, che sia confermato che Lo Sicco si rivolse a soggetti legati alla criminalità organizzata, per risolvere i suoi problemi con le sorelle Pilliu. E che le stesse sorelle abbiano dovuto subire una serie incredibile di soprusi, umiliazioni e minacce per la loro tenace resistenza agli interventi mafiosi. Tutto ciò dimostra sia l’interesse dell’associazione nella costruzione del palazzo, sia l’utilizzazione da parte di Pietro Lo Sicco, per interposta persona, di metodi mafiosi per la gestione dell’impresa.
In particolare, aggiunge il magistrato del Tribunale e a questo punto crede di aver quasi finito di scrivere, Lo Sicco sfrutta i suoi contatti con la criminalità organizzata e in specie i risalenti rapporti con la famiglia di Santa Maria del Gesù, con la famiglia di Brancaccio, nonché i recenti rapporti con la famiglia di Resuttana. Come hanno riferito in maniera convergente i collaboratori Gioacchino La Barbera, Giovanni Brusca, Giovanni Drago…
Giovanni Drago, uomo di fiducia dei fratelli Graviano di Brancaccio, è tra i più spietati assassini di Cosa nostra fino al suo arresto nel 1990. Ed è lo stesso testimone che rivela le ragioni della scomparsa del genero di Pietro Lo Sicco.
Giovanni Brusca, reo confesso di oltre cento omicidi, non è soltanto il capo mandamento di San Giuseppe Jato che nel 1992 a Capaci partecipa all’attentato per uccidere Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta. È anche il boss mafioso che il 23 novembre 1993 fa rapire il figlio di un pentito che sta collaborando alle indagini sulla strage. Giuseppe Di Matteo ha dodici anni. Viene strangolato dopo 779 giorni di prigionia. L’11 gennaio 1996. Quel giorno Brusca sente dalla tv che l’hanno condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’esattore democristiano Ignazio Salvo. Chiama i suoi sgherri. Allibertativi d’u cagnuleddu, liberatevi del cagnolino, ordina loro. Poi fa sciogliere il piccolo corpo in un bidone pieno d’acido.
Gioacchino La Barbera è un uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte. Il tardo pomeriggio del 23 maggio 1992 è in macchina a Capaci su una strada di campagna parallela all’autostrada che porta a Palermo. Dall’aeroporto l’hanno appena chiamato sul cellulare. Gli hanno detto che Giovanni Falcone è atterrato. Lui si ferma al punto stabilito. Scende dalla Lancia Delta. Cammina verso la rete che costeggia l’autostrada. Si china ad accendere l’interruttore nascosto in un cunicolo. Strappa con gesti veloci le erbacce cresciute intorno all’antenna in modo che non ci siano interferenze. Risale in macchina e si sposta subito da lì. Torna indietro lungo quella via stretta che ha percorso su e giù, non sa più quante volte. Quando vede arrivare le tre Fiat Croma blindate, schiaccia l’acceleratore della sua Lancia per rimanere accanto al corteo. Per calcolarne la velocità. Sempre dalla strada di campagna parallela all’autostrada. Mentre guida, guarda a sinistra. La Croma bianca che gli interessa di più corre in mezzo. La Croma marrone è davanti. Quella azzurra dietro. Gioacchino La Barbera guarda e telefona ai capimafia saliti sul fianco della montagna per godersi l’attentatuni, come lo chiamano in dialetto. Li avverte che stanno andando molto più piano rispetto alle prove che hanno fatto. Novanta all’ora, invece di centosessanta. Troppo piano. Forse bisogna rinviare. Mancano due minuti alle sei del pomeriggio. La brezza piega i cespugli di oleandro. C’è un vecchio frigorifero abbandonato lungo l’autostrada. È il punto di riferimento. Praticamente il mirino dell’esecuzione. Gioacchino La Barbera frena e torna indietro un’altra volta. Giovanni Brusca, sul fianco della montagna con gli altri capimafia, ha il telecomando stretto nella mano destra. Per lui è facile come spegnere il televisore. Cinque quintali di tritolo disintegrano l’autostrada in un fungo nero come la morte.
I mafiosi pentiti che rivelano chi sia il misterioso signor Pietro Lo Sicco non sono picciotti sconosciuti. Gioacchino La Barbera, una volta arrestato, è il primo. Parla a ruota libera. La frangia spettinata. Lo sguardo apparentemente spaurito. Queste sono le sue parole.
