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Ti volevamo gambizzare
Rocco, si concentri per favore.
Sono concentrato. Se le ho detto che non ho partecipato alla sparatoria è perché non ho partecipato.
Qui c’è una relazione dei carabinieri che sostiene che lei ha partecipato.
Infatti mi hanno arrestato e dopo qualche giorno mi hanno dovuto rilasciare perché non c’era una sola prova contro di me.
Se non hanno trovato prove, non significa che il reato non sia stato commesso…
Minchia, oggi parliamo due lingue diverse. Ed è solo lunedì. Quattordici novembre, dice il calendario degli sbirri sulla scrivania del magistrato. Accanto ai giorni del mese, c’è la foto di un agente in divisa. Il magistrato è sempre quello che mi segue, quello con la barba fatta di fresco. Oggi mi interroga lui e non la magistrata. Però se ti dico di no è no. Il poliziotto che verbalizza al computer ha capito. Mi ha sorriso. È dalla mia parte. Stamattina quello che non è concentrato non sono io. È il sostituto procuratore. Mi guarda e fa passare tra le dita una biro di plastica trasparente. Ha i polsini della camicia azzurra perfettamente abbottonati. La cravatta blu. La giacca a quadri appesa all’attaccapanni, accanto al suo giubbotto pesante. Ha fatto un’altra domanda. Mi guarda e aspetta la mia risposta.
Dottore, voi per sapere quello che succedeva nel Fortino non dovete ascoltare i carabinieri. Loro si facevano vedere ogni tanto, solo se qualcuno li chiamava. Il Fortino era zona della polizia. E non tutti i poliziotti erano uguali nei nostri confronti. Non so se mi sono spiegato. Se voi volete avere conferma di quello che succedeva nel Fortino, c’è un solo poliziotto da sentire. L’unico che ci stava veramente addosso. Ed è per questo che qualcuno di noi aveva anche pensato di stenderlo… Di ucciderlo. Ci stava addosso. Non ci lasciava respirare. Lui e i suoi, quelli della sua squadra investigativa, erano sempre dove non te l’aspettavi. Uscivano all’improvviso da un cespuglio. Da una cantina. Addirittura dai bagagliai delle macchine parcheggiate. Soltanto loro riuscivano ad arrestarci. Ecco, per sapere cosa accadeva davvero nel Fortino, c’è una sola persona. Il sovrintendente…
Ma io le cose le voglio sapere da lei, Rocco. È lei che deve dimostrare la sua affidabilità. Per questo le chiedo di ripetere i dettagli della sparatoria del 2 marzo. Avete esploso quarantasei colpi contro le finestre di quei poveretti.
Hanno esploso, dottore. Non avete. Io c’ero fino al momento della lite con i veneti, il padre e il figlio, come ho già detto. Avevano tranciato la catena. Luca l’aveva fatta mettere al cancello per impedire che le macchine della polizia entrassero nel giardino tra i condomini, cioè nel cuore dell’attività del Fortino. I veneti volevano scaricare la spesa sotto casa. Luca, Ghiaccio e gli altri tre di cui ho già fatto i nomi hanno deciso che la trasgressione andava punita. Sono stati loro a sparare i quarantasei colpi contro le finestre dei veneti. Io non sapevo nulla. Dopo la lite per la catena tagliata, me n’ero andato per i fatti miei. Soltanto qualche giorno dopo ho saputo che Luca, Ghiaccio e gli altri erano scappati in montagna. E così ho collegato la loro fuga alla sparatoria di quel sabato.
Qui però il verbale dei carabinieri sostiene che anche lei è scappato, a piedi lungo la massicciata della ferrovia, dietro al Fortino per intenderci. E che si è nascosto dietro al cespuglio dove…
Sì, è andata così.
… dove l’hanno arrestata. Il verbale sull’episodio dice che lei è fuggito non appena ha visto arrivare i carabinieri, dopo la sparatoria. Per questo, Rocco, hanno pensato che lei fosse coinvolto.
Non è successo dopo la sparatoria, dottore. Ma qualche ora dopo. Non c’era bisogno di una sparatoria per scappare. Io scappavo sempre quando vedevo gli sbirri.
Come dice?
Mi scusi dottore, quando vedevo i carabinieri. E anche la polizia.
Va bene così, dice il magistrato. Le rileggo l’elenco dei suoi precedenti. Dobbiamo allegarlo alla relazione che invieremo alla commissione centrale per l’applicazione del programma di protezione. Lei è stato denunciato nel 1986 per furto in un grande magazzino insieme con…
Avevo quindici anni, dottore.
Denunciato, analogamente, nel 1987 per furto in un grande magazzino. Arrestato nel 1988 per spaccio di eroina. Denunciato nel 1988 per ricettazione…
E qui avevo diciassette anni.
Arrestato nel 1990 per spaccio di stupefacenti e detenzione di una pistola giocattolo e di un coltello. Poi c’è l’arresto da parte dei carabinieri per la sparatoria di cui abbiamo parlato.
Ma mi hanno rilasciato quasi subito.
Controllato nel 1991 nel Fortino. Altro controllo nel 1991 nel Fortino…
Questo era il sovrintendente del commissariato.
Denunciato e condannato per stupefacenti nel 1993, quando era già in carcere. Dal suo certificato penale, inoltre, risultano una condanna per reati in materia di stupefacenti nel 1990 ad anni uno di reclusione. Un’altra condanna ad anni uno di reclusione in materia di stupefacenti, reato commesso nel 1991. Una condanna ad anni uno di reclusione in materia di stupefacenti, anche questo reato commesso nel 1991. Una condanna per tentata estorsione continuata, commessa nel 1990, fanno altri due anni di reclusione. Una condanna per un furto commesso nel 1991, mesi due di reclusione. Poi ci sono i tre anni e quattro mesi per le lesioni personali con l’aggravante dell’uso di un’arma da sparo.
Sì, la condanna che sto scontando.
Ecco Rocco, alza la testa e sorride ironico il magistrato, ha passato più tempo in carcere che fuori.
Guardi che molte di quelle condanne non sono ancora definitive, oppure sono state sospese.
Abbiamo dimenticato qualcosa?
Lei dottore mi sta chiedendo di peggiorare la mia situazione rivelandole se esistono altre condanne contro di me?
L’ufficio del pubblico ministero deve contare sulla sua affidabilità, risponde lui.
No, credo che non abbia dimenticato nulla. Addirittura, lei è più informato di me. Dei furti ai grandi magazzini proprio non mi ricordavo.
La saluto, per oggi abbiamo finito, conclude l’incontro il magistrato.
Il poliziotto al computer telefona a qualcuno e dice poche parole sottovoce. All’improvviso entra a prendermi la scorta. Torniamo in carcere. Con la solita procedura di sicurezza. Questa volta però non andiamo a Parma. Non andiamo più a Parma. Da qualche settimana la mia nuova casa è il carcere di Busto Arsizio. Sempre in isolamento. Per la mia protezione personale, dicono gli sbirri. Busto Arsizio è a una quarantina di minuti di traffico dal Palazzo di giustizia di Milano. Meglio dell’ora e mezzo di autostrada per Parma. Si sente lo sferragliare dei treni dalla mia cella. C’è un’aria diversa. O forse, più semplicemente, sono io diverso. Il trasferimento in un altro carcere è stato un segnale importante, hanno detto. Un segnale per dimostrarmi che lo Stato crede a quello che sto raccontando. La dimostrazione che hanno bisogno di me. È successo qualcosa di unico poco fa, Luca, quando il magistrato leggeva i miei precedenti. Davvero qualcosa di nuovo. Non mi sono sentito fiero. Per la prima volta, dentro di me, non mi sono vantato di me stesso, di noi, del Fortino. Per la prima volta, dentro di me, mi sono vergognato. Davanti al volto del magistrato che elencava il mio passato, ho sentito lo schifo di quello che abbiamo vissuto, Luca. C’è soltanto un fatto di cui sono fiero, di cui mi vanto. Di cui sono orgoglioso, perché dipende da una mia scelta precisa. Questo sì. È il fatto che nell’elenco dei miei precedenti il sostituto procuratore non abbia trovato il reato di omicidio. Non l’ha trovato perché non esiste. Perché io, come te, al momento di ammazzare qualcuno, anche se dal nostro punto di vista ne avevamo le ragioni, ho deciso di non farlo. Abbiamo deciso di salvarli quei due. Io quella puttana di Alex. Tu l’assassino di Ghiaccio. Forse, Luca, devo correggere ciò che hai detto una volta. Forse la peste non siamo noi collaboratori pentiti. Minchia, mi si chiude ancora lo stomaco non appena pronuncio nella mente queste due parole. Collaboratori e pentiti. Ma la malattia non siamo noi, Luca. Non sono io, che ho deciso di rivolgermi alla legge. La peste è quello che abbiamo vissuto, è quello che abbiamo fatto vivere agli altri. E non ce ne siamo nemmeno resi conto. Credevamo che il mondo fosse così. Accecati dai nostri interessi, non conoscevamo alternativa. Il mondo fuori del Fortino non ci apparteneva. Adesso quel mondo ha bisogno di noi, Luca. Guardo gli sbirri che mi scortano. Hanno poco più dei miei anni. Sono così pisciaturi, così inesperti, che sono andati a ficcarsi nel traffico immobile del pomeriggio. Hanno acceso la sirena e nessuno ci fa passare. Parlano poco questi. Non che gli altri che mi portavano a Parma fossero allegri. Ma questi sono sempre in silenzio. Ogni volta arriva qualche faccia diversa. Per questo non voglio legare con loro. Non sanno nulla di noi. Senza il nostro contributo di appestati, gli sbirri non saprebbero nulla. Solo grazie a noi possono vincere la loro guerra. E noi, Luca, possiamo vincere la nostra.
