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Io lo dico per te
Si può ascoltare il suono dei passi sul porfido, qui in via dei Giardini, invece di respirare il traffico di via Manzoni. Le poche auto. Qualche elegante signora in bicicletta e soprabito. L’edicola all’angolo. Le foglie appena germogliate. Fragili pennellate impressioniste sulle cime del grande bagolaro, gli aceri, il liquidambar. E giù fino ai rami potati sopra i due marciapiedi. Fanno immaginare un’altra metropoli. Un altro Paese. Questo potrebbe essere un quartiere di Parigi. Di Boston. Con un po’ di fantasia, molta fantasia, perfino di Manhattan. Tra le caselle del Monopoli, viale dei Giardini è la zona più costosa. Anche a Milano lo è. L’idea di chiamarla così nel celebre gioco nasce proprio da questa strada.
Oggi promette pioggia. La primavera padana è una roulette. Confidi nell’azzurro del mattino. Esci in camicia e giacca. Te ne vai a piedi per assaporarti il sole. E nel tempo di qualche minuto ti ritrovi sotto nuvolose capriole di temporale. Così, all’improvviso. Forse perché a Milano l’orizzonte non si vede. Lo guardi a pezzi il cielo. Tra una grondaia e la cima del palazzo di fronte. E quando ti accorgi delle nubi, è troppo tardi. Una raffica di vento freddo scuote le facce smeraldo delle giovani foglie. Meglio affrettarsi. Superata l’edicola all’angolo, finisce il piacere. Il rumore dei motori e l’odore di smog riportano immediatamente al mondo. Si gira a sinistra. A metà di via Fatebenefratelli, la massiccia antichità della questura è un monumento al continuo faccia a faccia tra cittadini e criminali. A destra del portone, una lapide ricorda il punto dove il 17 maggio 1973 la bomba lanciata da Gianfranco Bertoli uccise quattro persone e ne ferì cinquantadue. Sotto la volta annerita di questo ingresso sono passati, in un senso o nell’altro, assassini, terroristi, mafiosi, politici corrotti, trafficanti, spacciatori, rapinatori, ladruncoli. E ogni giorno si muovono centinaia di poliziotti. L’agente di guardia si avvicina.
Buongiorno, dove deve andare?
Buongiorno, ho un appuntamento.
Il lasciapassare blu e bianco della sala stampa è sufficiente per entrare senza essere identificati. Bisogna prendere l’ascensore e superare un lungo corridoio. Lì in fondo si arriva all’ufficio dove mi aspettano. La porta è aperta.
Prego, dice il segretario, il dottore è nella sua stanza.
Il dottore è uno dei venti funzionari di polizia più importanti della città. Ha i gradi di primo dirigente. Una faccia pacifica. Un fisico non proprio da Rambo. Probabilmente è anche un padre di famiglia. Forse mi deve dare una notizia. Chissà, magari una dritta su cui indagare. Mi ha chiamato lui. Non ha voluto anticiparmi nulla.
Vieni, accomodati, dice senza alzarsi dalla scrivania. Per favore, chiudi la porta.
Promette bene stamattina. Se è un incontro a porte chiuse, significa che la notizia in arrivo è davvero buona.
Dimmi tutto.
Scusami se ti ho fatto perdere tempo, dice lui, come stai?
Non mi lamento. C’è tanto lavoro, quindi non bisogna lamentarsi.
È per questo che ti voglio parlare, continua il funzionario.
Sono qui.
Sto seguendo la tua inchiesta sulla mafia dei fiori. Sono settimane che scrivi sulla mafia dei fiori.
Sì, grazie per l’interesse.
E stai picchiando duro, osserva.
Ma no, non sto picchiando nessuno. Sto scrivendo di questa rete di corruzione che coinvolge il Comune…
Appunto, annuisce lui. E dove vuoi arrivare?
Non ti seguo. In che senso, dove voglio arrivare?
Nel senso… Il funzionario resta qualche secondo in silenzio. Per quanto tempo, chiede, scriverai?
Non lo so, finché c’è da scrivere.
Vedi, però… Ci pensa su ancora. Forse fa fatica a scegliere le parole. Tu stai prendendo di mira una famiglia di imprenditori, butta lì.
Intendi i commercianti di fiori?
Proprio loro, sì. Hai capito a chi mi riferisco.
Ho capito. Ma non capisco cosa mi vuoi dire.
Voglio dirti che non puoi pretendere di ripetere con queste persone l’inchiesta che hai fatto sul Fortino della droga.
Certo, non sono la stessa cosa. Ma l’inchiesta sui commercianti di fiori parte proprio dal Fortino della droga.
E cosa c’entrano loro con il Fortino?