Posso aggiungere che tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993 accompagnai molte volte Giovanni Brusca in un palazzo in costruzione di fronte al parco della Favorita, accanto alla gelateria, dove erano state abbattute delle vecchie case. Il palazzo, dice La Barbera riferendosi proprio al condominio di via del Bersagliere, era in via di ultimazione e Brusca aveva comprato due appartamenti comunicanti per i quali andava a scegliere le mattonelle e altre parti di arredo. Giovanni Brusca intendeva usare personalmente questo immobile tanto che prospettava la possibilità di creare tra i due appartamenti una porta cosiddetta a scomparsa. Credo che fossero al terzo o al quarto piano del palazzo che si compone di varie scale e ha anche un’entrata da una stradina, parallela a quella principale. Conosco ma non ricordo il nome del costruttore, si trattava di un cognome poco comune. Sono certo, sottolinea l’uomo d’onore che ha partecipato alla strage di Capaci, che il costruttore sapesse la vera identità di Brusca perché ho assistito a vari colloqui tra i due e sono certo della mia affermazione. Tra l’altro Brusca ottenne dal costruttore la promessa che costui assumesse poi come portiere un giovane di nome Salvatore, non ricordo il cognome, che aveva intestata la Clio color canna di fucile usata da Brusca. Questo giovane inoltre aveva dato a Brusca il proprio documento d’identità e la patente, sulla base dei quali si era fatto fare un duplicato, credo dal solito falsario romano. Aggiungo infine che una volta accompagnai nel detto palazzo anche Leoluca Bagarella che però decise di non comprare nulla, rivela La Barbera riferendosi al capo di Cosa nostra che in quel periodo sostituisce Salvatore Riina ormai in carcere. Bagarella era stato preannunciato al costruttore da Giovanni Brusca come suo amico, ma non so se il costruttore sapesse di chi si trattava realmente.
E questa è la testimonianza di Giovanni Brusca. Parla di Pietro Lo Sicco quattro mesi dopo il suo arresto, durante l’interrogatorio del 19 settembre 1996. E in quelli successivi.
Un appartamento lo volevo acquistare anch’io, tramite Santino Pullarà, dice Brusca rispondendo alla domanda del pubblico ministero. Cioè il costruttore è molto amico o vicino, non so che tipo di rapporti hanno, ma quanto meno è una persona molto vicina a Santino Pullarà.
L’ha comprato, chiede il pubblico ministero, o l’ha venduto? L’ha affittato o l’ha restituito?
No, lo avevo comprato, risponde Giovanni Brusca nella sua faccia grande nascosta dalla barba, e poi l’ho restituito.
A chi lo ha restituito? Al costruttore?
Al costruttore.
Ricorda a che piano era?
Terzo piano.
E l’ha ristrutturato, l’ha sistemato, incalza il pubblico ministero.
No, no, non ho fatto niente, dice Brusca. Ci avevo messo i mobili, le tende per…
Ci ha abitato in quell’appartamento?
Ci ho abitato un pochino, ma pochissimi giorni. Proprio giorni.
In che periodo, se lo ricorda?
Dunque, quando è stata fatta la perquisizione da Gaspare Romano, risponde Brusca nominando l’imprenditore accusato di avere coperto la sua latitanza, poi non ci sono più andato.
Comunque nel periodo della latitanza, insiste il magistrato.
Sì.
E perché se n’è andato da quell’appartamento?
E scusi, sorride Giovanni Brusca, quando ci vanno a fare una perquisizione cioè, che ci devo andare a fare io…
Nello stesso palazzo gliel’hanno fatta la perquisizione?
Sì, cioè hanno guardato il terzo piano, cioè proprio ci sono andati mirati e non…
La perquisizione l’hanno fatta nell’appartamento suo?
Sì, Gaspare Romano.
Che era a nome di Gaspare Romano, cerca di capire il magistrato che è una donna.
Sissignora, scandisce Brusca e annuisce.
E lei l’ha restituito al costruttore.
Subito.
Le risulta, domanda il pubblico ministero, se altre persone di Cosa nostra furono interessate all’acquisto di appartamenti in questo palazzo?
Inizialmente, dice Giovanni Brusca, c’era pure l’interesse di Leoluca Bagarella. Ma poi non… Non ha fatto più niente.
Non furono coltivati questi…
Cioè, completamente, cioè se l’è subito tolto dalla mente, aggiunge il collaboratore.
Che altri rapporti, chiede il pubblico ministero in un successivo interrogatorio, ha avuto lei con Gaspare Romano?