L’inverno nel carcere a Busto Arsizio sembra addirittura meno freddo. Forse perché qui la prigione è più piccola del supercarcere di Parma e il riscaldamento funziona meglio. Forse perché io adesso ho un progetto davanti a me. Forse solo perché so di essere importante per qualcuno. E quel qualcuno è addirittura un magistrato della Repubblica. Anzi, sono due. Non mi ero mai sentito davvero importante. Nemmeno da bambino. E come potevo? L’unica cosa nitida che ho presente della mia infanzia è quel volo dal balcone. Anche la primavera è più luminosa. I mesi corrono in fretta, qui. Se solo potessi essere più sicuro di me. Se solo mi facessero una cura. Continuo a bere Valium come prima bevevo birra. Mi distrugge. Mi fa dormire giorni interi. Soltanto il giorno prima dell’incontro con i magistrati, evito di buttarmi giù. E al ritorno da Milano, nelle ore che seguono, quando mi rendo conto della noia del sonno continuo, affondo il bordo sottile della lametta dentro la mia pelle. Mi faccio del male, sì. Ne sono consapevole. Serve a tenermi vivo. Il bruciore affilato dei tagli sugli avambracci, l’odore del sangue mi ricordano che sono vivo. È come se nella mia nuova vita avessi bisogno di cambiare pelle. Di togliermi quella vecchia. Gocciolo sangue sul pavimento. Come adesso. Il sangue era il senso della nostra vita nel Fortino. E lo è ancora. Grazie al sangue, il mio sangue, rosso e caldo, posso uscire dalla cella. Posso annusare l’odore fresco di disinfettante dell’infermeria. La saletta dell’infermiere è il mio luogo di vacanza. È Pasqua. Gli sbirri del carcere sono quasi tutti in ferie. Anche i detenuti. Molti sono fuori. Sono andati a casa in permesso. Lo si capisce dal silenzio nel corridoio. E anch’io voglio prendermi due giorni di ferie dalla mia minchia di cella.
Stamattina gli sbirri che mi scortano sono un piccolo plotone. Ce ne sono quattro o cinque anche della squadra mobile. Sono venuti a prendermi all’alba. Dicono sia uno dei momenti più importanti della mia collaborazione. Il sopralluogo. Mi hanno chiesto di riconoscere e indicare strade e indirizzi che ho tirato in ballo nei verbali. Ad esempio il condominio dove abita Faccia d’Angelo. Ed è un piacere cominciare da chi ti ha tradito, Luca. Poi i palazzi dove abitano o abitavano gli sgherri, quelli nostri e quelli dei Compari. Ho mostrato il nascondiglio dove mi hanno consegnato un chilo di stupefacente. Minchia, Luca, la lingua degli sbirri è contagiosa. Ora dico stupefacente. Non droga, eroina, coca. Siamo passati dalla via dove tu non hai ucciso l’assassino di Ghiaccio. Ho indicato il marciapiede dove io non ho ammazzato quella puttana di Alex. E mi hanno portato davanti al Fortino. Non lo rivedevo da quella sera, Luca, la tua sera. Adesso che non ci siamo più noi, l’hanno ristrutturato. Ti ricordi come cadeva a pezzi? Ora le nostre case bianche sembrano nuove. Le hanno ridipinte. Sono di un giallino cacca. Non è un bel colore. Ma almeno le hanno rimesse a posto. Lo sai che hanno addirittura riaperto la portineria? Sì, nell’appartamento abbandonato dove noi piazzavamo le nostre sentinelle, adesso vive una portinaia. E il cancello, quello della lite con i veneti, non è più dov’era. L’hanno spostato di qualche metro. C’è addirittura un cartello che dice che è vietato l’ingresso alle auto. Minchia, Luca, forse c’era davvero bisogno di sparare quei quarantasei colpi. Alla fine ci hanno dato ragione. Vedessi la recinzione, ti ricordi com’era arrugginita? L’hanno verniciata da poco. È pieno di colori il giardino. Grandi cespugli di fiori rotondi come palloni di calcio. Le aiuole sono curate. Le tapparelle lucide. Mettono addirittura le lenzuola ad asciugare alle finestre. Se noi fossimo cresciuti con tutta questa attenzione intorno, forse non saremmo diventati gli appestati che siamo stati, Luca. Mi hanno detto che da qualche tempo anche gli sbirri abitano nel Fortino. Sono ancora case popolari. Ma una percentuale degli appartamenti viene assegnata a poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili urbani. Manca solo l’esercito. Chissà cosa dice mia madre. Vive ancora qui e non la vedo da allora. Non mi portano da lei. Non possono. Per la mia sicurezza, ovvio. Lei sa della mia scelta e non l’ha presa bene. Ma te la immagini, Luca, mia madre vicina di casa di uno sbirro? Fa’ un po’ te. Io non me la immagino proprio.
Dalla macchina blindata non si scende. Due poliziotti davanti. Due dietro. Io in mezzo a quelli dietro. L’autista appartiene alla solita scorta silenziosa. Gli altri tre sono suoi colleghi della squadra mobile. Nessuno è in divisa. Nessuno da fuori deve capire cosa sta succedendo. Io guardo dal finestrino. Indico con il dito. Ricordo date. Rivelo circostanze. Ripeto i nomi. Lo sbirro seduto accanto all’autista prende appunti. Hanno anche una macchina fotografica, se mai dovesse servire. Fa impressione rivedere il Fortino.
È come se le sbarre della cancellata fossero i fotogrammi di un film. Il nostro film. C’era una volta il Fortino. Come quando abbiamo visto insieme C’era una volta in America, Luca. Tu dicevi che sembrava la nostra storia. Avevi ragione. Quei ragazzini che cominciano con l’edicolante, quando lo puniscono perché non paga. Poi quello che viene sparato e l’altro che ammazza il poliziotto. Solo che lì c’era vera amicizia. Da noi, Luca, hai visto com’è andata a finire. L’amicizia si è volatilizzata. E adesso perché lo sbirro si è voltato a guardarmi?
Andiamo in piazza, dice quello, se la sente?
Andiamo.
Lo sbirro chiama via radio la centrale. Si qualifica e chiede il supporto di una volante. Luca, adesso ritorno sul posto dove ti ho visto l’ultima volta. La nostra auto blindata esce piano dalla strada del Fortino. Supera barcollando i binari del tram e gira a sinistra. Dietro riappare l’altra auto di scorta. Ci segue. Gli sbirri sono tesi. Continuano a guardarsi intorno. Quello davanti tiene un mitra M12 sdraiato sotto il cruscotto. Il mitra che spara a ventaglio. Ha il caricatore inserito. Con quello è impossibile mantenere la mira. È una follia che lo usino come arma di difesa. È un mitra d’assalto. Non è preciso. Troppo leggero per usare la raffica. Pisacane lo diceva sempre. Se sparano a un criminale rischiano di ammazzare il primo bambino che passa. La nostra auto rallenta ancora. La piazza adesso è davanti a noi. La volante è discretamente ferma lungo il marciapiede opposto al nostro.
Li vedete i colleghi? Hanno comunicato di essere già sul posto, gracchia all’improvviso la radio.
Affermativo, li vediamo, risponde lo sbirro accanto all’autista.
Facciamo il giro della piazza. Chiudo gli occhi per un istante. Risento il sottofondo di voci. Le grida di tuo padre. Gli spari dei lacrimogeni. L’odore che ti brucia negli occhi. Il freddo gelido di quella sera di dicembre. Ti rivedo Luca. Ti rivedo per terra, pieno di buchi e sangue. Riapro gli occhi. Siamo fermi davanti alla beffa del cartello sotto cui ti sei accasciato. L’insegna appuntita a destra, con la scritta Cimitero Maggiore. È ancora lì. Se non mi avessero preso quella sera, Luca, l’avrei abbattuto a calci il cartello. Era la prima cosa da fare. In tuo nome. E nessuno l’ha fatto. Non solo ti hanno ucciso. Ti hanno anche preso per il culo. Sparandoti proprio lì, sotto l’indicazione della strada per il cimitero. Ci hanno presi tutti per il culo. Ma vedrai adesso che bella fine faranno. Potranno anche uccidermi, ora. Ma non uccideranno tutti i magistrati. Tutti gli sbirri. Non potranno uccidere le mie parole che ho consegnato a pagine e pagine di verbali. Sono sicuro più che mai della mia scelta. Hanno paura di me, Luca. La prova è il numero di agenti che mi hanno messo intorno. Non se l’aspettavano che un pisciaturo come me sopravvivesse e raccontasse tutto. E sai, mi sono chiesto tante volte cosa avrei provato nel rivedere il luogo della tua morte. Rabbia. Dolore. Voglia di vendetta contro il Calabrese. Contro Faccia d’Angelo. Contro quel cagasotto di Coscia. No, non sto provando questo. Sto invece…
Non possiamo fermarci per troppo tempo qui, avverte il poliziotto seduto alla mia destra.
La sua voce distaccata mi riporta alla realtà. A questo mercoledì di maggio. Al primo sole caldo che ci fa gocciolare di sudore dentro le lamiere blindate. Ai giganteschi platani con le loro foglie verdi di primavera che fanno ombra all’aiuola dell’omicidio. Alle facciate dei palazzi ingrigiti dallo smog su cui in cinque anni si è riflessa la nascita della banda del Fortino. E anche la sua morte. La tua morte, Luca.
Se è in grado di ricordarlo, aggiunge lo sbirro seduto davanti, ci dovrebbe dire cosa è avvenuto qui.
