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La regola del ricatto
La stazione Centrale si annuncia nel finestrino. Le grandi volte risucchiano il treno. Come bocche affamate. Si scende. Si ricomincia daccapo. O si muore. Ho davvero paura, Luca. Che caldo che fa. In mezzo a tutta questa gente mi sento nudo. Mi potrebbero ammazzare in qualunque momento. A volte vorrei lo facessero subito. Così passa tutto. Che minchia hai da guardarmi? Questo stronzo mi guarda. Scendi, che hanno aperto le porte. E stai attento al mio borsone, stronzo. Scendi, scendi. Un telefono. La scheda. Il numero diretto… 7545.
Ciao, sono io.
Ciao Rocco, mi saluta lui, dove sei?
Minchia, non mi sembra possibile. A Milano sono.
Dove?
Stazione Centrale.
Aspettami davanti all’ufficio della polizia. Binario 21. Così se ci sono problemi, ti rifugi lì dentro. Ti vengo a prendere.
Lascia perdere. Mi devo riabituare a questa città. Ti raggiungo a piedi. Sei in redazione, no? Aspettami fuori.
Camminare fa bene. Farebbe bene. Mi faceva bene. Ogni volto è una minaccia. Mi sembra una minaccia. Devo riabituarmi agli spazi aperti, sì. Alla gente. Non posso considerare tutti i passanti una minaccia. Che casino, Luca. Eccolo che mi aspetta. Mi guarda senza parlare. Anch’io lo guardo.
Ce la farai, Rocco, dice subito intuendo i miei pensieri. Ha le maniche della camicia azzurra arrotolate sugli avambracci. Il nodo della cravatta allentato. Un sorriso amichevole.
Lo spero. Ti posso abbracciare?
Certo che puoi, risponde lui.
Ho messo da parte il Valium, sai? E con quello che ho passato in questi giorni, non mi è tornata la voglia di tagliarmi. È un buon risultato, non credi?
Un ottimo risultato. Vieni che scriviamo la lettera al computer, dice all’improvviso e mi accompagna verso la sua scrivania.
Entriamo in un grande ufficio. O meglio, la redazione, come la chiama lui. Ci guardano tutti. Mi presenta al suo capo. Elegante, giacca e cravatta annodata perfettamente, anche se fuori si muore di caldo. Il capo mi accoglie come se mi conoscesse da tempo. Stringe la mia mano con forza e mi dà anche una pacca sulla spalla. Pensavo fossero tutti nostri nemici, Luca. Avremmo dovuto tirarci fuori prima. Fuori dal Fortino.
Sono pronto, avverte lui con le mani sulla tastiera, siediti. Tu detti e io scrivo. Poi la stampiamo.
Carissima dottoressa, quante volte avrei voluto parlarle così. Ma ogni volta che ci ho provato non ci sono mai riuscito…
Ehi, Rocco, vai più piano, così metto subito la punteggiatura.
Va bene… Avrei voluto parlarle non come un collaboratore davanti a un magistrato. Ma semplicemente come un ragazzo, Rocco, con il proprio passato sbagliato e molta voglia di cambiare e di non sentirsi solo in questo. Io cerco di tenere duro, di non mollare. Ma quando si viene ingiustamente colpiti da comportamenti drastici, come è successo nei miei confronti da parte della commissione centrale di protezione, non si può far finta di niente. A maggior ragione quando io sono stato coerente e lo sono tuttora con la mia scelta di collaborazione… Aspetta che il resto l’ho scritto su un altro foglietto. Ce l’ho in tasca e lo devo trovare.
Aspetto, Rocco.
Ecco… Nel programma di protezione era inserita anche mia madre. Così ora, oltre a tutti i miei problemi, devo avere la più importante tra tutte le preoccupazioni. E cioè sapere che mia madre è in mezzo a una strada. L’unica cosa che può fare è tornare a casa sua, al Fortino. E se le dovesse succedere qualcosa, chi posso ringraziare? Chi può essere così signore da assumersi le sue responsabilità? Mia madre non ha fatto nulla per meritare questo conto salato. E se proprio qualcuno lo deve pagare, lasciate che lo paghi io, personalmente. Perché sicuramente il luogo dove ritornerà non è tale da garantire la sua incolumità. Anzi, tutt’altro. Sono sicuro che qualcun altro al mio posto avrebbe sfruttato l’occasione. Quando si mette in discussione la parola pentito, noi veniamo subito marchiati a fuoco con un’etichetta. Lo stampo dell’opportunismo. Per molti è così, è vero. Ma c’è anche qualcuno che decide di prendere queste decisioni molto sofferte e poco apprezzate, perché ha veramente voglia di cambiare la propria vita. Per il Tribunale di sorveglianza di Roma e per la commissione centrale essere uscito di casa fuori orario per soccorrere la propria madre è un reato. Per un figlio è semplicemente un gesto di attenzione. È giusto rispettare il codice, ma dato che il Tribunale e la commissione sono composti da esseri umani, cosa avrebbero fatto loro se nelle stesse condizioni si fosse trovato un loro familiare? Io comunque… Ho quasi finito.
Non c’è problema, Rocco, dice lui e continua a battere le dita sui tasti.
… Io comunque, siccome fin dall’inizio la mia decisione non l’ho presa per interesse, andrò avanti lo stesso con molto orgoglio e maggiore forza, più di quanto ne avevo prima, a rispettare quelli che sono i miei impegni. Io, carissima dottoressa, entrerò comunque, anche senza scorta, dentro quell’aula. Verrò con il taxi o l’autobus se necessario. Con assoluta stima… Ecco, adesso posso ricominciare davvero. Stampala che vado a spedirla subito.
Dove dormi stanotte? Non andrai al Fortino, spero.
No, ho telefonato a un amico.
È sicuro?
Sì, l’ho conosciuto in carcere a Busto Arsizio. È un rubagalline. Non sa niente del mio passato. Ha solo qualche piccolo precedente. Fa il muratore e questo è importante, perché potrebbe aiutarmi a trovare un lavoro.
A soldi come sei messo?
Ho quello che ho risparmiato dallo stipendio di collaboratore. In quel buco del mondo non ho speso tanto.
Se vuoi ceniamo insieme, Rocco.
Andare al ristorante può essere pericoloso. Non vorrei coinvolgerti in un regolamento di conti.
No, qui c’è la mensa, rivela lui. Finché non hai un lavoro, dovrai evitare spese inutili. A pranzo e a cena mi chiami e vieni qui. Tanto io ci sono sempre fino a tardi.
Va bene. Per stasera però devo organizzarmi e capire se l’amico può ospitarmi e fino a quando… Volevo chiederti una cosa, prima. Mi fai vedere dove ti sei incontrato con Luca?
È la sala riunioni vicino alla portineria, andiamo.
Prendiamo il lungo corridoio. Attraversiamo la portineria. Lui indica la sala alle spalle dei due custodi in divisa grigia. La porta si apre su una fila di banchi, uniti a formare un unico tavolo. E decine di sedie intorno.
Scusa il caos. Hanno fatto qualche conferenza stamattina. Luca si è seduto qui. Io gli ero di fronte.
Non mi aveva mai detto niente.
Forse aveva paura a dirtelo, ipotizza lui. Certe scelte devono maturare in segreto.
È stato il destino a portarmi qui. Lo stesso destino di Luca. E questo a volte mi sveglia la notte. Perché Luca dopo essere stato qui, l’hanno ammazzato.
Non l’hanno ammazzato perché è stato qui, Rocco. Questo lo sai bene. E poi il destino non esiste. È soltanto la sintesi tra le proprie decisioni e il mondo che ci circonda.
A volte le proprie decisioni non bastano. A volte il mondo che ci circonda è troppo difficile. È il mondo a fare di noi ciò che siamo.
Questa però non deve essere una scusa. L’importante è che tu abbia deciso da che parte stare. Indipendentemente dalla commissione centrale, dal Tribunale di sorveglianza, dalla Procura.
Quello che dovevo fare per Luca l’ho fatto, adesso posso anche morire.
Non dire minchiate, Rocco, si scalda lui.
Da quando parli come me? Sì, hai ragione, è una minchiata. Intanto sono io che dovrò tornare in carcere. Mi hanno detto che l’arretrato che ho ancora addosso lo devo scontare.
Sconterai l’arretrato e ne uscirai completamente libero.
Ma non è giusto quello che mi hanno fatto. Non potevo abbandonare mia madre e quel figlio di puttana lo sapeva bene.
Lo so, Rocco, che non è giusto quello che ti hanno fatto. Ma non è una scusa sufficiente per rinunciare. La vita è tua, Rocco.
Non ti preoccupare, non torno indietro. Piuttosto mi faccio ammazzare. Ma spero non succeda prima di quel giorno, quando andrò all’udienza a guardare negli occhi quelli che hanno ucciso Luca. Li voglio fissare negli occhi quando mi interrogheranno.
Almeno questo temo non sia possibile, Rocco. Le gabbie saranno alle tue spalle. E tu dovrai rivolgerti al presidente della Corte d’Assise. Altrimenti quello si offende, dice lui e sorride.
Troverò il modo di guardarli negli occhi, lo farò. Ora vado a spedire la lettera alla dottoressa. Se mi cerchi, gli sbirri mi hanno restituito il cellulare. Il numero è sempre lo stesso. Domani mattina riattivo l’abbonamento.
Cappellino e visiera tirati sul naso. Sguardo basso. Faccia incazzata. Nessuno ti infastidisce se mostri una faccia incazzata. L’amico abita dalla parte opposta rispetto al Fortino. Bisogna prendere il tram. Poi l’autobus. Poi a piedi. Una vecchia casa di ringhiera. Non c’è nessuno qui che mi possa riconoscere. Non avevamo clienti da queste parti. È gentile lui. Fa il muratore, sì. E la sera arrotonda. Nel senso che la casa è libera praticamente per tutta la giornata. Tranne dalle due alle sette, quando torna a dormire. Già, mi tocca aspettarlo sul pianerottolo fino alle due. Piuttosto che stare qui seduto per terra, avrei dovuto accettare l’invito a cena. Finalmente arriva. Ha più di quarant’anni. Ma non ha una donna. Ne aveva una, non gli ho mai chiesto cosa sia successo poi. Non fa storie vedendomi. Nemmeno all’idea che dovrò stare da lui per qualche mese. Sorride. Dice che così può avere finalmente compagnia. Non mente. Almeno mi sembra.
In mezzo alla gente cammino sempre con un filo di spavento nello stomaco. Ma quello che sento adesso non è proprio spavento. Minchia, che occhi e che gambe. Ti sta guardando, Rocco. Hai visto, Luca? Mi sta guardando. Resta fermo davanti alla vetrina. Fanculo alla vecchia. Pensa te se doveva entrare una cliente proprio adesso. Me l’ha portata via. Non si rovina così uno sguardo intenso. E se ti avesse chiesto qualcosa, tu cosa gli avresti detto? Ciao, piacere, sono un pentito così sfigato che dopo essere stato tradito dai Compari, mi ha tradito perfino lo Stato. Chi sono i Compari? Beata te che non sai chi sono i Compari. Si vede che sei una ragazza pulita. Lo si vede dai tuoi occhi. Rocco, svegliati, è inutile. Uno come te non può farsi una storia adesso. Non hai nemmeno i soldi per invitarla a cena. Una così mica viene a mangiare la pizza. Devi portarla in un ristorante vero. E addio stipendio da collaboratore. Che poi non ho più. Oggi lui mi viene incontro in portineria. Nel grande atrio con i due custodi e la porta dove sei passato tu, Luca.
Ciao giornalista.
Ciao, Rocco. Sei in ritardo, dovevamo vederci un’ora fa, protesta lui. Andiamo a fare quattro passi.
No, aspetta. Forse mi puoi aiutare. Ho visto una fata.
Allora il ritardo è giustificato. Ma se ti ha invitato a cena, potrebbe averla mandata qualcuno del Fortino che ti vuole tirare due pistolettate nelle gambe. Un certo Rocco, lo conosci?
Fanculo, se ti beccavo allora… Ma guarda che è una fata vera.
Allora la questione è seria, commenta e ride.