Ti spiego. Quando lavoravo da quelle parti, per mesi ho visto i loro furgoni fermarsi una o due volte al giorno nel cortile di un magazzino vicino al Fortino. Era il magazzino di un fiorista, fratello di due mammasantissima del Fortino. E in quel magazzino non ho mai visto entrare un solo cliente. Se non vendevano fiori, perché mai quei furgoni lo rifornivano due volte al giorno?
E come sai che quel fiorista sia legato alla criminalità?
Non lui, i suoi fratelli. Diciamo che ho avuto modo di conoscere direttamente e indirettamente la loro attività. Con il tuo ruolo, se vai a chiedere alla squadra mobile, te lo spiegano di sicuro chi sia quel fiorista.
Ma qual è il collegamento tra il Fortino e la mafia dei fiori?
Non c’è prova di nessun collegamento. Almeno che io sappia. I furgoni nel cortile del magazzino però mi hanno incuriosito. Dai furgoni sono risalito alla ditta proprietaria. E dalla ditta a quello che tu chiami la mafia dei fiori. Io non ho mai scritto che questi commercianti siano mafiosi. Non c’è nessuna condanna per associazione mafiosa nei loro confronti.
Proprio così, non c’è nessuna condanna. Ma tu continui a scrivere. Guarda che loro sono commercianti affermati, gente onesta che lavora. Non sono delinquenti. Cosa vuoi, li vuoi far chiudere?
Io non faccio chiudere nessuno. Il mio compito è informare i lettori. Così li ho informati che uno di quelli che tu chiami commercianti affermati è ricercato per traffico di cocaina tra l’Olanda e Milano. Che ha sposato la figlia di un gentiluomo che si è preso tre ergastoli per omicidio. Che hanno in mano gran parte del mercato dei fioristi ambulanti in città. Che i pochi fioristi della concorrenza si sono ritrovati con i negozi o i chioschi in fiamme.
Queste sono le accuse. Bisogna vedere se ci sono prove. Non sono mai stati condannati.
È vero. E magari li assolveranno pure. Ma la questione non è la loro condanna. La questione è che il Comune per anni abbia favorito i fioristi che si riforniscono da questi imprenditori. E abbia costretto tutti gli altri ad accettare le loro regole, i loro prezzi. Oppure a cambiare attività. Perché gli appalti pubblici sulla gestione dei chioschi in città o davanti ai cimiteri li vincono sempre gli stessi fioristi? Il Comune rappresenta tutti noi. Deve agire nell’interesse di tutti i cittadini. Ci sono comportamenti disdicevoli, anche se non sono configurati da nessuna fattispecie di reato. Queste cose non te le devo dire io. Magari violano un regolamento comunale e non il codice penale. Poi se indaghi, sotto sotto trovi pure i reati. Ad esempio, ti chiedo, lo sai perché Dentino frequenta i depositi dei commercianti di fiori?
Dentino chi, il boss della mafia?
Proprio lui. E sua moglie.
Boh, che ne so io, andranno a comprare fiori.
Allora ti faccio un’altra domanda: perché tra tanti commercianti onesti e affermati che ci sono in giro, il Comune deve favorire sempre gli stessi?
Fa’ come credi, conclude il funzionario.
Mi stupisce che proprio tu dica questo. Tu non sei un semplice poliziotto, tu sei un primo dirigente della polizia di Stato. Rispetto le tue opinioni. Ma se perfino tu ti tiri indietro, chi le fa le indagini? La conferma che quello che ho scritto non fosse un’opinione è l’arresto di trentadue vigili urbani e sei funzionari del Comune accusati di aver favorito i tuoi amici. Ed è stata la prima volta in cui nelle indagini di Mani pulite sia stato contestato il reato di associazione a delinquere. Gli arresti non li ho fatti io, li ha fatti la Procura.
Fa’ come credi, ripete lui. Però ascoltami…
Il funzionario della questura si sistema sulla sedia. E appoggia un gomito sulla scrivania per avvicinarsi un po’.
… Ascoltami bene. Se da te viene qualcuno e ti spara, noi non sapremmo nemmeno da dove cominciare le indagini.
Lo sguardo serio del dirigente di polizia galleggia a mezz’aria. È come se la stanza, questa stanza, la foto del presidente della Repubblica appesa al muro, gli encomi solenni incorniciati su tutta la parete, la libreria con i codici e i manuali di diritto, i fascicoli sulla scrivania, la sedia su cui sono seduto, la finestra, le nuvole grigie sopra i tetti, la lampada accesa, io stesso, la sua giacca, la sua cravatta, la sua camicia, le sue mani grandi come badili, è come se tutto questo galleggiasse a mezz’aria. Come se ogni pezzo, ogni elemento, ogni oggetto se ne andasse per proprio conto. Frammenti di un mondo in frantumi. Di un Paese in frantumi. È come assistere a un attentato. E avere il tempo di scoprire che l’ordigno l’hanno piazzato proprio sotto ai tuoi piedi. Qui, in questura. Nel luogo in cui, più di altri, dovresti sentirti al sicuro. In nome della Costituzione. Delle leggi. Dei cittadini onesti. Dei poliziotti, dei carabinieri, dei militari, dei magistrati, dei testimoni uccisi soltanto perché praticavano quel dovere di libertà che ciascuno di noi dovrebbe esercitare.