Anche se fa sempre più caldo, tengo le maniche della felpa abbassate. Per pudore. Perché non vedano come mi torturo le braccia. Forse, se le vedessero, non crederebbero più in me. O forse è normale che un detenuto si torturi le braccia e loro sono abituati. Non riesco a rispondere subito. Penso prima alla sensazione della lametta quando mi penetra la pelle. Ricordo lo strappo nella carne che l’asfalto di questa piazza ha stampato dentro di me la prima volta che sono caduto in motorino. Riprovo il disorientamento nello stomaco e nella testa, quando ti ho visto a terra, Luca, con le gambe snodate, piegate in modo innaturale. Nella mia bocca non c’è più aria, non c’è più saliva. Per questo non rispondo ancora. Rivedo il momento quando io, te, tuo padre e il Calabrese ci siamo incontrati per fare pace. Davanti al bar all’angolo tra la piazza e la strada dei tram. Proprio questo bar, qui di fronte a noi. Rivivo l’istante esatto quando il Calabrese ti ha dato la pacca sulla spalla. Come si fa tra amici. Era invece il gesto di un giuda tra i giuda. Proprio su questo marciapiede, lungo il quale si è accostata la nostra Alfa Romeo blindata. Di quell’appuntamento, gli unici rimasti vivi siamo io e il Calabrese. Un ragazzo di ventitré anni e l’attuale numero uno della ’ndrangheta in città. Il bar dell’incontro è alla nostra destra. Il cartello del Cimitero Maggiore esattamente a sinistra. Dentro il semplice movimento dello sguardo, scorrono gli ultimi tuoi passi, Luca. Tu che esci dal bar. Attraversi tranquillo la strada. Raggiungi l’aiuola centrale. E non hai nemmeno il tempo di metterti al riparo. Ti hanno sparato più o meno da dove siamo noi adesso. Gli sbirri vogliono che riconosca proprio questo. Il bar dell’incontro. E il punto esatto in cui ti hanno ammazzato. Una formalità, dicono. Per dimostrare che racconto fatti di prima mano.
Non appena sentono le mie risposte, ripartiamo. Via radio la centrale conferma che ha smobilitato la volante. Era rimasta nella piazza, di rinforzo alla scorta. L’agente seduto alla mia sinistra mi offre una sigaretta e l’accendino per accenderla. Forse capiscono che per me tornare al Fortino e poi nella piazza non è solo una formalità. Restano in silenzio per tutto il viaggio. Fino al sotterraneo del Palazzo di giustizia. Ci sono i verbali da compilare. Sopralluogo cominciato alle ore. Terminato alle ore. Le mie risposte da trascrivere. Le firme da aggiungere. È ormai pomeriggio. Mi portano un panino che uno dei miei angeli custodi ha comprato al bar. Gli sbirri della squadra mobile hanno salutato e sono tornati in questura. È sera, ma fuori è ancora chiaro. Finalmente mi riportano in carcere. Guardo le macchie sul soffitto. Mi viene voglia di strapparmi la pelle. Di tagliarmi. Ma cerco di resistere. Devo resistere. La notte arriva presto. Non mi tolgo nemmeno i vestiti. Crollo dal sonno. Addirittura senza Valium.
Luca, oggi è il grande giorno. Ti saluto. E no, che non ti saluto. Tu vieni con me. Ho solo una borsa. Ma ci farò stare tutto. Non ho molto da portare fuori. Me ne vado. È santa Faustina oggi, ha detto ieri il cappellano che è venuto a darmi la benedizione. Faustina, vedi che se ti acchiappo non sarai più santa. Altro che benedizione. Sono quasi tre anni e otto mesi che sono dentro. Se ti metto le mani addosso, Faustina, sentirai di cosa è capace un carcerato. Meglio non pensarlo. Fa male. E poi il cappellano ha detto che pregherà per me. Se penso a queste cose, le preghiere mi portano dritto all’inferno. Aprono la porta di ferro. Si affaccia il maresciallo degli sbirri.
Buongiorno Rocco, oggi è mercoledì 30 agosto. Cosa le ricorda?
Santa Faustina.
Quello non si aspettava una risposta da suora. Scoppia a ridere. Rido anch’io. Ormai con gli sbirri non solo ho scoperto che si può parlare. Ma addirittura scherzare. In fondo, questi che lavorano nelle galere, Luca, non sono diversi da noi. Si sono arruolati per non diventare come noi.
Andiamo, l’ispettore della squadra mobile l’aspetta alla matricola, avverte il maresciallo.
È come se mi togliessi un vestito. Un vestito pesante. Come quando alla fine dell’inverno si smette di infilare il cappotto. È che oggi siamo quasi alla fine dell’estate. Non mi sono nemmeno voltato a guardare la cella. Il corridoio e la rassegna di porte di ferro sfilano a destra e a sinistra delle mie spalle. Il 20 luglio, è scritto nel verbale che mi hanno consegnato, la commissione centrale del ministero dell’Interno ha deliberato il programma speciale di protezione del collaboratore della giustizia Rocco eccetera eccetera. Decorrenza dodici mesi, dal 30 agosto 1995. Ho una sensazione di sollievo. Di forza. Sono uscito dal carcere altre volte. Ma non è mai stata come questa. Lo so, Luca, non è ancora finita. Il percorso è lungo. C’è il processo. Ci sono loro da guardare in faccia mentre ripeterò in aula le accuse. Ma stavolta non mi chiedo quando ci ritornerò in cella. So che mi aspetta una vita nuova. Una vita regolare. Se si può chiamare regolare la vita di uno che dovrà rimanere nascosto, muoversi scortato e aspettarsi che da un momento all’altro gli sparino un colpo in testa. Alla faccia dell’ispettore della squadra mobile che mi stava aspettando. Qui c’è quasi tutto il suo ufficio. Scorta rinforzata. Si va lontano. Non mi hanno ancora detto dove. Me lo diranno durante il viaggio.
L’ispettore è quello che ho visto di più in questi ultimi mesi. Un bravo ragazzo. Un po’ grosso, ma non alto. I capelli mossi lunghi sulle orecchie. La pancia rotonda. La maglietta blu scuro con il coccodrillo finto all’altezza del cuore. Il marsupio a tracolla dove sicuramente nasconde la sua calibro 9. Mi sorride. Mi stringe la mano. Devo prima occuparmi delle pratiche. Quelle di uscita. E poi ritirare le mie cose. Come la cintura, anche se me ne sono procurato un’altra. Adesso ho due cinture. Quella nel sacchetto di cellophane la regalo allo sbirro dell’ufficio. Lui ringrazia.
Saliamo sulla solita Alfa Romeo blindata. È sempre la stessa. Ma come fa a non cadere a pezzi? E poi usare sempre la stessa macchina non è sicuro. Se io fossi dall’altra parte, sarebbe facile sapere contro chi sparare. L’ispettore, seduto a destra dell’autista si volta e sorride. Fa lui la domanda.
Dove andiamo?
E lo devo dire io dove andiamo?
Dove vuole andare?
E dove si va a fine agosto? Al mare, gli rispondo.
Indovinato. Destinazione Pescara.
L’ispettore spiega anche che, una volta arrivati, sarò consegnato ai miei nuovi referenti in questura. Probabilmente mi ospiteranno in un residence. Come prima sistemazione. Mi daranno una parte del compenso mensile perché possa comprarmi qualche vestito e qualcosa da mangiare. E avrò degli orari ristretti durante il giorno nei quali uscire. La sera mai. È vietatissimo uscire la sera. Sorrido per ringraziarlo. Lui torna a guardare avanti. E non parliamo più per quasi tutto il viaggio. L’autostrada fino a Bologna. Poi quella stecca lunga e impregnata di asfalto e afa che arriva a Rimini. Ti ricordi, Luca? La moto che urlava al massimo dei giri. Noi schiacciati dietro il cupolino che a quella velocità bastava alzare il casco per essere strappati via. Rimini. Magari mi avessero ospitato a Rimini in questa stagione. Sai quante sante Faustina mi sarei benedetto. Pescara. Non sono mai stato a Pescara.
Mettendoci la sosta per un panino e un caffè, dicono che ci vorranno quasi sette ore. C’era traffico dopo Rimini. Loro sbuffano. All’autogrill evito di scendere. Ho imparato a tenermela. Quando devi sparare a qualcuno come a quella puttana di Alex e gli fai la posta, mica puoi andare al cesso se ti scappa. Già, ma adesso me lo potrei permettere. L’ispettore mi avrebbe accompagnato. Non mi ha nemmeno messo le manette. Quando si sono fermati, hanno addirittura lasciato aperta la portiera dalla mia parte. Un tempo sarei fuggito come una lepre. Ma adesso dove vado? La cosa che mi stupisce è che di scappare non ci penso nemmeno. Sono davvero cambiato, Luca. Oppure ho semplicemente spostato le sbarre della mia vita al di fuori del carcere. Semplicemente un po’ più in là. Ciascuno di noi ha le sbarre della sua vita. Sbarre invisibili. Quella serie di obblighi, abitudini, magari anche piaceri, oltre i quali non ci si spinge. Minchia Luca, l’aria del mare è così buona che sto diventando un filosofo. Eppure è proprio così. Anche se noi, nel nostro Fortino, le sbarre della nostra vita non le abbiamo mai avute. E forse è proprio questo avere o non avere le sbarre, a fare la differenza tra un regolare e un criminale.
L’ispettore quando ha aperto la portiera mi ha guardato. Ha anche guardato i miei polsi liberi. Ha sorriso. Ha immaginato cosa stessi pensando. E io non lo stavo pensando affatto. Almeno, non in quel momento. L’ho pensato un po’ dopo. Quando gli ho sorriso anch’io. Ci capiamo soltanto guardandoci. Un po’ mi spaventa. Si vede una montagna, lontano a sinistra.
