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Tiro al bersaglio
Si incrociano disordinate sullo sfondo luminoso delle vetrine. Escono silenziose e inconsapevoli dal buio della sera. Come le sagome nere al poligono. Proprio così. Sagome nere di un tirassegno. Silenziose. E inconsapevoli. Una pallottola. La testa del vecchio. Centro. Due spari ancora. Vanno giù il bambino e questa stronza di sua mamma che lo tiene per mano. Il quarto colpo manderebbe all’inferno quest’altro bastardo. Camminano dritti e verticali lungo il marciapiede. Tornano a svanire nel buio. Ci sono appena pochi passi di luce. Nemmeno immaginano che avrei potuto ammazzarli. Quando sembrano esauriti, ecco un altro corpo da buttare giù. La voglia di sparare è un prurito che ti scalda le mani.
Rocco.
Alex, sei in ritardo.
Scusa.
Ha i capelli corti. La faccia pulita. I vestiti stirati da milanese borghese. Con la malavita non c’entra una minchia. Per questo Alex è comodo. Nessuno sbirro andrebbe a cercare le scorte di droga nel suo garage. Bustine di cellophane da cinque grammi. Termosaldate. Eroina e cocaina da cinque. Significa che ogni grammo di questi lo puoi tagliare fino a cinque volte. Così per ogni soldo investito se ne fanno cinque di incasso. Cinque, cinque, cinque. La formula perfetta. Roba da grossisti. Che faccia da puttana ha Alex.
Perché mi guardi così, Rocco?
C’è troppa luce, andiamo via dalle vetrine del supermercato, facciamo una passeggiata.
No Rocco, dai, restiamo qui. Il supermercato è già chiuso a quest’ora.
Ho detto andiamo via.
Va bene, Rocco.
Sculetta quando cammina. Sarà pure una checca. Il classico bravo ragazzo della porta accanto. Vive con i genitori. Un padre perbene. Una madre che fa la mamma perbene. Il loro figlio da crescere. Il loro ragazzino da coccolare. Buongiorno, buonasera. Com’è educato Alex. E la scuola? Ma sì, fanculo la scuola. L’importante è farsi promuovere. E lui va pure a scuola. Chissà che faccia faranno quando vedranno la foto del loro Alex sul giornale.
Gira dentro questa via.
Dove, Rocco?
Qua a destra, vai.
Ma qui è buio, non è meglio rimanere dove c’è luce se mi devi parlare?
Gli trema pure la voce ad Alex. Fa la puttana e poi gli trema la voce.
Cosa mi devi dire, Rocco?
Sei tu che mi devi dire qualcosa, Alex.
Non saprei, Rocco.
Tu non lavori per la mia batteria.
No, certo, Rocco.
E tu hai rubato le bustine dall’imbosco della mia batteria.
Ma che dici, Rocco?
Dico quello che mi hanno raccontato.
Rocco, forse hanno visto male, nessuno verrebbe a rubare la vostra roba.
Hai sbagliato, Alex.
Che fa, abbassa lo sguardo adesso? È pure un cagasotto.
Sì, scusami Rocco, ho sbagliato.
E dai, stai tremando come un cagasotto, non è poi uno sbaglio così grave, volevo soltanto avvisarti, adesso ci facciamo una canna insieme e la chiudiamo qui.
Come vuoi tu, Rocco.
Ho finito le cartine, andiamo a prenderle dal tabaccaio della stazione, vai avanti tu, Alex, io ti seguo.
Sculetta davvero. Adesso entrerai nella luce del supermercato e potrò guardare bene con quale faccia mi hai chiesto scusa. Il palmo della mano, nella tasca del giubbotto, si stringe sul metallo freddo dell’impugnatura. L’indice scorre sul profilo della canna e scivola fino a incontrare il grilletto. Da almeno due ore le saracinesche hanno ingabbiato le vetrine per la notte. Non c’è in giro più nessuno. Il marciapiede si è svuotato. Lì non avrai scampo.