Io non voglio spaventarti… aggiunge lui.
Tu guarda questo idiota cosa mi viene a dire. Forse ho capito male. Forse mi vuole dare un consiglio da amico esperto. E no che non è un consiglio. Non può essere un consiglio. Altrimenti non avrebbe definito commercianti affermati e gente onesta i suoi amici. Perché è evidente: sono amici suoi. L’hanno mandato avanti con il messaggio. E lui si è prestato. Chissà perché un alto funzionario deve abbassarsi a tanto. Chissà cosa c’è dietro. Ma no, forse ho capito male io.
In che senso mi dici questo, scusami.
Nel senso che ti ho appena detto. Tu hai pestato i piedi a così tanta gente, che se qualcuno viene a spararti, noi della polizia avremmo difficoltà a cominciare le indagini.
Cosa sta succedendo? La schiena mi si è raffreddata. Le mani anche. Sento il gelo sotto i piedi. Lungo le caviglie. Su fino ai polpacci. Quando quella sera in Liguria mi hanno puntato una pistola in mezzo agli occhi, non ho provato questo. Forse perché quella sera vicino a Sanremo avevo ancora un margine di trattativa. Forse perché lo sgherro amico del padre di Lia non mi ha attaccato alle spalle. Pur essendo un delinquente, ha avuto il coraggio di affrontarmi e guardarmi negli occhi. Questo pezzo di fango vestito da alto funzionario dello Stato no. Anche se continua a guardarmi dritto negli occhi, mi ha aggredito alle spalle. Perché una minaccia del genere, a favore di gente del genere, in un ufficio di polizia è un’aggressione alle spalle. Un attacco a sorpresa. Quando non te l’aspetti. Un tradimento. È questo che mette paura. L’essere colpiti a tradimento. E quando è un dirigente della polizia che ti minaccia, c’è davvero da avere paura.
Rimaniamo a guardarci a lungo. In silenzio.
Adesso capisco. Mesi fa un altro poliziotto, un ispettore anziano, mi dice che un boss della ’ndrangheta avrebbe pagato una grossa cifra a chi avesse trovato il mio indirizzo di casa. Quel boss non appartiene al Fortino della droga. Dicono sia il capo di un clan rivale. E perdente. Anche se la sua è una delle organizzazioni più ramificate in Europa. Hanno il monopolio dell’importazione di hashish dal Marocco. E basi in Portogallo, Spagna, Italia, Olanda, Svizzera. In una banca di Zurigo hanno affittato un’intera ala del caveau per custodire il bottino. Milioni di dollari accumulati come balle di fieno. E chili di gioielli, esclusivamente in oro. Ho visto le foto del sequestro. I gioielli venivano spediti in Svizzera nascosti dentro abbondanti giri di nastro da pacchi. Come si fa con i pani di droga. Un’altra fotografia in bianco e nero riprende una distesa di mazzette in valute europee. E, davanti alle pile di banconote, la rassegna degli ori. I bracciali. Gli anelli. I ciondoli. Gli orecchini. I collier. Le collane. Eleganze e stili diversi. Il gusto di migliaia di persone derubate, scippate, rapinate in mezza Europa. Da chi non aveva soldi per pagarsi la droga.
L’ispettore sostiene che la famiglia del boss perdente sia imbufalita con me. Usa proprio questa espressione animalesca e rozza, che ti fa immaginare lo sguardo del capomafia come quello di un bufalo poco prima della carica. In un mio articolo avevo rivelato che alcuni suoi luogotenenti si erano alleati con i fratelli del fiorista, quello del magazzino senza clienti e due rifornimenti al giorno. E siccome i fratelli appartengono al clan rivale dei Compari, i mammasantissima che controllano il Fortino, il boss perdente si era sentito profondamente offeso. La libertà di espressione in Italia comporta rischi inaspettati. Il pericolo a volte nemmeno lo immagini. Si pensa che un mafioso possa reagire se si scrive dei suoi crimini. Non è così. Magari se scrivi si vanta pure. Gli articoli se li appende in casa. O nella cella in cui è rinchiuso. Un bel giorno, invece, vieni a sapere che ti danno la caccia soltanto perché hai scoperto che tre o quattro spacciatori hanno stretto nuove alleanze. E lo hai rivelato pubblicamente.