Che montagna è quella?
Il Conero, risponde uno degli agenti, il più sudato di tutti.
E dov’è?
Lui ride. Come dov’è? È qui.
Dove siamo?
Siamo vicini ad Ancona. Non manca molto, ammette lui.
Meglio rinchiudermi sul sedile. Rinchiudermi in me stesso. Mi dà fastidio che uno sbirro mi prenda per il culo. Non riesco a considerarlo un ragazzo che ha voglia di scherzare. Forse dovrò guardare le cose, le persone in modo diverso. Non posso immaginare un omicidio ogni volta che qualcuno mi fa andare la saliva di traverso. No, non dico proprio un omicidio, anche solo l’idea di spaccargli la faccia. È sempre uno sbirro.
In questura a Pescara fanno le cose in fretta. Non hanno voglia di perdere tempo. Mi presentano i miei due referenti. Un sovrintendente e un agente della squadra mobile. Mi portano davanti al loro ufficio. Il sovrintendente si rigira nelle mani una bustona. Su un lato, il timbro. Riservato, si legge. C’è tutta la mia storia lì dentro. Come un malato ha la sua cartella clinica che lo segue ovunque. Anche noi appestati abbiamo la nostra scheda. L’ispettore l’ha portata da Milano e l’ha consegnata ai colleghi di qui. Gli stringo la mano. A lui, l’ispettore, e agli altri che mi hanno accompagnato. Loro tornano su al Nord, a casa. Entriamo nell’ufficio e non mi fanno nemmeno sedere. Capiamo subito che ci stiamo profondamente sui coglioni. A prima vista. Non sarà facile, Luca. Questi due mi guardano con l’aria di quelli che ti stanno facendo un favore. Di quelli che prima o poi mi diranno, come è già successo, che loro non sono entrati in polizia per fare da albergatori ai pentiti. Che poi, in quanto pentiti, siamo e resteremo degli infami. Ecco, se fosse per questo tipo di sbirri, Luca, io sarei rimasto dov’ero. A costo di farmi ammazzare. Ma non sono tutti così. Quelli che la pensano così, non hanno capito una beata minchia. Senza di noi, senza gli infetti come me che hanno deciso di collaborare, gente come il Calabrese sono e saranno sempre più invincibili. Sempre.
Mi portano al residence. Più che un residence, mi sembra una pensione da mignotte. Bene, almeno riprendo le vecchie abitudini. Mi sono sbagliato. Invece della solita ragazza, alla reception c’è un vecchio. Tutte le chiavi sono appese dietro di lui. Ha l’aria di essere una pensione vuota. Fanno tutto i due sbirri. I documenti. Le formalità. Salgono anche loro in camera. Controllano nel bagno. Aprono la finestra e guardano fuori. Da qui, dal quarto piano, tra le due schiere di palazzi in fondo alla via si vede l’azzurro in un rettangolo di mare. Il sovrintendente mi consegna due buste. Dice che in quella sigillata e timbrata c’è un anticipo dei soldi che i colleghi milanesi gli hanno consegnato. Nell’altra trovo il numero di telefono di emergenza. Lo devo imparare a memoria. Risponde il centralino della questura. In caso di necessità devo chiamare e chiedere di lui. Di Giorgio. Non so se sia il suo vero nome. Quando si sono presentati, non ho capito cosa mi hanno detto. Per la verità non capisco mai una minchia, quando uno si presenta. Se ne vanno subito. Luca, adesso mi faccio una bella doccia. Una doccia solo per me. Con l’acqua calda. Per tutto il tempo che voglio. Ci pensi? Questo è il premio che mi danno per aiutare gli sbirri ad arrestare i tuoi assassini. Mi sento strano, sai. Forse è l’aria. Troppa aria fresca. Quella ti ubriaca, altro che. Il letto è morbido, sì. Comodo. Fanculo la doccia.
Fa freddo. Una brezza fresca fa sventolare la tenda. Ho dormito con la finestra completamente spalancata. Bella misura di sicurezza. Fuori c’è un vento pazzesco. Scende dalle colline e si incanala nella via che porta al mare. O almeno a quel rettangolo di mare che si vede in fondo. Adesso non è più azzurro. È di una luce abbagliante. Il sole sorge da quella parte. Ma che ore sono? Le sei e mezzo passate. Minchia, Luca, ormai dormo come un vecchio. Dal tramonto all’alba. Anzi no, i vecchi dicono che dormono poco. Un rincoglionito, sono. Dormo come un rincoglionito. E adesso la doccia non me la toglie nessuno.
Acqua calda. Al massimo. C’è pure lo shampoo dell’albergo. Che sollievo. Mi sento rinascere. La pioggia bollente sulla nuca aiuta i pensieri. Li scioglie dall’ammasso in cui aspettano di essere presi. Ecco, cosa fa un collaboratore durante la sua giornata? Aspetta. E cosa aspetta? Aspetta il momento in cui sarà chiamato a testimoniare al processo. E quanto aspetta? Adesso la risposta diventa davvero difficile. Prima cosa. Sono libero di uscire. Seconda. Ho qualche soldo. Posso intanto comprarmi le sigarette. Poi farò colazione al bar. Fino a quando non farò la spesa. E quale spesa? Nella stanza non c’è nemmeno un fornelletto. Farò colazione al bar. Dove? Boh. Qual è il posto, in una città che non conosci, in cui puoi sicuramente trovare un bar?
La pensione è triste, ma gli asciugamani sono profumati. O forse è solo un’impressione. Qualunque cosa che non sia la puzza del carcere, è un profumo. Maglietta e pantaloni della tuta puliti, oggi. Me lo merito. E adesso fuori. Minchia, ho chiuso la porta e la chiave è rimasta dentro. Il vecchio della reception è già al suo posto. O forse ha dormito lì. In piedi com’è. Mi viene da ridere all’idea.
Buongiorno, scusi, ho lasciato le chiavi chiuse in camera.
Buongiorno, non c’è problema, le faccio prendere io.
Non c’è problema.
Il posto dove trovare un bar aperto a quest’ora è soltanto uno. La stazione. C’è già casino. Forse perché è l’ultimo giorno di agosto. E c’è anche tanta gnocca. No Rocco, devi smetterla di pensare così. Ti farà male altrimenti. Perché adesso, con i rischi che corri, mica puoi metterti a fare il cascamorto con le sconosciute. A proposito, forse dovrò trovarmi un nome di copertura. Finché non me lo darà lo Stato. Con i nuovi documenti, alla fine del processo. Però quanta gnocca torna dalle vacanze. Bravi, è buono l’espresso del bar. La mia prima colazione da libero. O quasi libero. Ho pagato, bene. Ho comprato le sigarette. E adesso? Ho visto una panchina poco fa. Nell’atrio della stazione. È il posto più sicuro dove sedersi a pensare. Spalle al muro. La gente che cammina davanti. Posso controllare chi passa. Minchia, hanno fatto i lavori in grande qui a Pescara. Sembra una base spaziale. Vetrate a specchio. Gnocca ovunque. E poi quel piazzale fuori. È immenso. Sembra la pista di un aeroporto. Forse perché non sono ancora abituato agli spazi aperti. Ma attraversare quel piazzale mi ha fatto salire l’adrenalina. Non è facile tenere sotto controllo un posto così. Devo stare all’occhio. Ma nemmeno rovinarmi la giornata. Rocco, sei libero. Comportati da uomo libero. Più tardi provo a scendere al mare. C’è una farmacia. Ho voglia di un sorso di Valium. Bisogna aspettare che apra. Il mio programma di oggi è fatto. La farmacia. Poi un negozio dove comprare un po’ di vestiti. Mica posso tenermi addosso questa stoffa che puzza di carcere. E dopo, la goduria di un buon piatto di pesce. Ti meriti un ristorante. Il migliore della città. Me lo farò dire in farmacia qual è il miglior ristorante. E alla fine una bella passeggiata in spiaggia. Ci sarà una spiaggia a Pescara?
Settembre si presenta con un’infilata di giornate calde. I referenti mi controllano quasi tutte le sere. Uno resta in macchina. L’altro sale in camera a vedere se sono rientrato. Dicono che se voglio, posso anche scendere e stare nella sala tv. Ma via che minchiate alla tv non si vedono. Preferisco starmene in camera. Non mangio abbastanza. Mi tengo in piedi con il Valium. O meglio, mi tengo a letto con il Valium. Lo bevo a sorsi. Se prendessi le gocce nell’acqua, non mi farebbe nulla. Uno o due sorsi di Valium e resto tranquillo tutta la notte. Non è la paura che mi ammazzino ad agitarmi. Mi fa ancora paura la droga. In carcere se ne sono bellamente fregati del mio passato da tossicomane. Non è solo l’eroina a creare dipendenza. Quella ti annienta. Anche la cocaina dà dipendenza. Soprattutto come la prendevo io. Ed è quello a farmi paura. Ho paura che per solitudine, agitazione, disperazione, finisca a sniffarmi una dose. Non voglio più tornare quello che ero, Luca. Hai vinto tu. Il mondo senza gli occhiali colorati della droga è molto più bello. Lo so che tu me l’hai sempre detto. Ma dovevamo andare a sbattere per scoprirlo. E poi se mi beccano gli sbirri con la coca in tasca, adesso farei davvero una brutta fine. Mi aiuta a dormire il Valium. Ed è meglio dormire. Il tempo passa più in fretta. Il tempo tra me, ora, e il giorno in cui li guarderò negli occhi e ripeterò davanti al giudice il nome di tutti quelli che ti hanno tradito. Perché al processo il mio sguardo non sfiorerà mai il pavimento. Li guarderò negli occhi. Io non ho vergogna.