Fa la commessa vicino al Duomo. Gli occhi blu, profondi. I capelli biondi. Un corpo sano, bello. La faccia pulita. Mi ha guardato e io l’ho guardata.
E…?
E poi è entrata una vecchia e ha dovuto servirla.
È positivo che tu abbia voglia di conoscerla. Adesso torni lì, aspetti che finisca il suo turno e ti presenti. Che cosa vende?
Abbigliamento uomo e donna.
Hai due possibilità, Rocco, insiste lui. O le vai a comprare qualcosa ogni giorno. Ma temo che le tue finanze non te lo possano permettere. Oppure…
Oppure?
Oppure tieni queste.
Ma sono cinquantamila lire.
Adesso vai a comprare cinquantamila lire di rose rosse. Le scrivi un biglietto con nome e cognome e il tuo numero di telefono. Scrivile quello che vuoi, ma non la spaventare. Se è una ragazza educata, ti chiama per ringraziarti. Se ha voglia di conoscerti, ti cerca per vederti.
E se non chiama?
Ci arrenderemo alla sua maleducazione e avrai cinquantamila lire di debito con me.
Luca, non ho mai regalato cinquantamila lire di rose rosse. Al massimo erano cinquanta pezzi di rosa, la coca più pura. Se guardo quello che ero allora, non mi riconosco più. Sono più agitato adesso di quando ho sparato a quella puttana di Alex. Sono agitato, sì, come un pisciaturo. Ecco il negozio. Lei c’è. Adesso vediamo che figura di merda mi farà fare. Mi guardi. Mi hai riconosciuto? No, non mi sembra. Ma no, perché proprio questa bruttona deve venirmi incontro? Perché non vieni tu?
Prego.
Devo lasciare questo mazzo di rose per la sua collega. Non lei, la sua collega che è lì dietro.
Uau, che belle. Da parte di chi?
C’è un biglietto dentro, è tutto scritto. Metto le rose sul banco. Arrivederci.
Rocco, sei una testa di minchia. Sei scappato. Potevi aspettare che lei aprisse il biglietto. Potevi almeno fermarti davanti alla vetrina. Bastava uno sguardo. Sei uscito troppo presto. Luca, sono proprio una testa di minchia. Invece di consegnare le rose nelle sue mani, le ho abbandonate sul banco. Adesso come farà a sapere che quello delle rose è lo stesso che l’ha mangiata con gli occhi qualche ora fa? Volevamo dominare la malavita e ho paura dello sguardo di una ragazzina.
Ciao giornalista.
Come è andata?
Un disastro.
Come, si sorprende lui, un disastro? E le rose?
Le rose le ho lasciate sul banco del negozio e sono uscito.
Ma dovevi consegnarle nelle sue mani. Se non hai scritto il nome di lei sul biglietto, adesso chi ha ricevuto le rose?
E chi lo conosce il nome di lei? Mica ci siamo presentati. E perché ridi?
Perché magari ti telefona la padrona del negozio.
No, sono certo che lei sia una commessa. È troppo giovane per essere la padrona.
Appunto, ride ancora lui. Ti chiama la padrona. Settant’anni suonati e ti tocca portarla al mare. Andiamo a cena fuori, stasera, dice subito dopo. Qui dietro, è un posto sicuro. Ci mettono in un angolo riservato.
Fa impressione essere a Milano. Ed essere seduto a tavola con quello che soltanto sei anni fa avrei preso a pistolettate. Se mi fido è perché anche tu, Luca, ti sei fidato.
Perché mi guardi così, Rocco?
Penso a quando ti dovevamo sparare… Adesso mi inviti pure a cena.
Ci stai ripensando? Se la risposta è sì, dammi almeno qualche metro di vantaggio. So correre veloce e a zig zag. Non credere sia facile prendermi.
Che stupidi che eravamo.
Non te l’ho mai chiesto, Rocco. Quanti anni avevi quando hai preso in mano per la prima volta la pistola?
Non me lo ricordo, ero piccolo… Lascia perdere. A proposito, oggi sono stato in Procura. Ho parlato con il poliziotto che lavora per la dottoressa.
Sì, ho capito chi è, ammette lui.
Mi hanno detto che il mio esame al processo è stato rinviato di qualche mese. Hanno chiamato altri testimoni e le cose vanno per le lunghe. Parlano addirittura dell’anno prossimo.
Meglio così, è il suo giudizio inaspettato.
Perché meglio così?
Perché avrai più tempo per prepararti. E per concentrarti su quello che vuoi fare ora.
Vorrei che quell’udienza fosse domani. Così potrò dire davvero di avere chiuso con il mio passato.
Rocco, non ci pensare, ora. Parlami di lei.
Di chi?
La fata.
È dura. È davvero dura non fare nulla per tutta la giornata. Guardare Milano correre. Milano corre sempre. E sentire che i tuoi piedi scivolano. Come se le suole fossero ricoperte di ghiaccio. Ti scivola tutto addosso e non sai come aprire le mani per aggrapparti a qualcosa. Le giornate passano. Sveglia tardi. No, meglio dire che mi alzo tardi. Per svegliarmi, mi sveglio presto. Ma resto nel letto. Così controllo la voglia di buttarmi giù con un sorso di Valium. A letto non spreco energie. I risparmi si stanno consumando. Un panino. Il caffè. La spesa da lasciare nel frigorifero al padrone di casa. Non posso vivere completamente a sbafo. Sì, faccio bene a restare a letto. Poi vado a camminare in centro. Fino al tardo pomeriggio, quando torno a fare due chiacchiere in redazione. A leggere il giornale. A scroccare la cena. Prima però devo ritrovare il coraggio. Devo tornare nella via del negozio e guardare dentro la vetrina. È il mio primo pensiero lo sguardo di quella fata. E anche la mia ultima immagine della giornata. Ma non ho più avuto la forza di passare di là. E se lei non mi guardasse più in quel modo? Luca, sono io il cagasotto. Dove ho messo il telefonino? Minchia, un momento. Rispondo. Dove l’ho messo?
Pronto.
Buongiorno, vorrei parlare con Rocco.
Chi parla?
Sarah.
Chi?
Dovresti conoscermi, visto che mi hai mandato un meraviglioso mazzo di rose rosse… Pronto? Hai riattaccato?
No, che non ho riattaccato. Sara?
Sarah, con l’acca in fondo. Mia mamma è fissata con la Bibbia e mi ha dato il nome della moglie di Abramo.
La moglie di chi?
Lascia stare. Scusami se ti ho disturbato, volevo solo ringraziarti per le rose. Sei stato davvero carino.
Io sono quello che ti guardava dalla vetrina.
Lo so, l’ho capito. Ma non voglio rubarti altro tempo, forse avrai da fare…
No, no, aspetta. Io riesco a fare soltanto una cosa in questi giorni. Pensare a te. Mi piacerebbe rivederti… Pronto, Sarah? Pronto?
Quando mi telefoni o mi vieni a trovare prima del solito, mi preoccupo, esordisce lui non appena mi vede. Andiamo dentro, Rocco, che è meglio, cosa è successo?
È successo che mi ha telefonato. Si chiama Sarah. E ci vediamo domani sera.
Fantastico.
Dovresti sentire la sua voce. È come un massaggio di velluto.
Sei cotto.
Ti devo chiedere un favore, però. Praticamente ho solo tre magliette da tamarro e questi pantaloni. Il mio doppiopetto l’ho buttato dopo che mi sono piantato le forbici in pancia. Avresti una camicia bianca e un paio di pantaloni eleganti da darmi in prestito?
Macché prestito. Tieni i soldi e te li compri. Ecco.
Ma non posso restituirteli ora.
Consideralo il mio regalo di fidanzamento, sorride lui.
E se non mi fidanzo?
Ci sono tutte le premesse perché questa sia una bella storia d’amore. Te lo auguro e te lo meriti. E non pensare al peggio. Adesso ti riaccompagno fuori, oggi è una brutta giornata con il lavoro.
Il solito corridoio. La portineria. A sinistra la porta dove sei passato tu, Luca. L’uscita. Ho i brividi a pensare che siano gli stessi gradini che anche tu hai calpestato. E non mi avevi detto nulla. Che luce c’è fuori. Il passaggio dall’ombra al marciapiede è sempre un abbaglio.
Minchia, attento, c’è Coscia. È Coscia, attento.
Dove, Rocco?
Quello sul motorino, girati, attento.
Rocco, stai dietro di me, grida lui, dove cazzo vai?
Ti guardo, sai? Ti guardo negli occhi e non mi fai paura. Sul tuo motorino di minchia. Ho capito cosa mi stai dicendo. Infame di merda, la pagherai. Mi hai chiamato infame di merda. E mi hai detto che la pagherò. Tu la pagherai, Coscia. Tu stai con quelli che hanno tradito Luca. Ma io non ti sparo. Io ho cambiato vita. Io ti rovescio addosso tutta la legge, gli sbirri, i magistrati, Coscia. Non l’hai capito. Io non sono più quello che hai conosciuto e che hai tradito. Sei tu l’infame. Vai, vai, cagasotto.
Rocco, copriti, stai dietro di me, porca puttana. Vai dentro la portineria!
È andato.
Sì, ma torna dentro, insiste lui. Potrebbe non essere solo. Andiamo dentro.
Ho le mani gelate. Che minchia ci faceva Coscia qua?
Non lo so. Aveva la casacca di un’agenzia di recapiti. Vado all’ufficio posta a vedere se ha portato qualcosa o se era una messinscena. Seguimi.
Ti ricordi il suo vero cognome?
Sì, Rocco… Ha consegnato una busta e firmato il registro, conferma lui dopo aver controllato con il responsabile dell’ufficio. Non era una messinscena. Stava davvero facendo una consegna.
Ma guarda te se dovevo incontrare Coscia. E tu pensi che il destino non esista? Adesso dirà a tutti che mi ha visto qui. Questo posto è bruciato.
Questo posto è grande, Rocco, non ti preoccupare. Vado fuori a vedere se è ritornato… Non c’è nessuno, avverte poco dopo. Vieni che ti indico un nuovo percorso. Da oggi passerai dal portone secondario, dietro. Ma resta qui qualche ora. Non è il caso che tu adesso ti faccia pedinare. Ti riporto io a casa stasera.
Mi sono spaventato.
L’ho notato, Rocco.
E tu ti sei messo davanti a me, sei un pazzo. Se quello sparava, prendeva prima te.
Rocco, quello non poteva sparare perché aveva le mani salde sul manubrio. E da quella posizione, in sella al motorino, da solo, avrebbe impiegato almeno dieci secondi a impugnare la pistola e prendere la mira. Comunque sei tu il pazzo. Ti ho detto di stare dietro di me, tu invece ti sei piazzato di fronte a lui.
E tu continuavi a metterti davanti a me. Ma hai sentito cosa mi ha detto?
L’ho sentito. E te ne devi fregare. Se siamo insieme, i pericoli li corriamo insieme. Allora se ti dico copriti, non ti devi esporre. Se proprio li vuoi provocare quelli, e per me sarebbe una grande minchiata, fallo quando sei solo. Non quando sei con me. Spero di essere stato chiaro.
Non ti arrabbiare. Tra noi due, l’esperto di armi sono io.
E io sono l’esperto di fuga dalle armi, mettiamola così.
Cosa ne sai tu? Ti hanno mai puntato una pistola addosso?
Lascia perdere Rocco, non mi chiedere queste cose. Invece domani mattina vai in Procura e verbalizzi quello che è successo. Se c’è ancora una minima possibilità di riavere il programma di protezione, devono conoscere tutto, dice lui.