L’ispettore dice molto di più. Racconta che il boss è convinto che la notizia dei luogotenenti passati con il fronte opposto l’abbia spifferata l’avvocato dei Compari con l’obiettivo di aprire la piazza e lo spaccio agli amici. Non lo interrompo nemmeno per dirgli che la notizia non l’ho avuta da quell’avvocato che conosco soltanto di nome. L’ispettore è seduto al tavolino di un pub. Si confida, immerso nel sottofondo di voci e fumo. Ha bevuto abbastanza. E va lasciato parlare. Così, dopo un po’ di commenti sulle minigonne di due ragazze appena entrate con i fidanzati, aggiunge il resto. La taglia messa a disposizione dalla famiglia del boss è molto alta. Hanno fatto una riunione e hanno deciso di rinunciare a qualche lira: venti milioni per chi scopre l’indirizzo e gli spostamenti del giornalista e altri cinquanta per chi lo elimina. Proprio così. Usa la terza persona, l’ispettore. Anche se quello da eliminare ce l’ha seduto davanti. Mi dice che conosce queste cose perché quel clan controlla il traffico di droga nel quartiere in cui abita. Gli faccio due o tre domande trabocchetto, con il supporto alcolico di qualche supplemento di doppio whisky. Lui alla fine ammette di aver saputo della taglia perché, per avere informazioni su di me, uno sgherro del boss si è rivolto proprio a lui. Frequentano lo stesso bar.
I mafiosi non vanno a chiedere informazioni al primo poliziotto che passa loro davanti. Deduco che se l’hanno fatto con lui, è perché di lui si fidano. È uno di loro, insomma. L’ispettore comunque deve aver rinunciato alla taglia. Ne sono quasi certo. Non mi avrebbe detto nulla altrimenti. E poi non sa dove abito. Me l’ha chiesto molte volte, ora che ricordo. E gli ho sempre dato un indirizzo sbagliato. Certo, potrebbe andare a cercare nel fascicolo personale all’ufficio passaporti. O sull’albo dei giornalisti. Se non c’è ancora andato, è perché la storia della taglia, l’indirizzo, l’eliminazione sono una messinscena. Vogliono soltanto spaventarmi. Un avvertimento, ecco cos’è. E non è nemmeno il primo.
Si sono annunciati un pomeriggio. Una telefonata anonima a casa, una voce maschile. Non si presenta nemmeno. Passa subito agli insulti. E conclude la chiamata con una previsione poco rosea sul mio futuro. Il numero è riservato. Non possono averlo letto sull’elenco. L’hanno sicuramente scoperto incrociando l’indirizzo di casa con la banca dati Telecom, la compagnia telefonica. E qualcuno deve averli per forza aiutati. Perché il contratto è intestato a un’altra persona.
Qualche tempo dopo la telefonata anonima, sabotano l’illuminazione stradale davanti a casa. La prima volta sembra un guasto. I lampioni spenti in piena notte. La via completamente buia. La seconda volta, nel giro di due sere, diventa un sospetto. L’indomani gli operai che tornano a riallacciare l’elettricità raccontano di un cavo strappato all’inizio della via. Seconda riparazione. Per qualche notte le luci restano accese. Fino alla sera in cui mi avvertono da casa. Questa volta mi riaccompagna un’auto della polizia. La strada è ancora al buio. Gli agenti accendono il lampeggiante blu per farsi notare. Il cavo appena riparato, scoprono gli operai la mattina dopo, si è strappato una terza volta. Nello stesso punto. Mai successa una cosa del genere, dicono. Per un po’ me ne vado a dormire altrove. Fine dei guasti. Forse non vedendo più la mia macchina rientrare tardi o avendomi visto arrivare con la polizia, hanno gentilmente evitato di far accorrere la squadra delle manutenzioni una quarta volta.
La sorpresa successiva me la regala proprio la mia macchina. Una notte esco dalla tangenziale. E in fondo alla rampa, invece di girare a destra le ruote vanno dritte. Sterzo con più decisione. Il volante gira. E la macchina va dritta. Tiro di brutto il freno a mano. L’auto fa un mezzo testacoda. Ed evita così una foto frontale contro il muro di un caseggiato. Scendo. Le quattro ruote sono apparentemente in ordine. Al secondo giro intorno alla carrozzeria, la ruota anteriore sinistra confessa silenziosamente la sua colpa. Se lo sterzo è girato tutto a destra, perché lei punta leggermente a sinistra? La risposta è lì sotto che aspetta. Tra il motore e il cerchione. Il braccio dello sterzo è in una posizione anomala. Pende nell’aria. È completamente staccato dal mozzo. La luce gialla del lampione, proprio lì sopra, si infila tra i ferri neri di grasso. La macchina stava girando a destra. Una curva larga, a cinquanta all’ora. Cosa sarebbe successo tre, cinque chilometri prima, sulla tangenziale a cento all’ora? È notte fonda. Non vale la pena chiamare il carroattrezzi. Si può arrivare a casa. A trenta all’ora. Sbandando un po’. Con quella ruota anteriore sinistra senza più guida, che zigzaga come un’ubriaca.