Lo si vede dalla gente in giro che oggi è sabato. Non hanno fretta. Quando non hai niente da fare per tutta la giornata, queste cose le percepisci più facilmente. E poi si vede che è sabato dal numero di barche a vela che escono dal porto. Guardo la vita degli altri scorrere. Un po’ come si guarda il fiume passare stando seduti sulla riva.
Rocco, che sorpresa.
Minchia, ma tu guarda se mi dovevano riconoscere due clienti. Due spacciatori di piazzale Corvetto. Due di quelli che venivano a rifornirsi al Fortino. Non ho vie di scampo. Se scappo, se torno indietro, quelli si insospettiscono. Luca, aiutami. Li affronto. E speriamo che non abbiano il ferro in tasca. Loro mi vengono incontro. Bermuda. Ciabatte. Canottiera rossa e l’altro bianca. I capelli rasati. L’orecchino obbligatorio al lobo sinistro. Che minchiata, la moda dell’orecchino. Sì, sono proprio quelli del Corvetto.
Ma tu guarda, Rocco a Pescara, sorride uno dei due. Che fai qui?
Quelli del Corvetto sono dappertutto.
Anche quelli del Fortino li trovi dappertutto. Come va?
Va.
Ma che fai qui?
Vacanza.
Anche noi. Dove dormi?
Minchia. E dove dormo? Perché uno parla e l’altro mi guarda soltanto? Si guarda intorno e mi guarda. Rocco, non ti fare fottere. Non perdere di vista le loro mani. Alla peggio ti butti in mezzo al traffico. Salti sul cofano di una macchina che arriva e rotoli dall’altra parte. Così se sparano, beccano la macchina.
Dove dormi, allora?
Da amici dormo… Sì, da amici.
Che combinazione.
Già, una sorpresa. E voi cosa fate qui?
Vacanza ti ho detto. Io pensavo che ti eri trasferito a lavorare qui.
No, no, non lavoro qui.
Peccato, la roba del Fortino era la più buona.
Lo era, sì.
Senti, noi dobbiamo andare. C’è possibilità che ci rivediamo?
Magari, non so. Io giro da queste parti. Però forse ci spostiamo.
Ciao, Rocco.
Finalmente anche l’altro sorride e saluta. Andate a fanculo. Pensa se dovevo incontrare proprio voi qui. Ora cammino per un chilometro e mi guardo le spalle. Nulla di strano, no. Per il momento no. Cammino fino al porto. Il mare a sinistra. La città a destra. Il porto davanti. C’è una cabina del telefono.
Polizia, buongiorno.
Buongiorno, mi passi Giorgio.
Chi parla?
Ma se ti devo dire anche il mio nome, che sicurezza è?
Prego, chi parla?
Rocco parla… Pronto.
Un momento, le passo l’interno.
Pronto?
Giorgio.
Sì?
Sono Rocco.
Rocco, buongiorno. Cosa succede?
C’è un problema. Mi hanno riconosciuto due di Milano. Due clienti nostri.
Due della sua organizzazione?
No, di un’altra organizzazione. Ma erano clienti nostri. Mi conoscono e sanno chi sono.
Dove si trova?
Vicino al porto. Prima del porto. Credo sia lungomare Matteotti.
Lungomare Matteotti, chiama dalle cabine?
Sì.
Ho capito dove si trova. Sono ancora lì quei due?
Non più. Mi hanno salutato e se ne sono andati.
Resti lì alla cabina. Veniamo a prenderla.
Giorgio arriva dopo appena cinque minuti. Non guida lui, ma un suo collega che non ho mai visto. Non hanno la faccia allegra. Forse stavano finendo il turno e io ho rotto i loro programmi per il pomeriggio. Dicono che dobbiamo andare in questura a verbalizzare. E partiamo mescolandoci nel traffico. Questa Fiat Tipo amaranto è così vecchia che si capisce subito che siamo una macchina di sbirri. Giorgio all’improvviso si volta verso di me.
Pensa la stessero pedinando?
Non lo so. Ma no, credo sia stato un incontro casuale. Forse non sanno nemmeno della mia scelta. Altrimenti me ne avrebbero parlato.
Conosce i loro nomi?
Be’, sì che li conosco. Poi se sono nomi veri o falsi, non lo so.
Quello lo vedremo noi.
Scritto e firmato il verbale, mi riportano in albergo. Fine della giornata. Fuori c’è un sole bellissimo. E io sono già chiuso in camera. La finestra aperta mi guarda e mi sussurra i suoni del traffico. Il telefono mi guarda. Lo specchio mi guarda. Riflette le mie gambe nude. Le mutande. Il mio corpo che affonda il suo peso nel materasso troppo molle. Quanto odio questo materasso. Con il caldo che fa, ti avvolge la schiena in un bagno di sudore. Il telefono. Gli sbirri hanno detto che non devo uscire. Nessuno ha detto che non devo telefonare. Sono anni che non sento la sua voce. Katia no, è sabato. O sta lavorando o sarà in giro con il suo ragazzo. O chissà, magari è già sposata con figli. E chi la pensa più Katia. No, non è lei. Io e Katia da bambini non giocavamo in cortile. Non dicevamo che da grandi ci saremmo sposati. Sì, hai visto che fine abbiamo fatto. E non siamo ancora grandi. Dall’altra parte rispondono subito.
Ciao Samanta.
Un momento, gliela passo.
Pronto?
Samanta.
Chi è?
Rocco sono… Mi hai sentito? Sono io. Perché non rispondi?
Sono qui.
Chi ha risposto?
Mia madre.
Minchia che figura. Come stai, Samanta?
Perché mi hai telefonato?
Perché non ho mai smesso di pensarti.
E da quando ti lasciano telefonare dal carcere?
Non è così… Non sono più in carcere… Samanta?
Sì, Rocco, sì.
Che c’è?
Sparisci per anni, non scrivi nemmeno una riga e hai perfino il coraggio di cercarmi a casa.
Samanta, io non ho mai smesso di pensarti.
Nemmeno io ed è questo che mi fa incazzare. Dicono che tu abbia inguaiato tutti, anche mio padre. Non sei stato tu, vero?
Chi lo dice?
Lo dicono.
Sapevo a cosa stavo andando incontro come criminale pentito. Ma non come persona. Questo non l’avevo previsto. Quando ho descritto ai magistrati il ruolo di tuo padre nel Fortino, Samanta, non pensavo a te…
Rocco? Adesso non parli tu?
Ti ascolto, hai una bella voce. Come sempre.
Dove sei?
Sono in un posto sicuro.
Ho capito. Ho paura per te, Rocco. L’ultima volta che ci siamo visti, eri con Luca.
Samanta, spero tu riesca a perdonarmi. Quello che ho fatto, l’ho fatto per Luca. Eravamo tutti una cosa sola e guarda come siamo finiti. Come sta tuo padre?
È dentro mio padre.
Ti ha detto qualcosa di me?
Non ha mai parlato di te, non ti preoccupare. Sappiamo tutti cosa hai fatto in carcere. Ti sei messo in cella con il padre di Luca. E io capisco perché l’hai fatto.
Mi basta questo, Samanta. E il tuo perdono mi lega ancor di più a te. Io ti voglio veramente bene… Non dici niente, tu?
Rocco, sono confusa. Non ti sento da anni, ti metti dall’altra parte e mi chiedi se ti voglio ancora bene?
Io non mi sono messo dall’altra parte. Io sono rimasto dalla parte di Luca e questo tu lo devi dire forte a tutti. Io sono dalla parte dove io, tu, i ragazzi e le ragazze del Fortino eravamo. Nello stesso posto in cui ci siamo lasciati.
Quale Fortino? Non esiste più il Fortino, Rocco. Come fai a credere che esista ancora il Fortino?
Il Fortino non esiste. Ma io esisto. Tu esisti. Luca esiste.
Luca è morto, Rocco, renditene conto. È morto.
Di Luca è morto il corpo. Il suo ricordo no, Samanta. Non posso pensare che anche tu ti sia messa dalla parte di quelli che lo hanno tradito.
Io non ho tradito nessuno, Rocco. Al punto che sono ancora qui a parlare con te. Al punto che ancora ti penso ogni sera prima di addormentarmi. Ma per te è facile. Te ne stai chiuso da qualche parte. Magari hai anche gli sbirri che ti proteggono. Qui fuori no. Nessuno ti protegge. Qui fuori se cambia l’aria, devi capirlo all’istante o passi i guai. E gli sbirri non vengono certo a proteggere me, mia madre, mia sorella. Anzi, sai qual è il risultato? Che da quando il Fortino non lavora più, facciamo la fame. Nel vero senso della parola. La fame. Tu hai mai fatto la fame?
Samanta, non poteva continuare così. E poi prenditela con chi ha ucciso Luca, non con me. Con loro se la dovrebbe prendere tuo padre.
Tu non capisci, Rocco. Tu sei troppo idealista. Ma qui fuori viviamo noi.
Ho capito, non ti dovevo chiamare. Addio Samanta.
Rocco, aspetta. Non mi lasci il tuo numero? Rocco?
Non posso. E poi chiamo da una cabina. Non dire a nessuno che ti ho telefonato.
No, che non lo dico. Ma tu non sparire, Rocco.