Sarah profuma di rose. È bellissima. Mi guarda. Sorride. Abbassa gli occhi sull’antipasto che non ha ancora toccato. Ho quasi paura a osservarla. Paura di sciuparla. Il suo vestito azzurro è così sottile sul seno che sembra una carezza. I suoi sandali le fasciano le caviglie così elegantemente che faccio fatica a non guardare sotto la tovaglia. È un peccato perdermi lo spettacolo delle sue gambe che avrà sicuramente accavallato. Se voleva farmi girare la testa, ci è riuscita di brutto. E io sono qui come un pisciaturo che non so dove posare i miei occhi. L’incavo nella sua scollatura è un invito a baciarla. Per risalire lungo il collo e arrivare alle sue labbra, al tuo sorriso bianchissimo. E stringerti forte, perché tu senta l’effetto che stai facendo al mio corpo. Ma mi devo trattenere. Luca, è la prima volta in ventisei anni che passo più di cinque minuti con una ragazza che mi piace senza proporle una… Sì, insomma, senza chiederle di andare a letto. Ma non posso nemmeno farle capire che da anni non ho una storia. Da quella notte con Katia, nel suo centro estetico, dopo aver sparato a quella puttana di Alex. Le donne non amano gli uomini che da anni non hanno storie. E con te Sarah, non devo sbagliare. Sei una corda scesa dal cielo. Me l’hai mandata tu, Luca. E se il mio amico non avesse avuto quell’idea folle delle rose, forse adesso non saremmo qui. Non devo sbagliare. Ma ti devo raccontare chi sono. È giusto che tu lo sappia. Ed è anche giusto che smetta di considerare Alex una puttana. Ormai lui fa parte del mio passato. Di un mondo che non mi appartiene più. Di un mondo che davanti a te, Sarah, mi lascia indifferente.
A cosa pensi, Rocco?
A come dirti chi sono davvero…
Mi guardi e mi ascolti. Non ti sei ancora stancata di me. Non sei fuggita. Non mi hai lasciato solo, seduto al tavolo. Anzi, ti sei preoccupata per me quando per sbaglio ho alzato la voce. Quando ti ho descritto come quegli infami hanno ridotto Luca. Perché i veri infami sono loro. Quando mi hai detto che sì, la peste non siamo noi collaboratori. La peste sono i mafiosi. I politici corrotti. I trafficanti. Gli spacciatori. I criminali. Sono loro la peste. E ne siamo tutti infettati. Perché così come stanno andando le cose, non si può dire che stiamo guarendo. Mi guardi adesso e te ne stai zitta. Ho paura della tua reazione. Dei tuoi pensieri. Sei una ragazza intelligente.
Anch’io, Rocco, ho un brutto passato di cui devi sapere, rivela lei all’improvviso.
Alla fine siamo gli ultimi a uscire dal ristorante. Osservo tutto, sì. Non sono mai tranquillo all’aperto. Non posso esserlo. Mi guardo intorno perché tutto questo mi sembra impossibile. Ho paura che mi sparino proprio adesso. Che non mi lascino il tempo di assaporare qualcosa che non ho mai assaggiato. Katia non conta. Lei non ha mai voluto lasciare il suo fidanzato per me. Nemmeno Samanta conta. Una ragazzina succube del padre, della famiglia, delle usanze del Fortino. Soltanto ora sento addosso la forza di essere libero. Di non dover dipendere da nessuno. Nemmeno da quelle minchiate di regole che ci eravamo dati. Per la prima volta sento di essere amato. E non importa se questa sensazione diventerà ciò che è normale diventi tra un ragazzo e una ragazza. Il fatto che abbia saputo assaporare questa normalità è una conquista. Sei stata ad ascoltarmi. E ti sei fidata al punto di raccontarmi del tuo passato. Questo per me vuol dire essere amato. Camminiamo in silenzio. Fino alla macchina.
Ho una vecchia Panda, si giustifica lei.
Io non ho nemmeno la macchina.
Ci sfioriamo le braccia. Ci abbracciamo negli sguardi. Il tuo seno preme sul mio torace mentre ti avvicini per salutarmi. Ti offro la mia guancia. Come si farebbe tra amici. E tu, con la pressione di una carezza, porti la mia bocca davanti alla tua. Per un bacio. Un breve tocco sulle labbra. Richiudi la portiera. Sorridi. Accendi il motore. Fai manovra e riparti. Per la prima volta, mi sento normale.
Ho paura che proprio adesso finisca tutto. E hai capito cosa intendo dire.
Non finisce, Rocco, mettiamoci a questo tavolo, dice lui mentre ci sediamo alla mensa del giornale dove lavora. Non puoi lasciarmi senza notizie. Allora?
È bellissima.
Questo l’avevo capito.
Le ho detto chi sono. E anche lei mi ha raccontato che ha un passato difficile. È una ex tossicomane.
Eroina?
No, cocaina, anni fa.
Scusa, ma quanti anni ha?
Era cocainomane persa da ragazzina. Aveva diciassette anni.
Questi sono i danni che facevate voi, spara lui a bruciapelo.
Sì, è vero. Ma anche lei si è salvata. Ha trovato la forza per tirarsi fuori.
Senti, Rocco, ma possiamo stare tranquilli? Non è che frequenta ancora quegli ambienti? Magari spiffera in giro chi sei e…
Non credo. Vive con sua mamma. Il papà non c’è, forse è morto, non me ne ha parlato. Ma c’è anche il rovescio della medaglia… Mi vuole presentare a sua mamma.
Corre veloce, osserva lui.
Non nel senso che pensi tu. Mi vuole presentare a sua mamma perché insieme frequentano un gruppo di preghiera fuori città. Un gruppo di quelli che cercano di vivere secondo gli insegnamenti di Gesù. Vuole che vada con loro. Sarah dice che per lei la preghiera è stata fondamentale per uscire dalla droga. L’ha resa più forte. E dice che aiuterebbe anche me. Mi ci vedi a recitare il rosario la sera?
Francamente no. Ma tra tutti i modelli di vita che hai avuto, quello di Gesù è sicuramente il meno dannoso. Per te e per gli altri.
Sì, ma andrò a pregare solo per stare con Sarah.
Ognuno ha le sue ragioni per avvicinarsi alla fede, sorride lui.
Non mi prendere per il culo.
Guarda che succede proprio così. Senti, invece, dal tuo amico dove dormi hai avuto proposte di lavoro?
Niente, nei cantieri in questo momento non prendono nessuno. Cercano muratori specializzati. Il mio problema è che potrei fare soltanto il manovale.
E tu bluffa, butta lì lui.
In che senso?
Tu hai tenuto testa ai peggiori clan della ’ndrangheta. Fare il muratore specializzato è sicuramente più facile. Chiedi al tuo amico di spiegarti come si fa, così puoi cominciare a lavorare. Ora hai la libertà. Hai l’amore, da quanto ho capito. Ti manca il lavoro.
Qualcosa per la verità mi ha offerto… Un lavoro di notte.
Con tutti i cantieri che ci sono in giro, avranno bisogno di guardiani notturni, osserva lui mentre fa a pezzi una bistecca durissima.
Non è questo che mi ha offerto. Mi ha chiesto di accompagnarlo nelle sue uscite serali. Lavora fuori città. Cioè, non è proprio un lavoro. Ha a che fare con le sigarette.
Contrabbando?
Furti. Svuota i nuovi distributori automatici. Non a Milano. Va in Piemonte e da altre parti. Dice che c’è un modello di distributore che non ha nessuna protezione. Basta un cacciavite per aprirlo. Prende le sigarette e le rivende. Lo stavano sfrattando dall’appartamento dove vive. Ha dovuto comprarlo e lo stipendio che gli passano non gli basta per il mutuo. Vuole che io gli faccia da palo in macchina. Non guardarmi così, lo so che è sempre un reato. Ma è un reato a basso rischio.
Hai già cominciato ad andare con lui?
No, ci sto pensando. Gli devo dare una risposta.
E Sarah cosa ne pensa?
Sarah non deve entrare in queste storie.
Vedi, Rocco, a Sarah non lo dici perché immagini quale sia la sua risposta. E io a questo punto dovrei accompagnarti all’uscita e prendere le distanze da te e magari farti arrestare. Perché tra te, il tuo amico e il tabaccaio che la mattina scopre di essere stato derubato, io sto dalla parte del tabaccaio. Non posso considerarmi amico di un ladro. Ma non posso nemmeno pensare di arrendermi ora e di abbandonarti, dopo tutto quello che è successo. Perché so che la ’ndrangheta è una minaccia ben più grave di un furto di sigarette. Tu mi dici anche che il tuo amico lo fa per pagare il mutuo. Ma se ti arrestano con le sigarette in macchina, ti prendi una bella condanna e ti fai tutto l’arretrato senza sconti. Se è un consiglio quello che mi chiedi, la mia risposta è un no deciso.
Io però non posso vivere sulle tue spalle o farmi ospitare per sempre. Non sono io ad aver tradito gli impegni, è la commissione centrale…
Secondo me, mi interrompe lui e abbandona definitivamente la bistecca nel piatto, stai cominciando ad accampare scuse nella tua testa. Guarda che è un percorso pericoloso che potrebbe riportarti indietro da dove sei partito. Se la questione è il lavoro e il tuo amico ti vuole aiutare, perché non ti insegna il mestiere di muratore? Perché costa fatica? Migliaia di muratori fanno fatica in questa città. È vero, tu uscivi con quattro milioni in tasca e ti sentivi povero. Ma quell’epoca dove ti ha portato? Rocco, scusami, sei maggiorenne e non posso obbligarti io a scegliere da che parte stare. Devi decidere con la tua testa. Qualunque sia la tua scelta però, per favore, non mi mettere nelle condizioni di doverti accompagnare alla porta.
D’accordo, ho capito. Non ne parliamo più.
L’affare delle sigarette non è un affare. L’amico prevede la condivisione dei rischi. Non dei guadagni. Nel senso che di soldi non se ne vedono. Così dopo due o tre uscite, comincio a fargli capire che non mi piace. Qualcosa devo pur fare, però. Anche perché non posso accettare che paghi sempre Sarah quando usciamo. E proprio per la questione dei soldi, non usciamo tutte le volte che vorrei. Ti squilla il telefono, dice Sarah un sabato sera tardi. È gelosa e vuole sempre sapere chi chiama, ancor prima che risponda. Questa volta il numero è riservato.
Sarah si rasserena quando le dico che è il mio amico giornalista. Lui dice che domani mattina ho un colloquio. Per un lavoro. Ma domani è domenica. Sì, anche di domenica.
L’appuntamento è in un vivaio alla periferia Sud. Piante, fiori, manutenzione giardini, terrazzi, parchi, è scritto in piccolo sotto l’insegna all’ingresso. In macchina lui mi ha raccontato che il contatto è saltato fuori grazie a una sua collega. Il presidente di un comitato di quartiere ha annunciato ai giornali il progetto per l’inserimento al lavoro di un ragazzo difficile. E lei, che conosce la mia storia, ha pensato a me. Ha telefonato al presidente del comitato e gli ha detto che se l’annuncio non è una presa per i fondelli, la persona da aiutare esiste e sta solo aspettando di cominciare.
Scusa se ti ho definito ragazzo difficile, dice lui e sorride. Il proprietario del vivaio si chiama Rino. Un uomo tra i trenta e i quarant’anni, corpulento. Un po’ di pancia. Le mani grandi e i capelli rasati. Nel comitato di quartiere è uno dei fondatori. Ci sediamo tutti e tre nella baracca che fa da ufficio. Tutti con la giacca a vento addosso davanti a una stufetta elettrica che non riscalda per niente. Rino ammette che sa tutto del mio passato. E che si ricorda bene di tutta la storia, per averla letta anni fa sul giornale. Racconta di essere uscito in tempo da un brutto giro. Era un cocainomane. Pure lui. E che il lavoro di vivaista l’ha salvato. Sostiene con orgoglio di avere cominciato da solo. E spiega come ha fatto.
Si parte dal presupposto che i negozi sono abbelliti da fioriere, siepi e piccoli vasi. Ma un commerciante, prendiamo un gioielliere, non va a sporcarsi le mani per potare la siepe o ripulire i fiori secchi. E il vaso diventa una cosa triste da vedere, tanto è secco e pieno di erbacce. Allora, qual è la sua intuizione? Che se vai da un negoziante e gli chiedi centomila lire per curargli il verde tutto l’anno, quello magari te li dà. E se trovi cinque commercianti disponibili in una giornata, fanno mezzo milione di incasso al giorno. È vero che non è immaginabile prendere mezzo milione per tutti i trecentosessanta e passa giorni dell’anno. Ma mettere insieme un buon stipendio, si può. E, dice lui, proprio partendo dal verde dei negozi ha risparmiato e costruito quello che vediamo qui. L’importante, sottolinea alla fine, è che uno si tenga un registro e mantenga l’impegno di farsi vedere. Così il commerciante rinnova l’accordo per l’anno successivo. Altrimenti gira in fretta la voce della truffa e nessuno sborserà più un solo spicciolo. Il signor Rino, così si fa chiamare, mi metterà a disposizione forbici, paletta e concime gratis. Il problema è come muoversi nei quartieri. Non ho nemmeno la bicicletta. Il giornalista dice che la questione è risolta. Perché in redazione stanno raccogliendo i soldi per comprarmi uno scooter.