Due giorni dopo, finita la riparazione, il meccanico sostiene che non può essere stata una rottura accidentale. Dice che è stato allentato il dado che stringe la testa del braccio dello sterzo al perno del mozzo. Un dado che non può svitarsi da solo perché, spiega il meccanico, ci sono il dado e il controdado. Vengono serrati uno contro l’altro. Bloccati da una colla metallica. Non si possono allentare. Se si svitano è perché qualcuno gira il dado in un senso e il controdado nell’altro senso. Avrebbero potuto farlo in qualunque momento. Ogni giorno la macchina resta parcheggiata all’aperto fino a notte fonda, nella semioscurità di un posteggio incustodito.
Una telefonata minatoria. Il cavo dei lampioni che misteriosamente si strappa tre volte. La macchina che se ne va via dritta. Ho sempre sospettato dei superstiti del Fortino della droga. Degli amici di Ghiaccio e Luca uccisi dalla giostra di sangue in cui si sono cacciati. E dei complici di Rocco, il loro fedele alleato finito in carcere dopo l’omicidio di Luca. Ma a parte le minacce al telefono, gli altri quattro episodi non li ho mai denunciati. Se non hai indizi precisi, nomi, riferimenti, come fai a denunciare una sensazione? Meglio gestirla, una minaccia, che passare per mitomane. È anche per questo che ho tenuto per me l’avvertimento dell’ispettore. Non c’erano testimoni a quel tavolino del pub. Uno così, se lo denunci ti smentisce. Nega. Ti fa passare per un visionario. La tua parola contro la sua. Uno così va tenuto buono. Non ci sono alternative. Va lavorato ai fianchi. Con pazienza. Un poliziotto così diventa un contatto diretto dentro la mafia. Per sapere cosa pensano. Cosa dicono. Cosa fanno. È disarmante che uno così lavori indisturbato nella polizia. E non poter fare nulla. Ma da soli, contro organizzazioni del genere, non si può fare nulla. Lui, loro lo sanno bene. L’importante alla fine è che l’ispettore abbia deciso di non incassare la taglia. Il suo doppio gioco, per quanto rassicurante, è in realtà un sottile ricatto. L’unico sollievo è che io non abbia dovuto concedergli nulla in cambio. Se non la pazienza di ascoltare i suoi dilemmi personali.
Anche Luca, il giovane boss del Fortino, diceva di avermi salvato. Il 22 ottobre, un martedì, sette settimane prima di morire, era seduto davanti a me. Mi aveva cercato lui. È venuto in redazione. Siamo cresciuti intorno alla stessa città. Eppure tra il suo percorso e il mio c’è stata una lontananza inconciliabile. Intollerabile. Non dovrebbe succedere. Se tutti i cittadini devono avere pari dignità sociale ed essere eguali davanti alla legge, Luca è la dimostrazione del contrario. È diventato adulto in un accampamento di nomadi italiani. Un campo comunale, nel Comune più ricco d’Italia. Fango e pozzanghere. L’hanno aperto lungo la ferrovia, proprio dietro il Fortino, che in quegli anni era solo un agglomerato di case popolari costruite per i profughi italiani fuggiti dall’Istria alla fine della Seconda guerra mondiale. Luca racconta che da bambino il papà lo legava con una catena al semiasse della roulotte. Fuori della roulotte, ovviamente. Esposto alle zanzare estive. E alla brina invernale. Il padre faceva così ogni volta che voleva punirlo. O semplicemente dimostrare la sua severità davanti alle figlie e ai figli più piccoli. Altrimenti bastavano le frustate con la cinghia. Una famiglia numerosa la sua. La mamma nomade sinti. Il papà emigrante siciliano. Numerosa e poverissima. Quando sono nati i fratellini, nella roulotte non c’era più posto. Allora lui e Ghiaccio andavano a dormire fuori. Sotto il semiasse. Senza catena, almeno questa volta.
È normale che con una vita tanto violenta, un bambino abbia qualche problema a scuola. Quel pomeriggio in redazione Luca racconta che la sua difficoltà più grande fosse rispettare gli orari. In aula entrava sempre in ritardo. Quando sei cresciuto in un campo, spiega, è dura adattarsi agli orari. Poi sì, ammette, era molto vivace. Troppo vivace in classe. È facile costruire i metodi di insegnamento sui successi degli alunni diligenti, cresciuti amorevolmente, rispettosi dell’autorità. In prima media Luca viene sospeso. E da quel giorno a scuola non ci tornerà più.