La cornetta scivola nella mano sudata. Cade sul pavimento di moquette grigia. Un pelo polveroso disseminato di bruciature. Piccoli buchi incrostati, lì dove ogni sigaretta è caduta negli anni. La corrente d’aria calda sul corpo seminudo. La voce di Samanta fa ancora il suo effetto. Se fossi qui… Ho voglia di stare con te, amore mio. Devo scriverti. Forse un giorno ti consegnerò anche questa lettera. Scusami il foglio a quadretti. Ma non è proprio una lettera. È una canzone. Magari potessi cantarla per te, Samanta. Sei entrata nella mia vita con un sorriso. E ora te ne vai senza una parola, senza un perché. Lasciandomi solo. Solo con questo silenzio. Cammino senza una meta in questa grande città. E i miei occhi ti cercano tra la gente. Ma non c’è niente di te. Neanche il tuo sorriso. Quel sorriso che mi aveva aperto le porte del paradiso. Non so cosa darei per guardarti un solo istante e capire un solo perché. Ma non rimane altro che una speranza che galleggia nel vuoto che hai lasciato in me. Oramai le strade di questa città sono buie e deserte. E io seduto su una panchina con l’amaro in bocca guardo il cielo e, nel suo immenso chiarore, le stelle formano il tuo nome. E mi domando in che cosa ho sbagliato. E ancora che cosa non ho saputo darti. Io riesco solo a sentire il tuo silenzio che mi divora dentro. E cerco di stringere la tua immagine con il vuoto delle mie mani. Sono su un grattacielo e guardo dall’alto questa grande città. Domandandomi dove sei. E se questa mia voce ti potesse raggiungere, io griderei con tutto me stesso il giorno che ti incontrerò prima che i miei occhi ti perdano per sempre tra la gente. Porta via con te questo silenzio. E se proprio mi vuoi lasciare qualcosa, Samanta, io ti chiedo solo una ragione. Conoscere il perché. Mi aiuterà a star meglio.
Fuori è buio ormai. Le rondini riempiono il cielo con i loro suoni. Si rincorrono attraversando il rettangolo verticale della finestra. Forse, Samanta, dovresti scriverle tu queste parole. Buonanotte.
Stasera fanculo tutti. Mi metto in doppiopetto. Abito blu. Panciotto. Camicia bianca. Cravatta. Fanculo. Sì, anche la cravatta. Stasera sono in tiro come se dovessi uscire. Ma dove cazzo posso andare? Sono sempre solo. Non mangio da due giorni. Sono troppo nervoso. Non riesco a dormire. Potessi scolarmi una bottiglia di vino. Magari mi aiuterebbe a dormire. Ma non posso. Sono astemio. Fa ridere, sì. Io, che facevo il pieno di cocaina, sono astemio. Bevevo birra. Che sbronze di birra. Ma solo per calmare gli effetti della cocaina. Mi fa perfino schifo la birra. Vado di caffè. Non mangio, bevo caffè e butto giù Valium. Fanculo tutti. Oggi bisognerebbe fare festa. È un anno che vivo qui. Da Pescara a questo buco del mondo. Trasferito in fretta e furia, prima che i due di piazzale Corvetto tornassero a Milano a spifferare che mi avevano incontrato. Due giorni rinchiuso in albergo. E poi un nuovo viaggio. Verso Nord. Gli sbirri della squadra mobile di Milano. La stessa Alfa Romeo blindata. L’autorizzazione dei magistrati. La scorta. La bustona gialla con la mia scheda di appestato. Un appartamento di due camere. Il soggiorno con l’angolo cucina. Il divano. La tv. Il telefono. E di che minchia dovrei lamentarmi? Mi pagano pure uno stipendio. Mi pagano per stare rinchiuso qui a non fare una minchia. Settecentomila lire al mese per non fare niente. Minchia, Luca, ci pensi? Prima, quando uscivo la sera con quattro milioni in tasca, mi sentivo povero. Però rischiavamo il carcere. Rischiavamo la vita. Adesso aiutare gli sbirri a prendere i tuoi assassini costa settecentomila lire al mese. Tre dosi e mezzo di bamba, di polvere bianca. E noi quante dosi vendevamo ogni giorno? Non costiamo niente, noi infami. Niente in confronto al prezzo dei nostri incassi. Dei ragazzi morti per overdose. Delle rapine che i tossici fanno per pagarsi la pera. Degli omicidi. Dei soldi spesi per mandare gli sbirri in giro per l’Italia. Ma se siamo così importanti e così a buon mercato, perché nessuno si prende cura di noi? Non ce la faccio più, Luca. Mi sembra di impazzire. Fanculo, chiudo al massimo la cintura e i pantaloni mi stanno larghi. Dimagrisco giorno dopo giorno. Due finestre. Io in piedi sotto il lampadario acceso. Quella è la finestra rivolta alle montagne. Anzi, alla montagna. La grande montagna che si vede, quella che ha la neve d’inverno e d’estate. Dicono sia il Monte Rosa. Questa è la finestra che guarda sulla piazza. Senza muovermi riesco a vedere il lampione giallo sul sagrato della chiesa. La luce bianca che illumina l’orologio del campanile. Quelle minchia di campane che ogni quarto d’ora fanno dong, dong-dong, dong-dong-dong. Fossi ancora quello che ero, le avrei abbattute le campane. Come fa a dormire la gente di qui? E poi il bar nella via stretta appena oltre la piazza. Non c’è altro in questo buco del mondo. Ci fosse almeno un cinema. Una puttana da pagare. Niente, Luca, niente. Guarda che quando ci vedremo, dovrai ringraziarmi.
È vero, non mi manca niente, sto bene. Fanculo se sto bene. Dimagrisco, ma sto bene. Sono in un luogo protetto. Dicono che quando avrò la nuova identità, potrò anche lavorare. Sì, ma sono solo. Non ho nessuno. A parte qualche contatto telefonico, come il prete, l’assistente sociale che mi seguiva da ragazzino, gli avvocati, gli sbirri che mi stanno dietro. Ma mica li puoi invitare a cena quelli. Luca, sono solo. Mi manca sempre qualcosa. E non so che cosa. Anzi, lo so bene. Penso che nella mia breve esistenza, il mio scopo l’ho raggiunto. È inutile che una persona viva cento anni e non valga un cazzo. Io sono arrivato a venticinque anni, ho fatto i miei errori, avrò fatto del male. Di questo me ne vergogno. Ma non ho mai ammazzato nessuno. E ne sono fiero. Perché secondo me la vita di ogni essere umano è un dono. Un immenso dono… Tranne la mia.
Il silenzio. Odio il silenzio. Odio pensare in silenzio. Sento un fischio continuo nelle orecchie. Mi insegue il rimbombo del mio cuore che batte al ritmo di litri di caffè. È questo il mio silenzio. Il cassetto delle posate. Il coltello. No, questi coltelli fanno schifo. Non hanno punta. E si piegano. Sono così sottili che si piegano. Le forbici. Le forbici vanno bene. Sono d’acciaio. Sono fredde. Sono appuntite. Non si piegano. Forza Rocco, siediti, respira e fallo. Non così. Slaccia il panciotto. Apri le forbici. Basta una delle due lame. Luca, non te l’ho mai confessato, ma il sangue mi fa schifo. Per questo spingo la punta tra i bottoni, sopra il cotone della camicia. È bianca. Se la lama fa il suo lavoro nella carne, lo vedrò subito. Chiudi gli occhi e spingi, Rocco. Non ci pensare. Se ci pensi, ti fermi. Non lo fai più. Non fa nemmeno male, no. Solo un poco. Brucia. Eccolo.
Il sangue sotto la stoffa sboccia come un papavero. Non guardare la macchia, Rocco. È solo un fiore. Tieni gli occhi chiusi, altrimenti ci ripensi. Fanculo, mi sono tagliato la mano. Fermati, adesso la forbice dentro fa male. Cazzo, non esce più. Fa troppo male sfilarla. Lasciala lì. Luca, aiutami tu. Io non sono capace. Come non l’ho fatto con quella puttana di Alex, non so farlo con me stesso. La macchia ora è un mazzo di rose rosse. Forse, se resto seduto qui tutta la notte, domani mattina non avrò più sangue. Domani mattina sarò da te, Luca. Dove minchia sei? Perché non rispondi? Perché mi avete lasciato solo? Perché? Io ho venticinque anni. Io non posso farcela da solo. Ho di fronte la ’ndrangheta, la mafia più feroce. Luca, è la mafia più feroce ad averti fatto questo. Ad averci fatto questo. Gli sbirri ormai si comportano da sbirri. Hanno ottenuto quello che volevano. Per loro non sono più nessuno. Invece devono sapere quello che abbiamo fatto. Quello che io ho fatto. Tutti gli uomini onesti devono sapere. Sì, c’è soltanto una persona che ci può aiutare, Luca. L’unico, al di fuori di te, di me, dei mammasantissima, che sa tutto di noi. È l’ultima persona con cui voglio parlare. Poi avrò fatto davvero tutto quello che dovevo fare.
Che schifo l’odore del sangue. Non riesco ad alzarmi. Adesso fa davvero male. Il telefono è vicino. La mano bagnata di rosso impasta la cornetta. Il numero. Al bar sul giornale c’era un numero breve. 6339, a Milano. La plastica sulla ferita brucia. Sento il sangue colare dalla pancia dentro i pantaloni. Forse ce la faccio.
Centralino, dicono al quarto squillo… Pronto, è il centralino.
Fanculo, hanno rimesso giù. Mi fa male parlare. Respira piano, Rocco. Lo devi fare subito. Domani mattina può essere troppo tardi. Chiudi gli occhi e respira piano. Adesso rifai il numero. Piano.
Centralino, buonasera.
Voglio parlare con Gatti.
Subito.
Cronaca, buonasera.
Mi passa per favore Gatti?
Sono io.
È proprio lui. L’ho trovato al primo colpo. Sicuro che è lui. La voce me la ricordo, eccome. La voce è importante. Come gli occhi. Come la faccia. Quando squadri il mondo e lo dividi tra amici e nemici, non dimentichi nulla. Chissà se sei ancora mio nemico.