Cammina, Alex, perché ti fermi?
Di qui, Rocco?
Sì, di qui, vai, la stazione è da questa parte.
Io adesso rallento il passo. Lui va avanti di qualche metro e scivola nella luce notturna dei lampioni. Che coglione che sei, Alex. Finalmente si gira ad aspettarmi. Non lo mirerei mai alla schiena. Tre spari gli centrano la coscia sinistra. Il quarto, il quinto, il sesto e il settimo proiettile gli bucano la coscia destra. Mi resta ancora un colpo 7.65. Non bisogna mai perdere il conto delle cartucce nel caricatore.
La canna è ormai a un centimetro dalla faccia pulita di Alex. L’ottava pallottola è dedicata alla testa di minchia che si ritrova appesa al collo. Che schifo la puzza del sangue. Fa freddo stasera. Eppure, anche in questo gelo, il sangue caldo esala il suo odore da macello. Le gocce che piovono sull’asfalto del marciapiede fumano come se fossero piscio. Serve un altro colpo per sopraffare la puzza con il profumo buono della polvere da sparo. Questo stronzo si è pure cagato addosso. Ecco perché puzza.
Rocco non farlo, alla tua età, anch’io sono giovane, sussurra lui con la voce debole.
Ma che minchia dici, Alex? Io ti devo ammazzare, altrimenti da domani tutti gli stronzi come te verranno a rubare le bustine dai miei imboschi.
Io ho sedici anni, Rocco, ma ti rendi conto?
Questo rantola come un cane ferito. Basterebbe una impercettibile pressione dell’indice sul grilletto.
Ho sedici anni, Rocco, ti prego, non farlo.
L’indice non si muove, imprigionato tra il ferro curvo del castello e il lamento di un ragazzino. Effettivamente è troppo giovane per morire. È il mio primo omicidio, questo. Dicono che i primi occhi che ti implorano spalancati non si dimenticano più. È per questo che un assassino vero deve continuare a uccidere. Le altre vittime gli servono per trasformare in routine, in normalità, quella primissima, indelebile immagine di morte. E io, che cosa sto facendo? Che minchia stai facendo, Rocco? E per chi lo stai facendo?
Alzati e vattene, Alex.
Rocco, non posso, mi hai sparato.
Alzati o ti ammazzo.
Si alza appoggiando il palmo delle mani nelle pozzanghere del suo sangue. Cammina con le gambe storte per le ferite.
Corri, Alex.
Lui nemmeno risponde. Cammina troppo lentamente perché io possa garantire che non ci ripensi. L’indice finalmente si contrae rabbioso sul grilletto. Il rinculo viene assorbito dolcemente dal polso. Il tintinnio del bossolo sull’asfalto accompagna l’eco secca dello sparo sulle facciate dei palazzi. Una fiammata, l’incontro preciso dell’ogiva con il marciapiede. È una fiammata piatta, senza profondità. L’ottava pallottola. A pochi centimetri dalle sue caviglie. Alex si convince che può ancora correre. Arranca saltellando come una ruota bucata. Ti sparo, ti ammazzo se non sparisci. Che bella la fiammata sull’asfalto. Tra un po’ risuoneranno le sirene. Adesso ci vuole un bel trattamento estetico.
Quella checca di Alex avrà già chiamato l’ambulanza. Alzati e vattene. Rocco, non posso, mi hai sparato. Ma che minchia ti ridi, Rocco. Qua se ti prendono ti fai dieci anni belli belli. E non correre, Rocco. No, non correre. Sarebbe la prima ammissione di responsabilità. Mai correre. Il ferro in tasca. Il cappuccio della felpa tirato su. Gira di qua. Gira di qua adesso. Ehi, la luce è ancora accesa. Sei un assassino che vale il doppio, Rocco. Sì, sei uno che sa sparare. Ma sai anche salvare la pelle a qualcuno. E sì, mica puoi prenderti l’ergastolo per una checca come Alex. Una checca non vale l’ergastolo.