Non è proprio il lavoro che immaginavo. Rino forse lo capisce dal mio sguardo. Si giustifica dicendo che lui ha come clienti i migliori hotel a cinque stelle della città. E che uno come me non può portarselo perché i clienti gli chiedono il certificato antimafia di tutti i suoi dipendenti. E io su questo, va be’, cambiamo discorso. Ma perché invece del certificato antimafia non vanno a vedere cosa uno ha davvero fatto contro la mafia? Ce ne sono pochi altri in giro ad aver fatto ciò che ho fatto io. La legge però è questa, allarga le braccia il signor Rino in modo teatrale, e lui la legge non la può cambiare. Ci lasciamo con un energico saluto. La sua mano ruvida e piena di calli stretta alla mia. Comincio domani mattina alle otto.
È vero, la ricerca di negozianti con le siepi appassite davanti al negozio rende bene. Quattrocentomila lire il primo giorno. Poi va peggio. Anche perché me ne posso occupare soltanto il sabato. Il resto della settimana sono impegnato negli alberghi. Il signor Rino ci ha ripensato. Ha visto come lavoro. L’impegno che ci metto. Ma anche la mia inesperienza. Da due settimane mi porta con sé. Non gli interessa più che non abbia un certificato antimafia lindo. Basta non mostrarlo. E poi gli alberghi lo chiedono soltanto all’inizio, alla firma del contratto. È una brava persona, Rino. Una delle tante che ho conosciuto in questi mesi. A cominciare dai due magistrati che mi hanno dato la fiducia. Una sera usciamo a cena tutti insieme. No, non con i magistrati. Ci sono Rino, Sarah, il giornalista e la sua fidanzata. E io, naturalmente. Abbiamo scelto il ristorante greco sui Navigli. Per tutta la sera io e il giornalista ci guardiamo intorno come se fossimo le guardie del corpo di noi stessi. E in fondo un po’ lo siamo.
Si avvicina l’estate e le richieste di manutenzione per terrazzi e giardini aumentano di giorno in giorno. Il lavoro più importante è una ristrutturazione in un grande albergo, vicino alla stazione Centrale. È lì che mi portano da qualche settimana.
Ciao giornalista.
Rocco, cos’hai al polso?
Un rosario.
Ma è uno di quei rosari di plastica fosforescente, esclama lui mentre mi tiene il braccio per vederlo da vicino.
Se stai sotto una luce, si illumina di azzurro intenso. È un regalo della mamma di Sarah.
Se tu arrivi a portare un rosario al polso, sei proprio innamorato.
Sì, lo sono. Ieri sera mi ha presentato al gruppo di preghiera. Ormai siamo fidanzati in famiglia. Sto proprio bene in questo periodo… Posso venire da te a leggere il giornale? Poi ti scrocco una cena.
Andiamo dentro.
Mentre lui lavora al computer, trovo tre ritagli di giornale conservati con altre carte sulla scrivania. Quando chiedo se posso leggerli, lui dice che sono articoli di qualche mese fa. Il primo è di febbraio, 22 febbraio 1998.
L’hai scritto tu?
Magari. No, Giuseppe D’Avanzo, risponde lui senza nemmeno voltarsi.
Sotto il titolo, la foto grande di un magistrato famoso che qualche volta ho incontrato in corridoio in Procura. Gherardo Colombo si chiama. C’è in Italia una società del ricatto frutto degli opachi compromessi degli ultimi venti anni della Repubblica, è scritto nell’articolo. Una società ben viva, ben vegeta, assai vivace. Per nulla convinta di dover cedere il passo. Al contrario obbligata, per garantirsi il futuro, a riprendere in mano il gioco della politica… Il tentativo di riscrivere la seconda parte della Costituzione è la sola strada a disposizione di quella società per occultare il passato. La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto… Io credo che sia giusto preparare e costruire la normalità. Purtuttavia non bisogna dimenticare la storia recente e passata. La ricerca della pacificazione non deve ignorare l’esistenza del conflitto… Al contrario, nella normalità che ci viene agitata sotto gli occhi, io vedo farsi avanti non il nuovo, ma il vecchio. Meglio, l’antico. Non il conflitto trasparente, ma il compromesso opaco… Il compromesso in Italia è stato sempre opaco e occulto. Le dico di più, negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti. L’Italia la si può raccontare a partire da una parola… Ricatto. Mi spiego con qualche esempio. Dallo sbarco degli alleati in Sicilia, e dalla scelta di coinvolgere la mafia per facilitarlo, si è stabilito un rapporto di quieto vivere con questa organizzazione criminale, che ha caratterizzato decenni della nostra storia. È stato un accordo necessariamente occulto. E ancora più occulto e opaco è stato necessariamente il suo perpetuarsi. Cosa ha potuto produrre se non il ricatto? Il ricatto dei poteri criminali sulla politica… Io dico che nel metabolismo politico-sociale del Paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso… La magistratura è una variabile non coerente con il sistema consociativo. Per questo infastidisce, preoccupa, inquieta. Potere diffuso per antonomasia, può rompere in qualsiasi punto e imprevedibilmente il patto del silenzio, della complicità consociativa che il ricatto consiglia. Ecco la necessità di ridimensionare l’indipendenza del magistrato…
È tosto questo Gherardo Colombo.
Lui si volta e mi guarda come se avessi detto un’ovvietà. Anche l’altro articolo è un’intervista a un magistrato di Milano. Una donna, Ilda Boccassini. Di lei conosco soltanto il nome, non l’ho mai incontrata in corridoio. O forse l’avrò anche vista in Procura e non l’ho mai riconosciuta. Ritaglio del 6 aprile ’98. L’azione penale diventerà una scatola vuota, è scritto. Le porte di Mani pulite si sono già chiuse. Entro pochi mesi sarà impossibile indagare. Boccassini contro la direttiva Napolitano sui corpi speciali: il governo realizza i progetti della destra. Il ministro sta facendo oggi quello che Meli fece nel 1988 smantellando il pool antimafia di Palermo. I vertici delle tre polizie non reagiscono per quieto vivere o per necessità politica. Ma il mondo della cultura e dell’impresa è cieco? È negli anni Ottanta, dice Ilda Boccassini rispondendo sempre alle domande di Giuseppe D’Avanzo, che con una battaglia, che fu giudiziaria e culturale, Giovanni Falcone riuscì a far capire che un’associazione criminale verticistica e compartimentata come Cosa nostra aveva, sì, la direzione strategica a Palermo, ma organizzava uomini, stringeva complicità e alleanze, intratteneva affari in Italia e nel mondo. Alla pari di qualsiasi grande industria o multinazionale che ha la sede centrale in una città, ma stabilimenti in ogni parte del Paese o accordi di joint-venture all’estero. Giovanni Falcone, ripeto, riuscì a imporre un nuovo metodo di lavoro liberando l’iniziativa penale da quei legacci che obbligavano, è un esempio, i giudici di Palermo a occuparsi del cortile di casa senza poter mettere il becco su quanto accadeva ad Alcamo, in provincia di Trapani, anche se ad Alcamo operavano le propaggini delle famiglie di Palermo.
Questa consapevolezza dell’internazionalizzazione del crimine convinse a modernizzare l’azione dello Stato, spiega il magistrato. Accadde che prima la polizia e poi i carabinieri e la guardia di finanza addestrarono i loro uomini a una cultura unitaria del crimine, li qualificarono per organizzare una strategia globale di contrasto che non polverizzasse nessun dato investigativo. Molti di questi uomini studiarono a Quantico nell’accademia dell’Fbi. Purtroppo questo patrimonio di competenze, professionalità e conoscenza andrà disperso riportando le investigazioni alla qualità e quantità di venti anni fa. Eppure un graduale ritorno alla normalità è negli auspici di molti, osserva il giornalista. Non mi interesso di auspici, gli risponde il magistrato. Sono troppo occupata con la realtà. E la realtà di oggi mi ricorda quella di dieci anni fa. Lei sa chi era Meli. Antonino Meli. Il consigliere istruttore che, nel 1988, di fatto sciolse il pool di Falcone. Il ministro Napolitano, con l’annientamento dei nuclei specializzati, sta facendo oggi quel che Meli fece dieci anni fa. Quel consigliere istruttore parcellizzò tutte le inchieste su Cosa nostra inviandone tranche per competenza in ogni angolo della Sicilia, disintegrando il quadro unitario dell’organizzazione messo insieme dal lavoro dei giudici di Palermo. Così finì il pool e così si spegnerà alla fine di aprile ogni strategia unitaria per affrontare il crimine organizzato…
Deve essermi sfuggito qualcosa, continua Ilda Boccassini. Che cosa? Non mi sono accorta che il crimine è stato sconfitto. Perché, se i soldati dell’operazione Vespri lasciano la Sicilia e le forze dell’ordine non sono state rafforzate, vuol dire che laggiù in Sicilia il crimine non deve essere più un problema. Forse ero troppo occupata dal mio lavoro e non ho preso atto che i risultati ottenuti contro la mafia e la corruzione sistemica sono sufficienti a farci dire che tutto va bene. Ci deve essere stato qualche accadimento molto rassicurante se l’Asinara e Pianosa vengono liberate dal carcere. Se i mafiosi possono, nonostante il 41 bis o grazie ad esso, giocare insieme a calcio nell’ora d’aria. Magari organizzando la disfida tra la famiglia di Brancaccio e quella di Santa Maria del Gesù. Gherardo Colombo ha parlato di una società del ricatto ancora viva, vegeta e in movimento. Sono assolutamente d’accordo. Non mi sembra che ci sia altro da aggiungere se non un’osservazione. Chi ricorda il 1992 e le stragi di Capaci e via D’Amelio, gli arresti delle prime e seconde file della classe dirigente nazionale, non fa fatica a valutare quanto quegli anni abbiano assestato una spallata micidiale alla credibilità del Paese. L’Italia ha boccheggiato quasi asfissiata sotto il peso di una crisi politico-istituzionale che scardinava equilibri stratificati da decenni. Eppure l’Italia ha reagito con orgoglio. Con sacrificio, il Paese si è rimesso in piedi, è riuscito a entrare nell’Europa della moneta unica. Mi chiedo: perché rinunciare proprio ora agli avamposti di una legalità, che è risorsa necessaria per lo sviluppo e il benessere? In fondo siamo stati noi tutti, non soltanto i magistrati ma anche i cittadini senza nome, a costruire questa strada verso il futuro. Perché abbandonarla? Soltanto un’Italia senza le gravi patologie criminali che l’affliggono potrà essere europea. Se non eliminiamo la presenza mafiosa o le radici della corruzione, non credo che, ad esempio, nel Mezzogiorno possano confluire, come tutti ci auguriamo, investimenti capaci di alleviare i terribili tassi della disoccupazione giovanile. Dobbiamo davvero arrenderci al fatto che, se investimenti ci saranno, dovranno essere soggetti alla legge di Cosa nostra e non alle regole dello Stato? Io chiedo perché il mondo della cultura, delle professioni e dell’impresa è sordo e cieco di fronte a quel che sta accadendo? Non è questione che può interessare soltanto i magistrati o una parte di essi. Cancellare la parola criminalità dall’agenda non vuol dire rendere normale il Paese. È inutile spingere con il piede l’immondizia sotto il tappeto, la casa non diventa più pulita.