Pronto?
Ciao… sono io.
Io chi?
Rocco.
Rocco? Chi?
Rocco, l’amico di Luca. Il Fortino.
Rocco? Ma da quello che so, Rocco non potrebbe telefonare. Dovrebbe essere in un luogo protetto.
Sto chiamando da un luogo protetto.
D’accordo. Ma io come faccio a fidarmi che sia proprio lei?
Ti dico che sono io.
Me lo dimostri.
Questa proprio non me l’aspettavo. È più diffidente di uno sbirro.
Pronto Rocco?
Sì, pronto. Ma come minchia faccio a dimostrare al telefono chi sono? Io sono io.
Mi racconti qualcosa di lei. Ad esempio…
Ecco, te lo faccio io l’esempio. La mattina della prima operazione nel Fortino, quando la polizia aveva portato i telegiornali, te la ricordi?
Sì, 21 giugno 1991.
Luca era ancora vivo. Tu stavi parlando con Cosentino, quello a cui avevamo squartato la coscia con una coltellata e non ci aveva denunciati. Poi mi hai visto e ti sei avvicinato per farmi delle domande. Ti ricordi? E io ti mandai affanculo. Questo fatto tu non l’hai scritto sul giornale. Lo conosco perché io sono Rocco.
Certo che me lo ricordo… Certo. Buonasera, Rocco.
Possiamo darci del tu, se vuoi. Io mi devo scusare per quel fanculo.
Non c’è problema, Rocco.
Però sai, se quella mattina io mi fermavo a parlare con te, là dentro sarebbe successa una guerra. Sarei morto io o avrei dovuto ammazzare qualcuno. E come potevo fermarmi a parlare con te? Ormai sapevamo chi eri. Proprio quella mattina avevamo scoperto che quello che da un mese veniva dentro il Fortino a controllare i tubi del gas, in realtà era un giornalista.
Ormai non mi serviva più lavorare sotto copertura.
Comunque ti ho detto vaffanculo non perché ti ci volevo mandare. Ma perché non potevo farmi vedere con te. Come dire: e dai, mollami, vai da un’altra parte. C’erano le telecamere dei telegiornali. C’era troppa gente. Quella mattina mi ero svegliato dopo una notte… avevo fatto il pieno di cocaina.
Non ti preoccupare, non me la prendo per un vaffanculo.
Mi fa davvero piacere sentirti. Posso parlarti apertamente?
Sì, certo Rocco.
Domani non vai a denunciarmi per quello che ti dico?
Ho l’obbligo del segreto professionale.
Sono mesi che pensavo di telefonarti. Ma mi chiedevo se mi avresti risposto. Magari mi mandavi affanculo tu.
Io rispondo a tutti. E poi, Rocco, apprezzo la scelta che hai fatto.
Mi piacerebbe conoscerti di persona… Ti volevamo gambizzare, lo sai?
Prego?
Volevamo tirarti un paio di pistolettate sulle cosce. Poi non è stato fatto.
Di questo me ne sono accorto, risponde lui ironico.
Era per dirti, va be’, fai il giornalista. Le tue cose le devi scrivere. Ma mollaci un po’. Ci stavi troppo addosso con le tue inchieste sul giornale. Però ho capito che eri una testa dura. Tu dalla tua parte, noi dalla nostra. Per questo io ti rispettavo. Cazzo, ne hai scritte di cose su di me. Mi mettevi sempre di mezzo. Però io pensavo, vedi, io qualche volta esagero. Be’, anche lui qualche volta può esagerare. Eri come noi e ti rispettavo. Probabilmente abbiamo la stessa età.
Io ho gli stessi anni di Luca. Ma non ero facile da prendere, Rocco.
Non ti preoccupare. Avevamo già preparato il piano. Ti volevamo mandare sotto una ragazza. Una insospettabile. Quella ti faceva gli occhi dolci, magari con la scusa di raccontarti una notizia. Sei un ragazzo anche tu, no? Ci cascavi, lei si faceva invitare a cena ed era fatta. Poi hanno ucciso Ghiaccio e abbiamo avuto altro da fare.
Spero che tu non mi abbia telefonato per ripropormi un invito a cena. Che almeno sia una ragazza a farlo.
No, è acqua passata ormai.
Ma è la stessa volta in cui qualcuno ha detto a Luca che mi avevano visto in pizzeria?
No, non so nulla di questa storia. Chi te l’ha raccontata?
Luca.
Luca? E come minchia è possibile che Luca abbia parlato con un giornalista? Ha parlato con te? Non lo sapevo. Quando?
Qui in redazione. Ha voluto incontrarmi lui, qualche settimana prima che morisse. Ha sorpreso anche me la sua richiesta di incontro.
Adesso è tutto chiaro, Luca. Sapevi che dovevi morire e hai aspettato consapevolmente la tua morte. Con la tua morte, Luca, hai dato uno schiaffo morale a tutti. Hai fatto capire che le palle non le ha chi uccide. Ma chi aspetta con precisione quel momento.
Luca è morto per i suoi valori, per difendere la sua famiglia. È morto con onore. Questo vuol dire avere le palle. E io ho continuato quello che lui aveva lasciato a metà…
Caro Rocco, scusa se ti interrompo. Io non credo proprio che i vostri fossero valori. Voi del Fortino vivevate dentro una follia. Tu, essendo cresciuto là dentro, forse la pensi diversamente…
Io non so più che cosa penso. Di una cosa però sono sicuro. Che nei confronti degli esecutori materiali dell’omicidio di Luca, di Ghiaccio, del loro padre, non provo odio. Non ho nemmeno sete di vendetta. Perché da parte mia non meritano niente di simile. Io voglio solamente giustizia. E se proprio non vogliono ammettere pubblicamente le loro colpe, almeno che provino un minimo di vergogna. Io le mie colpe le ho ammesse, spero che gli altri facciano altrettanto.
Tu hai fatto la scelta giusta.
Lo credo anch’io. Devo solo vincere la solitudine. Ho bisogno di un aiuto psicologico.
Nessuno ti segue?
Nessuno. Nessun collaboratore ha un supporto psicologico. E se non hai una famiglia accanto, la solitudine è totale. Ma tu come ci consideri?
In che senso, Rocco?
Nel senso di ciò che pensi di noi pentiti.
Rocco, penso che sia stata la legge più efficace contro la mafia, insieme con la confisca dei beni.
Ho messo l’abito scuro stasera, sai? Come se dovessi uscire con Luca. Lo sogno spesso. Sogno che torniamo indietro nel tempo, prima della mia collaborazione. Ci siamo io, Luca e il Tedesco, uno della banda. Siamo nel bar della piazza dove hanno ucciso Luca. Io salto addosso al Tedesco e gli pianto nella pancia le forbici che avevo in tasca. Tanti colpi, zan, zan, zan. Oppure sogno che sono in macchina con Luca. Siamo nella piazza dove lo hanno ammazzato. Lui ha i baffi, si era fatto crescere i baffi, e non mi guarda. Guarda dritto e ride. Lo sogno sempre.
Credo sia normale, Rocco. Anche a distanza di anni.
Ne abbiamo fatte tante. Tu non le conosci tutte. Lo sai che qualche volta portavo al ristorante i barboni che trovavo per strada? Una sera mi fermo a mettere l’antifurto alla macchina e il barbone entra per primo. I camerieri lo mandano fuori. Io arrivo e grido ai camerieri. Che sistema è? Pago io, lui è con me. Questa è discriminazione. La gente ci guardava. E i camerieri ci portavano i piatti con la punta delle dita. Io vestito bene e lui conciato come uno straccio. Barba lunga, unghie nere. Ci guardavano tutti. Mi ero fatto tante di quelle canne che ridevo come un pazzo. Andavamo a donne. A diciannove anni, cappello, vestiti bene. La gente ci affiancava ai semafori. Ci guardavano, me e Luca, e sicuramente pensavano: ma questi da che pianeta scendono? E lo sai che anch’io scrivo? Scrivere significa raggiungere quello che non ho. Lascio lì il testo e dopo due giorni vedo se mi piace.
Cosa scrivi?
Soprattutto canzoni. Però sono stonato come una campana.
Rocco, chiede lui dopo un lungo silenzio, cosa pensi di fare della tua nuova vita?
Vorrei tanto andarmene all’estero, rifarmi lì magari. Perché tra fare il barbone in Italia o all’estero, è meglio farlo fuori. Poi, mi capisci. Il problema non è per me. Perché io non ho paura. Ma se domani mi trovo sotto casa un pezzo di merda che mi riconosce, il problema è per mia moglie, i miei figli. Già una volta a Pescara mi hanno riconosciuto. Io è da quando avevo vent’anni che faccio questa vita di merda. Sono entrato in carcere a vent’anni e a venticinque sono ancora qui che non posso uscire di casa. A quest’ora io la mia condanna l’avevo già scontata. Non possono lasciare solo uno così. Solo come un cane. Sono esaurito. Da lunedì faccio lo sciopero della fame. Così mi mettono in ospedale, mi fanno le flebo e qualcuno lo vedo. Come in carcere, quando mi tagliavo le braccia per andare in infermeria.
Forse, per la tua credibilità di collaboratore, è meglio evitare queste forme di protesta. Devi anche pensare a quale alternativa avresti avuto. Tornare in carcere oppure…
Oppure mi ammazzavano. Lo so bene cosa rischio. Pensa che strano destino.
Cosa vuoi dire, Rocco?
Voglio dire che Luca era venuto a parlare con te di nascosto, senza che nessuno lo sapesse, per raccontarti le sue perplessità. Non so cosa ti abbia detto, ma lo immagino.