Parla per quasi tre ore. A ruota libera. I capelli ricci neri. Il volto bello, asciutto, abbronzato sotto la lampada a raggi ultravioletti. Qualche lentiggine tra il naso e gli occhi scuri. Il suo piumino rosso appeso allo schienale della sedia. Il colloquio con me è solo una scusa. Quello è un colloquio che Luca concede a se stesso. Al suo passato. Una confessione allo specchio. Ha finalmente un maledetto bisogno di tradurre la sua vita in parole. Di esaminarne i fatti, i progetti, i pericoli. La scuola non l’ha voluto. Eppure è estremamente intelligente. Racconta di essersi fidanzato con una ragazza seria. Di avere incontrato un prete di strada che vorrebbe accoglierlo nella sua comunità. È don Antonio, lo conosci? Confessa di essere stanco delle tensioni, delle mediazioni continue, dei rischi che accompagnano la sua vita di boss di quartiere. Dice che la morte di Ghiaccio l’ha cambiato. Per lui è come una lettera di dimissioni. Dal suo mondo. Dal suo passato. Voglio uscire dal giro, rivela, voglio cambiare vita, mi è stata data l’occasione e voglio provarci.
Luca ammette che il traffico di droga gli ha fatto assaporare la ricchezza. A lui. A tutta la famiglia. La macchina da rally. Il televisore. I soldi per mandare le sorelle a scuola. E togliere la mamma dagli angoli dove, imbottita e rotonda come una matriosca, si sedeva a chiedere l’elemosina. Se la scuola non mi voleva e il lavoro non mi dava abbastanza, si giustifica a un certo punto, qualcosa dovevo pur fare. Spiega però di non avere capito dove lo stesse portando quella giostra di denaro e pistole. Ne accettava le regole, violente e spietate. Non ne conosceva altre. Un mondo che lui e i suoi amici della strada, tutti adolescenti, si sono costruiti su misura. Luca ripete che con loro per la prima volta nella vita non si sentiva incatenato, sospeso, espulso, cacciato. Anzi, i grandi del quartiere al di là della ferrovia, quelli che da almeno cinque anni gli affidavano l’eroina e la cocaina da vendere, lo consideravano uno che ci sapeva fare. Addirittura un capo. Proprio in quel momento, rivela Luca, è nato il Fortino della droga.
Luca ragiona ancora da criminale. Non accetta colpe. Nemmeno ascoltando per la prima volta il totale dei morti di overdose in città. Novantaquattro dall’inizio dell’anno. La maggior parte ragazzi tra i venti e i trent’anni. Ma, reagisce lui, cosa avrebbero fatto quei ragazzi senza di noi? Noi abbiamo soltanto soddisfatto i loro bisogni, sono le difficoltà della vita ad averli ridotti così. Noi, sostiene, non li abbiamo spinti a drogarsi, ci sono venuti a cercare loro. Non avevo mai considerato il Fortino come una farmacia clandestina. È il ruolo sociale della mafia. Sempre pronta a infilarsi nelle questioni che lo Stato, i governi, il Parlamento non risolvono. E la somministrazione di stupefacenti è una di queste.
Soltanto alla fine Luca parla dei pericoli che la sua decisione di cambiare vita porta con sé. Nell’ambiente di cui ho fatto parte, racconta, certe scelte non sono ammesse, sono contro la nostra legge. Spiega che non sai mai se quello che stai facendo sia mal visto. Loro non te lo vengono a dire. Nessuno parla. Loro agiscono e basta. Come quando venne ucciso mio fratello, ricorda, io lo so, per punizione potrebbero sparare anche a me, ma queste cose non scriverle adesso, non cerco pietà.