Anche il terzo ritaglio è un’intervista. Al procuratore aggiunto di Palermo, Guido Lo Forte. I processi in mano al ricatto degli imputati, dice il titolo. Gli effetti saranno perversi: con i tempi più lunghi, molti mafiosi torneranno liberi… I pentiti avranno maggior potere di incidere sui processi. Non c’è alcun dubbio. I pentiti diventeranno i padroni assoluti del processo. La condanna di un imputato dipenderà esclusivamente da una loro scelta. Deporre o meno in aula per confermare quanto dichiarato al pubblico ministero in fase istruttoria. Con quanto ne consegue in termini di vulnerabilità del pentito a pressioni o forme di corruzione…
Perché tieni questi articoli?
Andiamo a cena che ho finito, taglia corto lui.
Entriamo in una pizzeria. È pieno di gente che ha già finito di mangiare. Noi siamo gli ultimi clienti. Come spesso accade. La sedia con le spalle al muro la lascia a me.
Perché tieni quei ritagli?
Perché ti riguardano da vicino, risponde lui.
E cosa c’entro io con Mani pulite e Cosa nostra?
Ti hanno tolto la protezione e sei il primo della lista.
Continuo a non seguirti.
Aspetta, prima ordiniamo, dice. Chiama la cameriera. Chiediamo due tranci e due birre medie.
Non guardarla così che sei fidanzato, mi rimprovera e ride con gli occhi. Come sta Sarah?
Sta bene. Ma spiegami cosa c’entro io con quelle storie.
Rocco, sono convinto che il programma di protezione non te l’abbiano tolto perché sei andato a soccorrere tua mamma. L’avevano già deciso quando, invece di rinnovarti un anno, ti hanno concesso soltanto sei mesi. Per quell’uscita fuori orario, avevi addirittura la giustificazione di due sostituti procuratori della Direzione distrettuale antimafia di Milano e scusami se è poco. Senza di quella, a Roma avrebbero trovato un’altra ragione. Non ho prove di questo. Però le tre interviste che hai letto sono una conferma autorevole a quello che penso.
Continuo a non capirti, scusami.
È una storia che comincia nel 1993, all’indomani delle ultime stragi di mafia. Eri in carcere, ma ne avrai sentito parlare.
Certo. E la mia vicenda cosa c’entra?
Mafia e politica, quella politica del ricatto di cui parla Gherardo Colombo, stanno perseguendo gli stessi interessi: fermare le indagini della Procura di Milano e di quella di Palermo. Normalizzazione, la chiamano. Chiusa l’ondata di arresti ai vertici della criminalità organizzata e dei partiti corrotti, l’Italia va normalizzata. Considera che la maggioranza degli italiani che nel 1994 ha votato Silvio Berlusconi, chiedeva proprio questo. Quindi è un progetto condiviso da milioni e milioni di elettori.
Ma adesso Berlusconi non è più al governo, non è così?
È così. Ma l’attuale governo di centrosinistra sta realizzando ciò che nemmeno la destra ha osato o è riuscita a portare a termine. Per questo Ilda Boccassini, che come hai letto è una delle massime esperte di indagini sulla mafia, critica duramente il ministro dell’Interno. E se parla la Boccassini, dietro c’è tutta la Procura di Milano. La commissione che ti ha tolto il programma di protezione dipende gerarchicamente dal ministero dell’Interno. A Roma non sanno nemmeno chi sei. Ma che il potere e il numero dei pentiti nei processi vada ridimensionato è un indirizzo politico di cui si discute da mesi anche dentro l’attuale Parlamento.
Ancora non riesco a capire, cosa c’entra l’indagine sul Fortino con queste cose che mi dici?
Il Fortino in particolare non c’entra nulla. Ma è chiaro che se una norma vale per le indagini su Cosa nostra, deve valere anche per il Fortino. Ti faccio degli esempi su cosa sta facendo questo governo. Uno. Chiudere le carceri di massima sicurezza sulle isole dell’Asinara e di Pianosa. Se ne parla dal 1988. Ma nessuno l’aveva fatto. Capisci che a nessun capomafia piace finire in isolamento su un’isola. Perdi il contatto con i familiari, gli avvocati, gli affiliati. Ora il governo scarica la responsabilità della decisione su un voto del Parlamento. Ma se lo volesse, il governo potrebbe ottenere una modifica alla legge. Due, ed è strettamente legato al punto uno: alleggerire l’isolamento carcerario per i boss mafiosi. Il cosiddetto 41 bis e tu sicuramente ne sai qualcosa.
Eccome se ne so qualcosa, con tutto l’isolamento che ho fatto.
Tre, continua lui. Rendere inutilizzabili le dichiarazioni dei collaboratori verbalizzate davanti al pubblico ministero, se non vengono ripetute in aula. E senza l’obbligo per il collaboratore di confermare ciò che ha già detto.
Quindi?
Quindi, risponde, io ti tolgo il programma di protezione un mese prima dell’udienza e chissà, magari tu per rabbia, vai in aula, ritratti tutto e affondi l’indagine.
Io non lo farò.
Non parlo di te, Rocco. Ma con questa norma qualunque collaboratore può essere corrotto perché ritratti. O semplicemente può essere intimorito dal clima. Perché questa disposizione esporrà ulteriormente i collaboratori-testimoni a quell’aria pesante che tu ben conosci, costringendoli ad affrontare gli imputati anche nei processi che non li riguardano direttamente. C’è un solo aspetto positivo in questa modifica. E cioè che la difesa possa finalmente esaminare un collaboratore quando chiama in causa un proprio cliente. Quattro, e secondo me è il punto più triste: smantellare i reparti speciali di indagine contro la criminalità organizzata. Le Criminalpol della polizia. I Ros dei carabinieri. Anche se alla fine, vedrai, i Ros dei carabinieri saranno gli unici a sopravvivere. Perché hanno arrestato Totò Riina e poi perché in Italia non è ancora nato qualcuno in grado di imporre ai carabinieri una decisione che i carabinieri non vogliono accettare.
Della chiusura delle Criminalpol ho sentito che ne parlavano alcuni agenti che mi facevano la scorta. Ma cosa cambia?
Le indagini della Criminalpol, che rispondeva direttamente alla Procura di riferimento, passano alla squadra mobile che risponde al questore. Il questore è sottoposto al controllo diretto del capo della polizia che a sua volta è sottoposto al controllo del ministro. Che è un politico e potrebbe non avere interesse a una certa indagine. A questo punto basta che il questore rimuova un funzionario o un capo della squadra mobile scomodo e farà carriera. Guarda che senza il lavoro della Criminalpol di Milano i Compari o i picciotti di Nonna ’Ndrangheta oggi sarebbero tutti fuori. E a quest’ora io e te non potremmo starcene qui tranquilli a mangiare la pizza.
Mi fai ridere, anche tu la chiami Nonna ’Ndrangheta?
Quinto punto, che hai letto nell’intervista a Ilda Boccassini: chiudere l’operazione Vespri in Sicilia che impiegava i militari per la sorveglianza fissa, liberando centinaia di poliziotti e carabinieri per le indagini antimafia. Cinque provvedimenti così gravi, sostiene lui, nessuno aveva avuto il coraggio di metterli in campo. Non sono io a dirlo. Sono i magistrati delle Procure che anche questo governo di centrosinistra vuole imbavagliare.
È chiaro, adesso. Ma perché il governo dovrebbe accettare tutto questo?
Perché ci sarebbe un accordo sottobanco tra destra e sinistra. Perché l’inchiesta Mani pulite ha scalfito soltanto la superficie della corruzione. Posso continuare? Perché alla stragrande maggioranza degli italiani sta bene così. Perché grazie alle stragi del 1993 la mafia è riuscita ad aprire una trattativa anche con la Seconda Repubblica. Mentre nella Prima possiamo dire che fosse abbondantemente rappresentata.
Vuoi dire che questo governo sta trattando con la mafia?
No, non usare la parola governo. Se cerchi un gruppo di persone che si siedono intorno a un tavolo in nome della mafia e del governo, non le troverai mai. Non esistono documenti che lo dimostrino. Devi invece pensare allo Stato come entità che con i suoi vari apparati va oltre i singoli governi. E su questo purtroppo esistono gravi indizi di reato e di colpevolezza, butta lì e sorride. Queste cose avvengono a distanza. Di là Cosa nostra fa una strage. Di qua la politica cerca di capire perché, per cosa, per come. Fiuti l’aria e ti adegui. I contatti, se esistono, sono individuali. Avvengono sottobanco. È una mentalità dentro cui anche tu hai vissuto. Uccidono Ghiaccio e passi giornate intere a cercare di capire chi sia stato e perché. La regola del ricatto di cui hai letto. È proprio questo il significato della parola mafia.
Lo so bene, purtroppo. Ma se non si trovano documenti, non c’è qualcuno che ti possa confermare tutto questo?
Lui mi guarda sorpreso. Non posso risponderti, dice subito dopo. Però, aggiunge, cinque provvedimenti così dirompenti, e non due o tre, non sono più una coincidenza. E se il governo approva ben cinque provvedimenti che secondo i magistrati insabbiano le indagini contro la mafia e la corruzione, qualcosa di anomalo esiste. O no? Altro che normalizzazione dell’Italia.
Mi fanno paura.
Che cosa?
Le tue parole, quello che è successo. Mi ritrovo dentro un gioco immenso in cui io sono soltanto una pedina. Credevo che mi avessero tolto il programma di protezione senza una logica. Invece la logica esiste, eccome. In pericolo non è solo la mia deposizione all’udienza. È tutto il mio futuro.
Guarda Rocco che qui dentro siamo tutti pedine. E il pericolo lo corriamo tutti insieme. Perché se queste sono le premesse, la Seconda Repubblica farà schifo come la prima. Per questo, avverte lui, devi stare attento a non fare minchiate. Perché se adesso ti hanno tolto la protezione, alla tua prima minchiata ti faranno prendere il massimo della pena.
Non farò minchiate. Ma perché ce l’hanno con me?
Non ce l’hanno con te in particolare, Rocco. Almeno, spero. Per loro eri un numero. Solo un numero da depennare. E per puro caso sei anche il primo a essere stato depennato. Sei il numero uno, insiste lui e mi dà una pacca sul braccio per sdrammatizzare.
Sai che onore… Meno male che c’è Sarah. Non sono mai stato così felice in vita mia. Nonostante tutto. Abbiamo fatto l’amore.
Sarah è una ragazza molto dolce… Senti, venerdì pomeriggio mi hanno invitato a una conferenza di insegnanti. La organizza un professore dell’università, una brava persona, figlio di un prefetto ucciso a Palermo dalla mafia. Ci vado se vieni anche tu. Può essere un’esperienza interessante. Per loro e per te. E puoi portare anche Sarah.
Mi posso fidare? Non rischiamo scherzi?
Non dico a nessuno che verrai. Avverto il professore poco prima dell’incontro. E dubito che i Compari partecipino a conferenze di aggiornamento sul disagio dei minori e l’abbandono della scuola.
La conferenza del professore è in centro, a pochi isolati dal negozio dove lavora Sarah. Sono le quattro del pomeriggio. E Sarah purtroppo non può finire prima. Al lungo tavolo davanti a un centinaio di insegnanti ci sediamo io, il giornalista, il procuratore aggiunto di Torino, così si è presentato, e il figlio del prefetto ucciso a Palermo. Minchia, Luca, ma mi vedi? Io qui a insegnare agli insegnanti. Mi hanno spiegato che rappresentano tutta la regione. Scuole medie e superiori. E io qui, seduto accanto a un alto magistrato e a un professore dell’Università. Mi vedi, Luca? Ecco, mi hai distratto e non ho capito cosa ha detto il giornalista. Dev’essere qualcosa di grave perché scoppia la rivolta. Minchia, che casino. Allora anche i professori fanno casino. A scuola eravamo noi. Adesso qui sono loro. Ma questa non è una protesta. È una sommossa. Qualcuno si alza e se ne va. Non capisco perché. Luca, ma lo vedi che casino è scoppiato? Minchia, bel risultato abbiamo ottenuto. Tre parole e abbiamo dimezzato la platea. Il professore, sì il padrone di casa, li invita a rimanere. Niente da fare. Sono inconsolabili. Bella questa osservazione. Inconsolabili. Da quando ti conosco, Sarah, la tua dolcezza è entrata nelle mie parole. Parla il procuratore aggiunto. Racconta di reati commessi da minori. Dovrei parlare io che sono un esperto. Sarah, dolcissima. Il tuo viso. Il tuo sorriso. Il tuo corpo incollato a me. Minchia, tocca a me e non ho capito la domanda. Ah, vogliono che racconti la mia esperienza. E certo, cos’altro avrei potuto dire? Aspettate che mi alzo in piedi.