Tutto quello che Luca mi ha raccontato, è stato scritto sul giornale dopo la sua morte. Non ci sono segreti, Rocco. Se l’aspettava, sì. Non mi ha fatto i nomi delle persone che lo avrebbero ucciso, ma se l’aspettava.
Vedi, è venuto da te perché quando ha capito che non aveva più molti giorni davanti, ha voluto lasciare un segno, una testimonianza. Per questo è uno strano destino. Perché per tutti e due, alla fine sei stato tu il punto di riferimento. Luca sapeva che io cominciavo a non ragionare più. Cercava di darmi un freno, mi stava vicino. Affinché non arrivassi a fare la fine di Ghiaccio. E questo suo impegno nei miei confronti mi ha completamente sconvolto. Al punto di non credere che facesse questo per me, perché mi rendevo conto che la parola amicizia non può esistere dove regna tutt’altro. Ma poi finii con il capire che Luca mi voleva bene veramente. E da quel momento ho cominciato a volergliene molto anch’io, senza mai dirglielo e forse neanche dimostrarglielo. Luca non ha mai accettato la morte di Ghiaccio. Luca cercava di trovare una soluzione soddisfacente senza compromettere le persone a cui lui teneva. La sua famiglia, prima di tutto. Ma quello che ci si aspettava, è successo.
Rocco, a me ha detto che voleva uscire dall’organizzazione. Purtroppo, c’è soltanto un modo per uscire vivi da certe organizzazioni. Ed è la porta che tu hai avuto il coraggio di aprire.
L’ho aperta grazie a una forza che solo una scossa come la morte di Luca poteva far risalire a galla. Adesso posso dire di aver fatto tutto quello che dovevo fare. Dopo aver parlato con te, posso chiudere gli occhi e raggiungere Luca.
Non ho capito.
Mi sono piantato un paio di forbici nella pancia. Sto sanguinando da ore. Sento freddo e ho la vista annebbiata. Sento le forze che se ne vanno.
Rocco, dammi subito il numero di telefono.
Non posso dartelo, è riservato.
Il numero subito. Come si chiama il posto dove sei?
In culo al mondo si chiama. Devo mettere giù adesso, ciao.
Fanculo anche te. Ormai la luce svanisce. Stanno spegnendola, la luce. Ma non fa buio. C’è un’aria grigia tutt’intorno. Il lampadario, il soffitto, il sapore di metallo in bocca. Il risultato è un alone di grigio che impasta la notte. Sarà tardi ormai. Fa freddo. Davvero.
Se quello stronzo si fosse fatto i cazzi suoi, non sarei qui in piedi in corridoio ad aspettare la strigliata dei magistrati. E perché gli sbirri mi guardano così stamattina? Si entra. Rocco, preparati alla lavata di capo. C’è soltanto la magistrata. Meno male.
S’accomodi.
Buongiorno, dottoressa.
Buongiorno, come sta?
Mi vede.
Ma come le è venuto in mente di telefonare a un giornalista?
Non ho telefonato a un giornalista. Ho telefonato a un amico.
Lo sa che se lui pubblica una sola parola di quello che vi siete detti, a lei tolgono immediatamente il programma di protezione? Le ricordo che ha firmato un contratto con lo Stato e deve attenersi agli obblighi che ha sottoscritto. Il telefono le è concesso soltanto per i contatti con i familiari e i suoi referenti nella polizia.
Il giornalista non scriverà nulla della nostra telefonata, glielo garantisco.
Non scriverà nulla, continua lei, perché il collega ha chiamato il giornalista chiedendogli espressamente di aspettare a scrivere. Per non compromettere le indagini…
Dottoressa, non scriverà nulla perché tutto quello che c’era da scrivere sul Fortino, lui l’ha già scritto.
Comunque io devo richiamarla agli obblighi del programma di protezione. Il suo ruolo al processo sarà determinante. Per favore, cerchi di non danneggiare il lavoro fatto. Si fidi di noi.
Io non posso passare la vita da solo in quel posto. Non ce la faccio. Vedevo più gente quando ero in carcere. Dottoressa, io mi fido. Odiavo così tanto la gente quando ero nel Fortino. Ma da quando ho conosciuto lei e il dottore, non è più così. Lei per me è una madre. Per questo il giorno della festa della mamma, le mando il telegramma di auguri.
Lei è molto gentile. Io però non posso essere la sua mamma, sorride la magistrata.
Guardi che non è, come si dice, piaggeria la mia. Io le chiedo: oltre a voi due chi ho? Mio padre o forse mia madre? Non ci sono mai stati e non ci saranno mai. Lei, dottoressa, dopo una giornata di lavoro, soddisfacente oppure no, quando torna a casa ha la sua famiglia che aspetta il suo rientro. Qui, appesi alla parete, ha i disegni e le foto dei suoi piccoli. Io invece dopo aver trascorso le mie tre ore di permessi mattinieri, quando torno a casa, chi mi aspetta? Solo un appartamento vuoto e non è facile fare finta di niente. Nei vari momenti della mia giornata devo fare i conti con questa realtà. Forse adesso le è un po’ più chiara la ragione per cui ogni tanto sbatto la testa contro il muro o mi pianto un paio di forbici in pancia.
Noi capiamo bene quale sia la ragione, Rocco. Lei però deve cercare di non peggiorare le cose. Deve avere pazienza.
Dottoressa, le assicuro che non voglio fare la vittima. Anche perché mi sembra di aver già dimostrato, chiedendo il vostro aiuto, che quando qualcosa mi tocca profondamente, non resto con le mani in mano. Ma quanta forza devo avere per affrontare i problemi che comunque non riguardano direttamente gli impegni a cui io mi sono legato? Io non sono indistruttibile. Io non sono soltanto un collaboratore, dottoressa. Io sono una persona.
La capisco, Rocco. Guardi me. Pensi alle conseguenze della mia attività di magistrato. Ho la mia famiglia, ho i miei bambini, ma non posso nemmeno mettere il naso fuori. Non posso, se non con la protezione della scorta.
Mi scappa un sorriso. È riuscita a rasserenarmi. Come una madre. Appunto.
Posso chiederle una cosa, dottoressa? Chi ha mandato l’ambulanza?
Praticamente il giornalista, risponde lei. Ha chiamato la questura. Visto che era sabato sera ed era tardi, con una scusa, si è fatto passare a casa un funzionario della squadra mobile. Così il suo luogo protetto è rimasto confinato agli ambienti investigativi. E ha fatto bene. Il funzionario ha poi rintracciato i suoi referenti e in meno di mezz’ora lei era in sala operatoria. Rocco, mi raccomando. Noi possiamo proteggerla da quanti vorrebbero farle del male. Ma non possiamo fare nulla contro i suoi atti di autolesionismo. Ci aiuti e si aiuti. Arrivederci.
Di nuovo a casa. I referenti hanno controllato l’isolato e se ne sono andati. La finestra taglia i ghiacciai come farebbero i bordi di una fotografia. Il tramonto sembra ingrandire le sfumature del Monte Rosa. L’orologio con i suoi dong odiosi annuncia la sera sull’altro lato della stanza. Non fa più caldo. Dovrò lavare le macchie sul divano. Non posso vivere in una macelleria. Mi fa schifo il sangue. E chissà perché mi viene in mente Samanta, adesso. Certo che posso chiamarla. La dottoressa ha detto che non devo chiamare il giornalista. Non mi ha parlato di Samanta.
Sono Rocco, ciao.
Vai a fare in culo, pezzo di merda. Hai anche il coraggio di telefonarmi?
Cosa è successo, Samanta?
Hai fottuto mio padre, questo è successo.
Lo sapevi già che avevo parlato…
Dimmi che cazzo c’entra mio padre con l’omicidio di Luca.
Niente c’entra Samanta, niente.
E allora perché l’hai messo in mezzo?
Non l’ho messo in mezzo…
Vai a fanculo, Rocco.
Con l’omicidio, intendo. Guarda, Samanta, che non puoi scegliere cosa raccontare e cosa non raccontare. Quando decidi di collaborare, devi dire tutto quello che sai. Mi avevi perdonato. Capisco che tu sia confusa sul sentimento che provi per me. Ma mi avevi perdonato. Io ti voglio veramente bene, Samanta.
Infame, pezzo di merda. E io mi sono fidata.
Ma cosa è cambiato dall’ultima volta che ci siamo sentiti?
È cambiato che l’avvocato ha avuto copia delle tue infamate.
Hanno ucciso Luca, Samanta. E tuo padre lavorava per Luca. Luca gli dava e ti dava da mangiare. Perché dopo che hanno toccato Luca, tuo padre non ha difeso il suo ricordo? Perché?
Infame, cornuto, pezzo di merda. Sbirro che non sei altro. Sparisci.
Persa anche Samanta. Valium. Giù il Valium. Tanto Valium. Fanculo. E le forbici. Dove ho messo le forbici? Minchia di una merda. Dove ho messo le forbici? Fuori il cassetto. Fuori. Per terra. Niente forbici. Fuori tutte le posate. Tutti i coltelli senza punta. Niente forbici. Tutte le forchette. Le forbici. Dove cazzo hanno messo le forbici? In qualunque posto possano esserci, non ci sono. Fanculo, fanculo. I referenti. Le hanno sicuramente prese i referenti. Mi hanno tolto tutto. Fanculo al Calabrese, ai Compari, a Faccia d’Angelo, a Coscia. Fanculo a tutti. Vivo o muoio soltanto se lo decidono gli altri. Perché? Il letto, Rocco. Cerca di atterrare sul letto perché adesso gira tutto e si piegano le gambe. Hai visto, Luca, come sono caduto sul letto? Mi hai visto? Mi vedi? Non sono più padrone della mia vita.