Niente, quelli di normale amministrazione, cioè cortesia, da farmi… Visto che lui aveva questa rappresentanza, si doveva intestare l’appartamento in via… via… Quello di Lo Sicco.
Via del Bersagliere, precisa il magistrato.
Via del Bersagliere, ripete Brusca, che poi non è più intestato perché…
Oh, ecco, questo è un argomento specifico su cui dobbiamo tornare. Siamo sicuri che questo appartamento non è suo?
Per me se lo può andare a prendere, risponde il mafioso pentito. Me li ha tornati i soldi, dico, siccome non è mio, non è più di Gaspare Romano, infatti quando lei mi ha detto, dice ancora è di Gaspare Romano, io dissi mah, ma quale Gaspare Romano? Cioè siccome ha tornato i soldi, che gli avevo dato ottanta milioni in vaglia e sono stati ritornati.
E, domanda il magistrato, li ha avuti lei?
Sì, li ho avuti io, conferma Giovanni Brusca.
E li avrà scambiati da qualche parte?
Lui li ha scambiati, non io. Gaspare.
E a lei ha dato il contante?
Sì, conferma Brusca, il contante, perfettamente.
Comunque lei esclude con certezza di avere proprietà in questo palazzo in via del Bersagliere, insiste il pubblico ministero.
Perfettamente… Un appartamento mi voglio prendere io, riassume più avanti Giovanni Brusca, un appartamento si voleva prendere Bagarella… perché dove Bagarella passa c’è la folleria, cioè non mi potevo muovere di un passo e subito… Comunque pazienza.
E come se li sono presi tutti questi appartamenti, domanda il magistrato, cioè è una zona cara?
Sì, sì, ma io posso rispondere dei miei. Io infatti… io dovevo pagare una parte in contante e ancora dovevamo stabilire che c’era il mutuo da andarsi a caricare. Solo che atto non se ne poteva fare, tra questo fatto, tra il problema che c’era… C’era il fatto della perquisizione che è avvenuta nella casa di Gaspare Romano. Subito ci ho levato mano. Subito, subito.
Bagarella è arrivato a comprare casa lì?
Quando ha saputo che me la sono comprata io, spiega Brusca, cioè ha saputo che me la sono presa io, lui se ne è andato.
Quando ha saputo che l’ha lasciata lei?
Lui all’inizio, quando ancora si stava costruendo. Noi dobbiamo parlare del ’92, inizio 1992. Quando ancora era tutta… Cioè con il traversato, ci siamo passati per vedere quale potere scegliere e io mi sono scelto questo terzo piano. Lui pensava di poterselo prendere pure. Però forse pensando che io magari vedendolo che lui se lo comprava, io me ne andavo… Perché poi a un dato punto con la scusa tutti e due in un appartamento, dice, non è possibile. Allora a un dato punto lui ha scelto e se ne è andato per i fatti suoi.
Quindi, deduce il pubblico ministero, Bagarella ci ha rinunziato prima dell’acquisto di lei?
Sì, Bagarella ci ha rinunziato quando io l’ho acquistato.
E però ci sono andati a finire lo stesso… Ci è andato a finire lo stesso Gaspare Romano, fa notare il magistrato.
Gaspare Romano ero io, spiega Giovanni Brusca.
Era lei. È stato abitato per qualche tempo questo appartamento?
Sì, risponde Brusca.
E da chi?
Ma è stato abitato per circa un mese, un mese e mezzo.
Da Lei? O da Gaspare Romano?
Saltuariamente da me e da Gaspare Romano, risponde l’ex capo mandamento di Cosa nostra.
Va bene, conclude il pubblico ministero.
Scusate, lo interrompe lui, come…
L’ho capito, sorride il magistrato. Difatti… come garçonnière.
Eh?! esclama disorientato Giovanni Brusca che invece non ha capito.