Buonasera, scusatemi, forse non userò le parole giuste. Perché io sono arrivato alla terza media. Sì, per modo di dire. Mi ci hanno fatto arrivare a calci nel culo, detto con licenza parlando. E quindi ogni tanto sbaglio le parole. Prima il magistrato di Torino vi ha parlato dei reati commessi dai minori. Ecco, io ero uno di quei minori che commetteva reati. E non è finita lì. Da quei reati sono entrato nella criminalità organizzata. Perché quando cresci in una realtà abbandonata da tutti, come quella in cui sono cresciuto io, non c’è famiglia, non c’è scuola che tenga. Alla fine la tua famiglia diventa la strada. E davanti a te ci sono due strade. O diventi un tossico. O diventi uno spacciatore. Io ero tossico e spacciatore, fai un po’ te. Ho anche sparato. Ma all’ultimo non ho avuto il coraggio di uccidere. Sapete perché? Perché ho avuto tre persone straordinarie quando ero piccolo. Mia madre. E non faceva la professoressa, non aggiungo altro. Mio papà praticamente non esiste. Ma mia mamma ha fatto una fatica da morire e quando ero alle elementari, per tenermi lontano dalla strada mi ha mandato in collegio. Pensate che fatica può fare una mamma di periferia per mandare il suo bambino in collegio. Quello sforzo non è servito a nulla, direte voi, se poi è successo quello che è successo. Perché fuori da quel collegio ho avuto la sfortuna di essere nato e cresciuto in un quartiere di periferia. Fino all’età di vent’anni, quando mi hanno arrestato per tentato omicidio.
Minchia, guarda come sono tutti immobili ad ascoltarmi. Ad ascoltarti, Luca. Perché questa storia è identica alla tua. Ma li vedi?
Ero un ragazzino molto prepotente. Testardo. E soprattutto ingenuo, come il mio gruppo di amici cresciuti nello stesso cortile. Sempre uniti, passavamo le nostre giornate a combinare casini in giro rubando tutto ciò che ci capitava sotto mano. E comunque tra tutti questi ragazzetti il più irresponsabile ero io. Non ci pensavo su due volte prima di commettere qualche cavolata, pur sapendo il rischio a cui andavo incontro. Cercavo di dimostrare a tutti quanti che niente mi faceva paura. Comunque era così veramente. Sarebbe deludente, però, non ammettere che qualcuno come un’assistente sociale passava il suo tempo, o meglio dire perdeva, a farmi capire con discorsi lunghi ma profondi, di cambiare testa. Lei ci provava. E io non ne avevo assolutamente intenzione. Ero troppo legato ai miei amici, al mio cortile, a quello che era il mio piccolo mondo. E non poteva di certo farmi cambiare idea neanche il carcere minorile. Tanto meno i discorsi che l’assistente continuava a farmi. Con il trascorrere del tempo conobbi anche un prete, amico di questa fantastica assistente sociale. Ma siccome ero minorenne facevo avanti e indietro dal carcere, ora con un nuovo regalo a me stesso. Quello di cominciare a fare uso di cocaina.
Ed è per questo motivo che conobbi il prete, responsabile di una comunità per ragazzi con problemi identici ai miei o addirittura più delicati. Passai un po’ di tempo con quest’altra fantastica persona. Si è impegnato con tutto se stesso per rimettermi sulla retta via. Ma il suo è stato un impegno inutile. Scappavo in continuazione perché ero troppo legato al mio piccolo mondo. E neanche l’affetto, e posso osare dire amore, di questo prete sono riusciti a farmi cambiare testa. Ma per la prima volta cominciai a provare un senso di stima e affetto nei suoi confronti. Mi rendo conto che seguivamo idee diverse: non combaciavano le nostre volontà. Poi lo persi di vista e cominciai unito a quei miei amici oramai quasi maggiorenni, e sempre più uniti, a costruire il Fortino. E come un branco di leoni seguivamo ideali fuori da ogni logica. Incominciando veramente a far del male a chiunque ne fosse contrario o anche cercasse di capire un perché, un solo perché, di tutto questo. Come vicini di casa, gente comune, poliziotti. Alla fine abbiamo creato il nostro impero che era quel cortile dove si svolgevano le attività illecite. Oggi, però, sono sicuro che non sarei stato invitato qui se non avessi incontrato quelle tre persone straordinarie. Mia madre. L’assistente sociale. Il prete. Perché quello che hanno messo nella mia testa allora, ciò che si chiama amore, o meglio ancora, la capacità di amare, non è andato perso. È questo che mi ha spinto a cambiare vita. La capacità di amare. Me stesso, prima di tutto. I miei amici. Le persone che incontro. Vi voglio dire questo… Scusatemi, forse non uso le parole giuste. Voi avrete sicuramente in classe dei ragazzi che vi fanno venire il mal di testa. Vi chiederete perché non vi ascoltano. Vi sentirete dei falliti. Ma se ci mettete amore in quello che fate. Se dimostrate che li amate, le vostre parole non andranno perse. Resteranno per sempre e lavoreranno come un tarlo nelle loro teste. Se hanno funzionato nella mia di testa, possono farlo in quella dei vostri ragazzi… Non ho altro da aggiungere.
Mi applaudono, Luca. No, così mi fate arrossire. C’è anche qualche bella professoressa che mi guarda ammirata. Sorriso. Siete troppo gentili, basta così. Un insegnante alza la mano. Vuole dire qualcosa. Si alza in piedi. È uno di quelli più incazzosi. Quello che prima ha risposto a tono e ha trascinato la protesta di tutti. Ahi.
Buonasera, insegno italiano in una scuola superiore. Lavoro in un quartiere che qui dentro chiameremmo difficile. Devo scusarmi davanti a tutti e mi spiace che, per colpa mia, alcuni colleghi siano andati via. Ma la devo ringraziare. Il suo racconto mi ha dato le motivazioni per continuare a insegnare. I problemi con i miei alunni sono niente rispetto a quanto lei ha affrontato. Grazie per la sua testimonianza. Grazie di cuore a lei e al professore che ha organizzato questo incontro.
Minchia, Luca, ho salvato la conferenza. Prima pensavo che ci lanciassero le sedie e adesso sono qui a leccarci, a fare altre domande. Dopo i saluti, torniamo a piedi. Io e il mio amico giornalista. Mi accompagna fino al negozio di Sarah. Forse faccio in tempo a salutarla prima che chiuda. Grazie, Rocco, dice lui mentre camminiamo spalla a spalla sul marciapiede davanti alle luci delle vetrine. Il freddo della sera annuncia l’inverno in arrivo. E, aggiunge lui, rende meno paradossali i primi addobbi natalizi.
Ma che cosa hai detto, che li ha fatti incazzare tutti quanti? Io ero sovrappensiero e non ho sentito.
Lui ride. Lascia perdere, risponde. Come sta tua madre?
Come al solito, sta. È tornata ad abitare al Fortino. In Procura un poliziotto mi ha detto che quasi ogni mattina fa scenate in cortile. Dice che sono un infame, che lei non c’entra nulla con la mia scelta di collaborare. Mi fa male, sai?
Lo immagino. Magari fa così solo per paura e per sopravvivere. Anche se non è più il Fortino di prima, è costretta a prendere le distanze da te. Altrimenti non la lascerebbero abitare lì.
Fa così perché purtroppo è sempre di più in crisi con la testa. Solo che io non la posso aiutare… Non te l’ho detto, sono tornato.
Dove sei tornato?
Al Fortino. Stamattina prestissimo, prima di andare a lavorare.
E hai visto tua mamma?
No, non mi sono fatto vedere. Dormivano ancora tutti.
Allora, perché ci sei andato?
Sono tornato al Fortino e in piazza dove hanno ucciso Luca. Per vedere se avevo paura e se avrò paura.
Lui si ferma e mi guarda. Avrai paura quando?
Quando andrò al processo.
La telefonata che non ti aspetti arriva un pomeriggio senza lavoro. Diluvia a dirotto. A gennaio l’umidità ti bagna le ossa quando piove. E non ci si va a infangare nei giardini. Chiama l’avvocato. Almeno quello continua a pagarlo lo Stato, spero. Un bravo avvocato, con un’assistente giovanissima e bellissima. Dice che non sa come dirmelo. Che è uno scandalo. Che non è riuscito a fare di più e si scusa per questo. Insomma, il Tribunale del riesame di Roma, perché noi collaboratori dipendiamo da Roma, ha disposto il mio arresto. Non ho ben capito se è per l’evasione, cioè per aver soccorso mia madre, o per la revoca del programma di protezione. Perché senza programma, i reati che ho confessato si sommano alle vecchie condanne sospese. E questo è solo l’inizio. L’avvocato sostiene che poco per volta dovrò scontarle tutte. Spiega anche che è riuscito a ottenere che io venga incarcerato a Brescia dove c’è una sezione protetta per i collaboratori. Vuole vedermi immediatamente, prima che vada in stazione Centrale. Devo presentarmi in carcere stasera stessa.
Ora che sono sul treno per Brescia, ho più calma per pensare. Il mio amico giornalista è venuto a prendermi subito. Mi ha accompagnato dall’avvocato e poi fino ai binari. Gli ho dato da custodire le mie cose personali che non posso tenere in cella. Il telefonino, il caricabatterie, il mangianastri con le cuffie. Lui dice che adesso comincia davvero a pensare male. Che forse non sono soltanto un numero da depennare. Questo è davvero un invito a tacere. Voleva far casino sul giornale, oggi stesso. Gli ho chiesto io di lasciar perdere. Altrimenti, chissà cosa possono scatenarmi addosso. Farò anche questa detenzione. Sono tre mesi. Passano. Uscirò a fine marzo. E poi ci sarà subito il processo.
Non ho avuto nemmeno il tempo di salutare Sarah. Né di avvertire Rino. Li chiamerò prima di entrare in carcere, da una cabina. Non ho il numero del negozio di Sarah. E non ho voluto passare da lei. Non è bello abbracciare la propria donna. E dirle davanti a tutti: vado in prigione.
L’udienza è alle dieci di una splendida mattina di aprile. Non devo andare all’aula bunker. Non so perché, ma il processo l’hanno spostato al vecchio tribunale. Un ispettore che lavora con la dottoressa mi ha detto di passare prima in ufficio da lui. Così mi accompagna e gli imputati non vedono che sono solo. Sì, solo come un cane. Per come stanno andando le cose, dovrei correggere la lettera che ho scritto alla dottoressa. Perché al Palazzo di giustizia non sono venuto in taxi. Non posso permettermelo. Nemmeno in tram, no. Ci sono arrivato in scooter.
Minchia, Luca, ma li vedi in gabbia? Sono venuti tutti a sentirmi. C’è perfino il numero uno. È il nostro giorno. Oggi dovrebbero chiamare loro pentiti, non me. Perché se ne pentiranno, loro sì, di averti ridotto così.
Buongiorno, dice la dottoressa dopo che mi hanno fatto passare davanti agli imputati e accomodare sulla sedia dei testimoni. Le ricordo di rivolgere le sue risposte al presidente della Corte d’Assise e non a me.
Oh, è il suo chiodo fisso. È un anno che mi ricorda che devo rispondere al presidente e non a lei. L’ho capito. Io esaminato davanti a tutti. Sarah vuole che mi iscriva a una scuola professionale serale e penso che lo farò. Ma per me già questo è l’esame di maturità. Devo rallentare il respiro altrimenti mi si raffreddano le mani. Rallentare il respiro. Come quando prendi la mira con il fucile. Vi guardo uno per uno nelle gabbie. Vedo i vostri occhi. Se non potrò voltarmi mentre rispondo al presidente, vi osservo adesso. Vi vedo. Uno per uno. Vi conosco uno per uno. So tutto di voi. Avrei potuto scrutarvi dentro il mirino di un kalashnikov. Avrei potuto vendicare Luca con quel profumo penetrante di ammoniaca che ha la polvere da sparo. Ma non l’ho fatto e non lo farò per un solo motivo. Se sono qui oggi, non è per vendetta. È per giustizia. È diverso, sì. La giustizia non è una vendetta. E nemmeno un ricatto. È fare ciò che è giusto. Guardatemi. Sì, guardatemi bene anche voi. Perché io sono cambiato. Adesso sono un uomo libero. Voi no. Voi siete rimasti picciotti. Così alti e così picciotti.