Luca rivela che ogni volta che suo fratello Ghiaccio combinava qualcosa di grave, da Quarto Oggiaro, il quartiere al di là della ferrovia, partiva una macchina nera. Arrivava fino all’accampamento. E dalla macchina, un’auto sportiva con i vetri oscurati, scendeva uno molto alto. Non come statura, sorride Luca. Alto come grado nella ’ndrangheta. Quello è il capo dei capi di quella fetta di città. Ogni quartiere ne ha uno. Luca spiega che con il capo ogni volta doveva parlare, aggiustare, mediare. E poi risarcire il danno per la cocaina rapinata da Ghiaccio. Pacchetti di banconote che passavano di mano. Mi hanno già minacciato, ammette, anche quando a settembre fecero saltare in aria il bar di via Varesina e la polizia ha fatto girare la voce che potevamo essere stati noi del Fortino. Racconta che qualcuno se la prese con lui. Sì, per loro, i soliti molto in alto al di là della ferrovia, io ero ancora il capo. Non farò mai i nomi. Sono venuti a cercarmi, continua Luca, loro vogliono che nel quartiere torni la calma dopo il caos, vogliono che si ricominci al più presto, perché il Fortino è un affare, garantisce soldi a palate, soprattutto a chi fornisce la droga. Altre minacce sono arrivate in ottobre, quando un sabato sera uno degli inquilini del Fortino ha lanciato una molotov e incendiato l’appartamento di due pensionati. Anche quella volta credevano che avessi deciso io l’attentato, io però non c’entro, smentisce lui. Adesso, confessa Luca, quelli molto in alto al di là della ferrovia vogliono che la mia organizzazione continui a spacciare ai livelli di prima, prima della morte di Ghiaccio, ma io non ho più alcun potere. Ho rinunciato, dice e resta in silenzio a guardarmi.
La nuova domanda lo fa sorridere. No, risponde, io non ho mai fatto denunce alla polizia, no, no, io non posso farlo. Gli guardo le mani screpolate dal freddo. Ti dico queste cose, riprende poco dopo, ma tu non scriverle, non subito, nessuno deve sapere che ci siamo visti o loro mi fanno del male. Ti dico queste cose, si spiega meglio, così le sai tu, qualunque cosa succeda. Ci guardiamo ancora un po’ in silenzio. Non ci diciamo altro. Ho capito cosa mi vuol dire. E lui sa che ho capito. Qualunque cosa succeda.
È a questo punto che Luca comincia a parlare di me. Anche tu devi stare attento, dice. I miei ragazzi volevano farti del male. La settimana scorsa ti hanno visto in una pizzeria vicino a piazza Firenze, abiti da quelle parti, vero? Gli rispondo che si sono sbagliati, che non sono mai stato in una pizzeria vicino a piazza Firenze. Lui è sicuro dei suoi ragazzi. Hanno visto dove hai parcheggiato, insiste, hai una Opel Corsa grigia, vecchio modello, no? Ti hanno visto dentro la pizzeria con i tuoi amici, c’è una grande vetrina dove ti sei seduto, ti hanno visto benissimo. Poi sono venuti da me. Mi hanno detto che eri lì, volevano prendere i ferri, Luca andiamo adesso, abbiamo visto dov’è, andiamo con i ferri. Finisce la frase e mi guarda. Serio. Sento freddo alla schiena. Perché uso una Opel Corsa grigia vecchio modello. E quello nella pizzeria la settimana prima ero proprio io. Luca sorride. Non ti preoccupare, dice, li ho fermati.
Ci salutiamo così. Luca si rimette il piumino rosso. Odora di stufa a legna. Il padre, con i soldi dei figli, ha fatto costruire uno chalet di abete accanto alla solita roulotte. Ma il riscaldamento è sempre lo stesso. Legna umida. E tanto fumo. Il mese dopo mi richiama. Una telefonata inaspettata. Domenica 1° dicembre a San Siro si gioca Inter-Milan, il derby di andata. Luca sta cercando due biglietti. Uno per sé, uno per la fidanzata. Ti ricordi che sono milanista, l’ho convinta a venire allo stadio, ride al telefono. Mancano tre giorni alla partita. I posti sono esauriti da settimane. Non ho mai saputo se sia riuscito ad andare a quel derby. Giovedì 12 dicembre la radio in redazione è accesa sulla frequenza dei carabinieri. Poco dopo le sette di sera la centrale operativa invia tutte le auto disponibili nel quartiere del Fortino. Attenzione, fate attenzione, ripete l’operatore, segnalati numerosi colpi d’arma da fuoco. Passano dieci minuti di silenzio. All’undicesimo minuto, un capopattuglia richiama la centrale. Centodieci, esordisce secondo la fraseologia in codice. Avanti, risponde freddo l’operatore. Il capopattuglia snocciola nome, cognome, luogo e data di nascita. Ha venticinque anni. È deceduto sul posto, informano via radio. Io e Luca avevamo la stessa età.
E allora perché adesso sento freddo alla schiena, alle mani? Perché il gelo mi corre sotto i piedi, su fino alle caviglie, fino alle gambe? Questo pallone gonfiato travestito da dirigente della polizia non può farmi paura. Non posso uscire da questa stanza, la sua stanza, lasciandogli la soddisfazione di avermi spaventato. Lui ha smesso di guardarmi in silenzio. Ha ripreso la sua patetica cantilena.