Cosa nostra non parla francese. Non si ferma davanti ai bambini. Non risparmia le donne. La mafia la vedi nelle lacrime di Rosaria Costa, vedova a ventidue anni. La senti nelle parole che Rosaria pronuncia ai funerali di Stato a Giovanni Falcone, alla moglie e agli agenti di scorta tra i quali Vito Schifani, suo marito. A nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato, dice quel giorno al microfono la giovane vedova, mamma di un bimbo di quattro mesi, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro e non, ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio di cambiare, ma loro non cambiano, continua Rosaria tra le lacrime e gli applausi nella chiesa di San Domenico. Il prete accanto a lei, avvolto nei colori del lutto, cerca di farle leggere la lettera appoggiata sul piano inclinato del leggio. Di cambiare, di cambiare, insiste Rosaria davanti alle cinque bare, loro non vogliono cambiare loro, loro non cambiano, loro non cambiano. Il prete la rimprovera sottovoce e con lo sguardo. Più volte le toglie il microfono. Lo riavvicina alla bocca di Rosaria quando è sicuro che lei dica soltanto quello che c’è scritto. Il pianto la interrompe. Ma la sua voce trova ancora vigore. Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. È l’ultima preghiera. L’ultima frase della lettera concordata. E la rabbia di Rosaria esplode. Non c’è amore qui, dice. Il prete le toglie definitivamente il microfono. Non ce n’è amore qui, implora la giovane vedova, non ce n’è amore per niente. E crolla svenuta.
Lo strazio di Rosaria Costa trasmesso all’Italia in diretta tv risuona indelebile nella memoria. O stai di qua o stai di là. Non esiste via di mezzo di fronte a un’organizzazione terroristica come Cosa nostra. E il costruttore Pietro Lo Sicco è decisamente di là. Mentre bambini, donne e uomini italiani continuano a morire, dilaniati dagli attentati del 1993, la reputazione di Lo Sicco è totalmente affidabile. Tanto affidabile che negli stessi mesi in cui preparano altre stragi, un boss sanguinario, schivo e ricercato come Giovanni Brusca va a nascondersi proprio nel palazzo di via del Bersagliere. E quando un’inaspettata perquisizione lo convince a cambiare aria, Pietro Lo Sicco gli restituisce i soldi. Provateci voi. Provate a comprare un appartamento di lusso. A ripensarci. A dire al costruttore che rivolete indietro i soldi. Senza dover pagare interessi. Senza penali. Senza perderci.
Quel primo giovedì di novembre, il 4 novembre, festa dell’Unità d’Italia, Pietro Lo Sicco non è solo ad affrontare il Genio civile. Tra i nove che hanno appena finito di misurare la distanza tra la vecchia casa della famiglia Aresu-Pilliu e il condominio che ha ospitato Giovanni Brusca, si muove un volto amico. Ha il profilo ovale, né magro né grasso. La barba ben rasata. La fronte lucida sotto il voluminoso riporto. I capelli neri come l’inchiostro. La pettinatura da sinistra a destra e la riga bassa poco sopra l’orecchio. Gli occhiali da vista grandi, fuori moda. Le guance pallide di un uomo poco oltre i quarant’anni. Uno sguardo devoto. Fa l’avvocato. Lo Sicco gli sta sempre accanto. Non lo molla un attimo. È il suo avvocato d’affari. Non un difensore qualunque. Non l’avvocato d’ufficio obbligatorio nei processi penali. Quello dicono sia uno dei massimi esperti di urbanistica in città. Il professionista che lo assiste nelle operazioni immobiliari. Il suo professionista di fiducia. È arrivato in via del Bersagliere per aiutare il costruttore che ha dato rifugio al killer del telecomando, all’uomo che ha materialmente fatto esplodere Giovanni Falcone, sua moglie e gli agenti di scorta, tra i quali il giovane marito di Rosaria Costa. È lì per mettere a disposizione la sua scienza. Per evitare la demolizione del palazzo. Per sostenere che quello che perfino al buon senso dei più sembra un grave abuso, è soltanto una diversa interpretazione delle norme edilizie. È nato a Palermo nel 1950, l’avvocato di Pietro Lo Sicco. Raccontano che si sia laureato con lode a ventitré anni. La sua firma appare chiara, netta, leggibile. Sulla planimetria che documenta le misurazioni è tra l’architetto del Genio civile e l’avvocato del Comune. In fondo al verbale della verifica, è in testa alle altre. Anche sul resoconto della riunione preliminare che dispone il sopralluogo in via del Bersagliere, ecco nome e cognome scritti di suo pugno prima della firma di Pietro Lo Sicco. Una grafia minuta. Appuntita. Te li immagini uno accanto all’altro, mentre si passano gentilmente la penna. Usi la mia signor Lo Sicco, prego. Grazie, avvocato. Nelle carte del Genio civile è indicato come il legale della Lopedil costruzioni. Proprio quel giovedì, il 4 novembre 1993, mentre l’Italia ancora piange i suoi morti e altri italiani danno la caccia ai carnefici, proprio quello stesso giorno, il palazzinaro di fiducia dei terroristi di Cosa nostra e un avvocato d’affari stanno dalla stessa parte.