Il presidente nella sua toga maestosa mi chiede se ho intenzione di rispondere. C’è un attimo di gelido silenzio in aula. Si interrompe anche lo scricchiolio continuo delle vecchie panche. Certo che ho intenzione di rispondere. Non ho mai immaginato, nemmeno un istante, che potessi reagire alla revoca della protezione e ai tre mesi di carcere con la ritrattazione. Io non sono un picciotto come loro. Formula di rito. Chiedono che ripeta la formula di rito. Luca, no, adesso no. Rimandami subito indietro le lacrime. Devo essere lucido. Respiro lento. Non è difficile l’esame della dottoressa. In fondo mi chiederà di ripetere ciò che ho già raccontato a lei e all’altro sostituto procuratore. Vogliono che ricostruisca i nostri contatti. No, non eravamo una banda di teppisti isolati. Noi, così giovani, eravamo al servizio di personaggi spietati. Così ragazzini eravamo manipolati e sfruttati da loro, presidente. Si chiama ’ndrangheta.
Le chiedo, domanda ancora la dottoressa, a quanto ammontavano i vostri incassi in quello che chiamavate il Fortino.
Le entrate del nostro gruppo ammontavano da un minimo di venti milioni a un massimo di quaranta milioni, di lire ovviamente…
Mi scusi, mi interrompe lei, entrate ogni quanto?
Ogni giorno, dottoressa. Tra i venti e i quaranta milioni al giorno. Con un investimento di duecento milioni per l’acquisto della droga all’ingrosso, se ne incassavano novecento e più. Il Fortino era una macchina da soldi. E noi che lo gestivamo avevamo tra i sedici e i venticinque anni.
Un avvocato vuole che racconti davanti alla Corte d’Assise cosa ha fatto il suo assistito. È convinto che mi impappini, che non ricordi, che faccia confusione. Caro avvocato, mi spiace per lei, del suo assistito so tutto. Proprio tutto. Gli acquisti all’ingrosso li faceva anche lui. Eravamo insieme. Lavorava per me, il suo assistito. Per me e per Luca. E poi si è messo dall’altra parte, presidente. Quando hanno ucciso Luca è andato con i Compari. A questo punto io sono stato arrestato e non posso aggiungere altro. Il difensore insiste con un’altra domanda. Vuole incastrarmi.
Basta avvocato, o lei mi rovina, gridano da una gabbia. Riconosco la voce. È il suo assistito. Qualcuno scoppia a ridere.
Fuori dall’aula mi aspetta un altro testimone. Ora che siamo stati sentiti, non ci tengono più separati. Non lo vedevo da allora. Insieme andiamo in redazione.
Ciao, sono io. Vieni fuori in strada. C’è una sorpresa per te.
Nemmeno loro due si vedevano da allora. Si guardano. Si riconoscono. Blues ha un sorriso pacifico. E gli occhi lucidi. Perché tornare a Milano e rivedere noi due non può che fargli rivivere le immagini. Nella sua famiglia è l’unico uomo adulto sopravvissuto. Non l’hanno ammazzato perché Blues non saprebbe far del male a nessuno. Comunque anche lui è scappato. Abita lontano, in un piccolo paese.
Stamattina ti ho visto, sulla panca.
Anch’io ti ho visto, Rocco, e sei andato benissimo, dice il mio amico giornalista. Sono arrivato poco prima del tuo esame, aggiunge rivolto a Blues.
Devo andare, saluta all’improvviso il fratello di Luca e Ghiaccio, il figlio di compare Vincenzo. Devo tornare dai miei bambini. Ho una moglie e due bambini bellissimi. Non è sicuro per me rimanere qua.
La città è attraversata da fili invisibili. Non li immagini nemmeno. Se la guardi, è una città viva, ricca, libera. Non puoi credere che al suo interno si muovano persone braccate. Cittadini che non hanno nemmeno la libertà di chiacchierare per strada. Perché qualcuno, quei fili, li potrebbe tagliare. In qualunque momento. Con un semplice, facile colpo di pistola. E così Blues, largo e massiccio come ai vecchi tempi, se ne torna a piedi verso la moglie che lo aspetta in macchina in fondo alla via.
La giornata inesorabile arriva quando i parchi di Milano sono verdi e fioriti. Al confronto, andare a deporre in aula è stata una passeggiata. Lo so bene che i veri pericoli cominciano ora. E non ci sarà nemmeno la possibilità di avere la sicurezza di un lavoro vero, una casa in affitto, nuovi documenti, una nuova identità. Cioè quei benefici che ti promettono all’inizio per convincerti a confessare, quando firmi la tua condanna a morte che poi è il programma di collaborazione con lo Stato. Io, Luca, sarò solo in tutto questo. Solo. L’ultimo venerdì di giugno è una giornata caldissima. Ed è anche il giorno della sentenza.
La notizia arriva nel tardo pomeriggio, quando la corte esce dalla camera di consiglio. L’elenco dei nomi è sul taccuino che mi aspetta sulla scrivania in redazione. Ventuno nomi scritti a penna. Nove ergastoli. Più una sfilza di condanne tra i quattro e i diciotto anni di carcere.
Hanno dato l’ergastolo a tutto il vertice della ’ndrangheta, anticipa lui che è appena rientrato dal tribunale. E agli assassini di Ghiaccio, di Luca e del loro papà. Tranne al Calabrese, che come sai si è pentito.
Lo vedo. Anche Calimero è stato condannato. Luca aveva ragione.
Lui mi guarda. Come ti senti, Rocco?
Non sono felice. Non posso essere felice oggi.
Le conseguenze non si fanno attendere. Una sera afosa, sì e no un mese dopo i nove ergastoli e tutto il resto, vado in redazione per la cena e lui mi racconta che l’ha chiamato Rino. Dice che era furioso perché io gli avrei aizzato contro gli operai. Secondo Rino, durante una pausa pranzo avrei detto loro, soprattutto ai romeni, che sono degli stupidi a lavorare per così poco e che dovrebbero protestare con il padrone. Perché è una vergogna e perché, quando abitavo al Fortino, quei soldi che loro prendono in un mese io li facevo in un quarto d’ora.
Ma secondo te, io che da mesi lavoro senza contratto, nelle condizioni allegre in cui sono, vado a occuparmi dei cazzi degli altri?
Rocco, non lo so cosa sia successo, ammette lui, Rino era furioso. Dice che non ti vuole più vedere in cantiere.
Non me l’aspettavo. Quella frase è uno sparo a bruciapelo. Più che la pallottola, più che il contenuto delle parole, fa male la scottatura.
Dopo la commissione centrale anche Rino mi volta le spalle. Il bravo imprenditore uscito dalla cocaina, che si è fatto da solo e fa lo sbruffone con il comitato di quartiere, ora mi scarica. E sai perché mi scarica? Perché sono un appestato.
Ascoltami, Rocco, domani mattina andiamo insieme da Rino. Ci aspetta, continua lui. La tua situazione senza un lavoro è troppo delicata. Facciamo finta di dargli ragione, almeno fino a quando non trovi un altro posto. Ti farà una ramanzina e…
No. Lo sai perché mi caccia? Perché è un cagasotto. Ha paura. Pochi giorni fa sono venuti a cercarmi su un cantiere.
Chi è venuto a cercarti?
Non li conosceva nessuno. Mi hanno detto che avevano l’accento di giù. Hanno chiesto informazioni su di me, chi sono io, cosa faccio lì e se ne sono andati.
Dopo la sentenza?
Dopo la sentenza.
E perché non mi hai detto nulla, Rocco? Queste cose tu le devi riferire in Procura perché i magistrati possono ancora scrivere…
Stammi a sentire. La gente pensa che sia facile ricominciare per uno come me. Tre o quattro anni di duri sacrifici per tornare a vivere con una certa serenità. Non è così. Nella mia situazione è impossibile. Tre o quattro anni a Milano potrebbero essermi fatali. Io non ho appoggi di nessun tipo, da nessuna parte. Per questo son dovuto tornare in questa città, perché è l’unica che conosco. Me ne dovrei andare. Ma senza contatti, senza soldi, senza niente di niente ancora non ho avuto il coraggio di buttarmi a cercare nel vuoto. Se la commissione centrale non mi avesse abbandonato, non mi troverei in questa condizione. Aspetta, non mi interrompere… Sono uscito da quell’udienza senza scorta. Solo con la convinzione di aver fatto la cosa giusta. E so che ho firmato la mia condanna a morte. Ma io la mia promessa con la legge l’ho mantenuta. I miei impegni con lo Stato li ho rispettati. Uno dopo l’altro. Con me, lo Stato no. Lo Stato mi ha usato e scaricato. In questi mesi di lavori saltuari, oggi sì, domani no, dopodomani no, per vivere qualche volta ho dovuto anche rubare.
Cammino rabbioso, su e giù nella stanza dove è entrato Luca. Lui mi ascolta, seduto nella stessa posizione di allora. Mi osserva e non parla più.
E me ne vergogno, sai? Mi consola il fatto di aver avuto la fermezza di non commettere reati più gravi. Perché quando mi hanno rispedito tre mesi in carcere ho ricevuto proposte di reinserimento nella criminalità. E forse in carcere mi ci hanno mandato proprio per questo. Per provare a distruggere la mia reputazione di collaboratore affidabile. Un famoso pentito mi ha addirittura offerto di aiutarlo ad ammazzare un po’ di trafficanti albanesi e di riprendere in mano la piazza con lui. Credi sia stato facile dirgli di no?
Lui continua a guardarmi in silenzio. Forse pensa davvero che non sia stato facile.
Invece è stato facilissimo. E lo sai perché? Perché io non tornerò indietro. Nonostante tutto questo anch’io, come ragazzo di ventisei anni, ho i miei grandi sogni. E allora non puoi chiedermi di andare a elemosinare la mia dignità davanti a Rino. Io non sono un appestato e non ho nulla di cui scusarmi. Per me un cagasotto come Rino può semplicemente andare affanculo.
Non puoi pretendere che Rino faccia l’eroe per te, o per me… Comunque, come preferisci. Ci rimettiamo a cercare un nuovo lavoro.
Non ce n’è bisogno, vado all’estero. Ho trovato un contatto a Monaco di Baviera. Hanno una pizzeria, sono napoletani. Cercano un pizzaiolo italiano. Lascio passare le ferie e parto. È meglio che provi fuori dall’Italia. Perché non voglio che proprio adesso che ho cominciato ad assaporare la vita, abbiano la soddisfazione di ammazzarmi.
Sì, è meglio se sparisci per un po’.
Purtroppo sembra non ci sia nemmeno il tempo di lasciar passare le ferie. La voce di mia madre al telefonino mi sveglia in mezzo all’afa del pomeriggio. Sbraita come sempre. Mi insulta. Dice che sono un infame e detto da lei non è una novità. Grida così forte che il microfono del suo cellulare distorce il suono. Questa volta però il suo è terrore. Finalmente si spiega. Racconta che sono appena passati a casa da lei due sgherri del solito giro. E le hanno detto che se non mi isolano, stermineranno tutta la famiglia. Le hanno assicurato che faremo la fine di Luca, di Ghiaccio, di compare Vincenzo. È davvero spaventata. Alla fine piange. Minchia, Luca, non posso sentir piangere mia madre. Questo è il premio per aver rispettato la legge.
Il treno per Monaco parte la sera tardi. La stazione è piena di turisti, come quella mattina a Pescara. Ci sono venuto da solo. Non voglio Sarah accanto in queste settimane. E nemmeno l’unico amico che mi è rimasto. Gli ho telefonato in redazione. Ho detto che manderò il numero e il nome della pizzeria non appena mi sistemo. Loro adesso è meglio tenerli lontano. Perché ogni minuto, per me, potrebbe essere l’ultimo. E loro lo sanno.