Io lo dico per te. Non puoi non tenere conto delle possibili conseguenze del tuo lavoro, continua il funzionario. Te lo dico come consiglio. Se ti succede qualcosa, noi, i miei colleghi non saprebbero…
Proprio adesso ho la conferma che ho sbagliato a sospettare di Luca e del suo amico Rocco. La telefonata, i cavi strappati tre volte, lo sterzo manomesso non sono roba loro. Non possono essere opera loro. Luca me l’avrebbe detto. Gliel’ho chiesto quel martedì in redazione. Non ne sapeva nulla. E non aveva più ragione di mentire. No, loro sparavano. Conoscevano soltanto l’uso dei ferri. Luca l’ha confermato raccontandomi la storia della pizzeria. Rintracciare un numero di telefono riservato e intestato a un’altra persona, spegnere l’illuminazione stradale, mandare una macchina fuori strada sono lavori raffinati. Da gente esperta e ben introdotta. Non ci si dovrebbe stupire. L’inchiesta sul Fortino della droga ha rotto equilibri inconfessabili. Da allora la polizia ha arrestato due dipendenti. Due agenti che lavoravano nello stesso quartiere di Luca e Rocco. C’è poi l’ispettore, quello che ha rinunciato a incassare la taglia. Anche lui in stretto contatto con la ’ndrangheta. Ci sono tutti gli altri corrotti, chissà quanti sono, che non sono mai stati scoperti. E c’è questo pallone gonfiato, appena spuntato dal sottobosco. No, non è solo un consiglio il tuo. Se lo fosse, non avresti chiamato gente onesta quei commercianti. Da poliziotto te ne saresti tenuto alla larga. Saresti rimasto perlomeno neutrale. Il tuo è un avvertimento. Una sottile minaccia. E forse anche la più pericolosa. Devo reagire. Devo uscire di qui lasciando te con le spalle al muro. C’è un modo soltanto per farlo. Hai ragione. Non si può non tener conto delle conseguenze del proprio lavoro. Si vede che sei soltanto un passacarte. Non un bravo sbirro. Ti stai giocando la carriera per così poco. Non fa più freddo.
Scusami se ti interrompo.
Prego, dice il dirigente di polizia e si appoggia allo schienale della sua comoda sedia.
Tu non tieni conto di un particolare.
Quale particolare?
Che qui di fronte a te non hai una persona.
Cioè?
Qui di fronte a te hai il giornale per cui lavoro.
E cosa c’entra questo?
C’entra, perché tu per primo devi pregare che non mi succeda nulla. Devi pregare non solo che qualcuno non venga a spararmi, ma che nessuno mi torca un capello. Devi anche sperare che io per sbaglio non scambi un graffio alla macchina o una foratura per un avvertimento. Perché tu sarai il primo a pagarne le conseguenze.
Mi spiace che tu ti offenda, dice il funzionario di polizia e guarda fuori della finestra.
No, non hai capito. Non mi sono offeso. Perché tu non mi hai insultato. Non me. Se mai stai insultando la divisa che porti e che portano ogni giorno migliaia di poliziotti perbene. Guarda caso il tuo consiglio mi arriva oggi. Proprio mentre stavo cercando i nomi di due funzionari che, dai tuoi commercianti onesti, si sono fatti regalare il servizio floreale al matrimonio. E forse anche tutta la cerimonia. Lo sai che credo di aver scoperto chi sia uno dei due?
Il primo dirigente mi guarda dritto negli occhi.
Il particolare di cui tu non tieni conto è che se io voglio parlare con il capo della polizia, lui mi riceve. Tu no, tu sei obbligato a rispettare la gerarchia. E se scavalchi la gerarchia, ti rovini. Vedi, ho detto capo della polizia, non magistratura. Perché se vado in Procura non ho testimoni, è la mia parola contro la tua. E tu lì sicuramente mi smentisci.
Il primo dirigente continua ad ascoltare. Non parla più.
Se invece vado direttamente dal capo della polizia, è vero che non ho testimoni. Ma il sospetto rimane. E tu sai bene che nel tuo ambiente, quando si tratta di promuovere o distruggere qualcuno, il sospetto vale quanto una prova.
Rimaniamo a guardarci in silenzio. Mi scappa un sorriso.
Non andrò dal capo della polizia. Non adesso, almeno. Dipende da quello che faranno i tuoi amici, i commercianti affermati come li chiami tu. E da quello che farai tu, ovviamente. Il tuo futuro da oggi è nelle mie mani. Se non ti va bene la proposta, puoi protestare con il direttore del mio giornale. Se lo farai, naturalmente gli racconterò tutto. E il direttore, stanne certo, mi farà scrivere.
Lui resta immobile sulla sedia. Non replica. Non dice più nulla. È ancora più goffo di quello che appare. Sento i suoi occhi addosso, mentre mi alzo e vado alla porta. E quando mi volto per richiuderla, lui abbassa lo sguardo sui fascicoli aperti sotto la lampada accesa della scrivania.