Ciao, sono io.
Rocco, come va? È dagli auguri di Natale che non ti sei fatto sentire.
La prossima settimana sono sei mesi che faccio il pizzaiolo. E parlo anche un po’ di tedesco. Ma c’è un problema.
Dimmi.
Sono tornati da mia madre. L’hanno minacciata. Solo per farle prendere paura, credo. Ma non posso stare qui e pensare che mia madre sia in pericolo.
Potrebbe trasferirsi in un appartamento popolare in un altro quartiere, suggerisce lui. Il Comune può concederle una permuta. Così lascia il Fortino. Se è la Procura a richiederlo, non dovrebbe passare troppo tempo.
Io con la Procura non c’entro più niente. Chiuso il processo, chiuso ogni contatto.
Ma tua madre ha fatto denuncia?
Non lo so, penso sia andata in commissariato. Comunque ho già deciso. Torno. Ci sarà anche un amico. Uno che ho conosciuto qui. Un napoletano con giri strani, ti racconterò.
Secondo me fai male a tornare, Rocco. Lì hai un lavoro. Perché non porti la tua mamma in Germania?
Non ti preoccupare, qualcosa troverò.
Minchia, Luca, un nuovo salto nel vuoto. Quanti ne ho fatti da quando non ci sei più. Il vuoto più profondo è quello che hai lasciato tu. Però non mi va di raccontare tutto al giornalista. Adesso basta. In fondo il destino è destino. E se sei nato in un cortile come il Fortino, non puoi essere normale. Essere come loro. Come Sarah, come lui, come i due magistrati, come gli sbirri che mi hanno dato la caccia. In fondo guardami, al di fuori di magistrati, sbirri, giornalisti, non ho fatto nuovi amici. Certo, c’è Sarah. Una ex tossica. Allora allungo la lista. Ci metto anche una ex tossica. No, Luca, noi non siamo normali.
Come mai la redazione è vuota?
Molti colleghi sono in ferie per le vacanze di Pasqua, spiega lui.
Senti, ho bisogno di un aiuto. Te li restituisco non appena lavoro. Ho scoperto che i vigili hanno fermato mia mamma e hanno sequestrato lo scooter. C’è poi da dare l’anticipo per l’affitto e pagare il mese. Ho trovato casa a Città Studi, vicino all’Università.
Il tuo amico delle sigarette che ti ospitava l’hanno arrestato?
Non l’ho più sentito. E poi sono con il mio amico napoletano, non posso portare anche lui. Ci aspetta fuori, vieni che te lo presento.
Aspetta, Rocco. Il dissequestro, mesi di custodia dai vigili, il nuovo bollo, tre mesi di affitto sono un sacco di soldi. In Germania non ti pagavano?
Non molto, avevo l’affitto anche lì.
Lui mi scruta, poco convinto. Ci provo ad aiutarti, dice. Ma questa volta te li do come prestito. Ho spese anch’io. Non appena puoi me li restituisci.
Va bene.
Andiamo al bar accanto alla redazione. E Giuseppe, il nuovo amico, sembra fare di tutto per dare una pessima impressione di sé. Io gli ho detto che con il giornalista può parlare come se lo facesse con me. Ma uno deve stare un po’ attento. Mica puoi vantarti con il primo che incontri che sei imparentato con i boss della camorra. Che hai un passato di pistole e sangue. Che la prima volta hai sparato che eri un pisciaturo. Che quando premi il grilletto senti quella soddisfazione fallica che fa dell’arma il prolungamento del braccio. Che in Germania vendevi l’hashish più buono. E puttanate di questo tipo. Anche il giornalista più scafato si fa venire strani pensieri. E infatti, stasera che ci siamo incontrati da soli per una pizza, mi sta facendo il terzo grado.
Rocco, il tuo amico non mi piace per niente. Conosce la tua storia?
Sì, gliel’ho raccontata.
Mi meraviglio che tu ti esponga con uno che ha parenti nella camorra.
Lo dovrei ringraziare, invece. Mi ha raccontato che sopra di lui gli avevano chiesto di raccogliere informazioni su di me. Perché doveva passarle ai calabresi. O perché i calabresi avevano chiesto ai napoletani il servizio completo. Cioè di farmi, hai capito, no?
E perché lo dovresti ringraziare?
Perché lui invece di tradirmi, me l’ha detto.
In altre parole, adesso ti sei indebitato con la camorra, commenta lui arrivando a una conclusione che nemmeno uno di ’ndrangheta come me aveva osato immaginare.
E poi anche Giuseppe è senza lavoro.
E chiede aiuto proprio a te? Tu il lavoro l’avevi trovato. E lontano da Milano, come desideravi. Per la tua mamma, avremmo trovato la soluzione. Avrebbe potuto raggiungerti al sicuro in Germania. Ora che sicurezza puoi darle?
Mi fai ridere. Figurati, mia madre in mezzo ai crucchi.
Rocco, io non rido. Perché sono convinto che il motivo del tuo ritorno non sia tua mamma. E sono dispiaciuto che tu me lo nasconda. Comunque non mi devi dire nulla, se non lo ritieni necessario. Avrai i soldi che ti servono non appena li raccolgo. Ti chiedo soltanto una cortesia. Io mi fido di te. C’è un pezzo di storia personale che ci lega. Ma non mi fido del tuo amico. E devo badare anche alla mia sicurezza. Da quello che dice, non mi pare sia solo un rubagalline, come quello che ti ospitava. Quindi, scusami se te lo chiedo, quando ci vediamo dobbiamo essere soltanto io e te o al massimo io, te e Sarah.
Sei stato chiaro.
Da mesi non tornavo più in redazione. Non ne avevo bisogno. Fino alla sera in cui Sarah mi mette davanti a un bivio: o la smetto di farmi canne o con lei ho chiuso. Lui esce dal palazzo del giornale dove lavora. Si guarda intorno. Controlla con un rapido sguardo i due lati della via, come ha sempre fatto quando eravamo insieme. Ma una guardia del corpo che non ha la pistola in tasca è solo un pisciaturo. Sorride, non è incazzato con me. Vuole tornare dentro. Dice che è più tranquillo vederci dentro. Tranquillo è il suo modo per dire sicuro. No, gli rispondo. Non voglio entrare. Il perché non glielo dico. Il perché sono le cicatrici che mi attraversano la faccia. Dentro c’è la luce, ci sono i custodi. Qui fuori è buio. Magari non se ne accorge.
Rocco, cosa ti è successo?
Minchia, Luca, se n’è accorto.
È un po’ di tempo che non ci vediamo, sì. Sono più di sei mesi.
Rocco, dimmi cosa ti è successo?
Niente di grave. Ora sono guarito. Sono stato all’ospedale.
La cosa migliore che possa pensare è che tu abbia fatto un brutto incidente, provoca lui.
No, sono coltellate. Mi hanno aggredito al parco Sempione. L’estate scorsa.
Chi ti ha aggredito?
Mi fai tante domande. Era buio, non li ho visti in faccia. Quelli del Fortino, penso. I Compari. Una sera che stavo tornando a casa.
Abiti a Città Studi e come mai attraversi il parco Sempione la sera? Non raccontarmi palle, Rocco. Se davvero fossero stati i Compari, ti avrebbero sparato, non preso a coltellate. Chi è stato? Scommetto che non hai nemmeno fatto denuncia. Altrimenti mi avresti chiesto di accompagnarti dalla dottoressa in Procura.
Sono venuto a cercarti perché ho bisogno di aiuto.
Immaginavo. Soldi?
No, dovresti dire a quella stronza di Sarah che io sono una persona adulta e che se voglio farmi una canna a casa la sera non mi deve scassare la minchia. Perché nessuno è morto per una canna.
Rocco, non è questo il problema.
E allora qual è?
Il problema è che biascichi. Ciondoli. Il problema è che ti sarai fatto non una canna, ma una sfilza di cannoni. E forse anche altro. Ma nemmeno questo è il problema.
Io sono libero di fare la minchia che mi pare.
Appunto. E il problema è che mi stai chiedendo di intromettermi tra te e l’amore della tua vita, come una volta chiamavi Sarah. Se il tuo amore, la tua compagna, la tua fidanzata ti chiede di scegliere, tu devi scegliere chi è più importante per te. O scegli Sarah o scegli la canna. Non puoi chiedere a un tuo amico di imporre la via di mezzo. Perché non appena lei lo viene a sapere, scopre che il tuo non è l’amore della vita ma qualcosa di rinunciabile, mediabile, trattabile. Come il prezzo di una canna al parco Sempione.
Cosa intendi dire?
Che non mi puoi prendere per il culo. Ti dico io cosa è successo. Sto inventando e non voglio nemmeno che tu mi confermi se ho indovinato. Tu e il tuo amico camorrista avete provato a piazzare hashish al parco Sempione. Avete pestato i piedi agli africani e quelli ti hanno tagliato la faccia come la buccia di un mandarino.
Dietro agli africani ci sono i Compari.
Ma loro ti hanno tagliato la faccia non per i Compari, ma perché avete occupato la loro zona. Tu lo sai bene che dietro la storia di una canna non c’è soltanto una canna. L’hai detto tu che Sarah è una corda che Luca ti ha lanciato dal cielo. In quel mondo lei ci è già passata. E anche tu. E se ti chiede di starne alla larga, devi decidere tu se è più importante Sarah. O è più importante una canna. Io non posso aggiungere nulla.
Quindi, mi stai dicendo che non vieni a parlarle.
No, non vengo perché Sarah non accetterebbe mai. E perché se lo facessi, ti darei comunque torto, Rocco. E preferisco farlo qui. Guardati come sei ridotto. Reagisci. Non puoi buttare via tutto quello che hai costruito.
Non posso mettermi contro il destino. Sono nato così, resterò così.
Il destino sei tu, Rocco. Il resto sono solo scuse per giustificare la tua resa.
Ma vai a fare in culo anche tu…
Lui resta sul marciapiede. Ogni volta che mi volto lo vedo. Mi guarda mentre mi allontano in fretta. Sguardo basso, Rocco, tieni lo sguardo basso sui tuoi passi. Tu pensa se questo stronzo mi deve dare la sua lezione di vita. La vita continua lo stesso. Chi minchia se ne frega di Sarah. Andate a fanculo tutti. Vivo anche senza passare dalla redazione.
L’inverno va avanti così. Fino a quella notte tiepida e piena di profumi delle terrazze e dei giardini. Una notte profumata, sì, come quelle che a Milano annunciano la primavera. Quando lui, il mio migliore amico, torna a casa agitato.
Dobbiamo trovare subito i soldi, vogliono prima i soldi, avverte lui.
Minchia Giuseppe, e perché?
Puoi immaginarlo, ma chi ci dà i soldi adesso?
Ci penso io, prendo il cellulare.
E chi chiami, Rocco?
Il giornalista.
A quest’ora?
Lo so cosa pensi di me, Luca, non mi guardare. L’hashish è come il Valium. Anzi, ti stordisce meglio del Valium. Mi gira tutto. E mi viene da ridere. Quanto ridevamo io e te, Ghiaccio. Dove minchia ho messo il cellulare? Porca puttana, Ghiaccio, il cellulare. E poi il numero. È memorizzato. Non ci vedo. Ghiaccio, dove minchia è il numero?
Messaggio gratuito… Minchia di una minchia, ha messo la segreteria telefonica. Aspetta che lo richiamo. Non ero pronto e ho lasciato passare troppo tempo.
Messaggio gratuito…
Ciao, sono io… Sì, sono Rocco. Rocco. Scusami, lo so che sono mesi che non mi faccio più sentire. E non dovrei chiedertelo perché non ti ho ancora restituito gli altri. Ma ho bisogno di soldi. Mi servono per l’affitto. Giuseppe, il mio amico, ha perso quelli che mi avevi dato. No, cioè. La padrona li vuole entro domani, altrimenti ci butta fuori di casa. Fa’ un po’ te. È urgente. Va be’, ti richiamo. Sono Rocco, hai capito chi sono? Pronto? Fanculo.