Katia apri. Katia…
E apri questa merda di saracinesca. Apri o te la faccio saltare con due colpi.
Chi è?
Rocco.
È chiuso, Rocco.
Ma che minchia c’entra se è chiuso. Tu ci sei, no?
Va be’, passa da dietro.
Ti passo da dietro, sì, stasera.
Quanto sei bella Katia. Con il camice bianco mi fai scoppiare le vene. Ecco, guarda, c’è pure il calendario in ufficio. Mercoledì 11 dicembre. Questa data me la devo stampare sulla pelle. Oggi è l’11 dicembre. Rocco, sei diventato uno che sa sparare.
Perché mi guardi così, Katia?
Sei strano, Rocco, cos’hai?
Hai chiuso a chiave?
Sì, certo, ma cosa succede?
Niente succede, ho voglia di te.
Non posso stasera, dormo dal mio ragazzo, devo andare.
È bellissima Katia. Il camice stretto sui fianchi. Le gambe dritte, scoperte dalle ginocchia in giù. Le calze a rete. I polpacci scolpiti ma snelli. E il seno. Il suo grande seno pronto a far esplodere i bottoni sotto la stoffa di cotone bianco. Ha anche un bel viso. Gli occhi castani intensi. I capelli neri raccolti in una coda poco al di sotto del collo. Ma stasera il suo viso non mi interessa.
Sembri una dottoressa con quel camice bianco.
Io sono una dottoressa.
Ma fammi il piacere, Katia.
Un uomo no, non lo si colpisce mai alle spalle. Ma una donna sì. Lei si è alzata in punta di piedi sugli zoccoli di legno. Dritta come un girasole. Le braccia allungate a posare un faldone sull’ultimo scaffale in alto. Le mie mani all’improvviso sul suo seno. Il mio respiro sul suo collo.
Fermati Rocco, stasera non posso, devo dormire dal mio ragazzo, se se ne accorge…
Dopo andrai dal tuo ragazzo.
Ma cosa gli dico, che avevo una manicure fuori orario?
Andiamo di là sul lettino.
No, Rocco, lasciami, lo sai che se passa la proprietaria mi licenzia?
Occupati delle mie mani e le dirò che ti paghi lo straordinario.
Oh Rocco, fammi almeno spegnere la luce.
Al buio il profumo di Katia è ancora più intenso. Odora di acqua di rose. Non solo il profumo. Adesso anche il suo respiro è più intenso. Il nostro respiro.
Che notte, Katia. Ho ancora addosso il tuo odore caldo. Come se ti avessi qui, adesso. Sopra di me, mentre guido. Come se i tuoi capelli mi coprissero gli occhi. E chi è questo che mi vuole superare a destra? Mi distraggo al pensiero di Katia e tu mi passi a destra? Se scendo, ti stampo sul cofano. Alt, semaforo rosso. Ah, ma è Luca. Non ti sento. Aspetta che abbasso il finestrino…
Minchia Rocco, allora ieri sera sei entrato in azione. È il tuo battesimo del fuoco. Pagami da bere.
Sì, bravo, grida più forte così viene a bere anche la madama.
Luca rialza il finestrino. Prima ancora che scatti il verde, è già partito. Scarica tutte e cinque le marce della sua fuoriserie rally. E io dietro. No, non può voler gareggiare adesso. Sono le undici del mattino. Non si gareggia nel traffico alle undici del mattino. Fanculo Luca, se vuoi la guerra avrai la guerra. Ma come fai a sapere che ieri sera ho sparato a quella puttana di Alex? Il tram, bastardo, non puoi passare sulla corsia del tram. Tra me e te non ci sono differenze. Abbiamo la stessa macchina da rally. Sì, la tua è rossa. La mia è bianca. E allora? È la stessa macchina. Sappiamo sparare bene tutti e due. Però tu sai sempre tutto. E subito. Ti rispettano. Ti informano. Questa è la differenza che fa di te un capo. Tu sei il capo. E io costretto a seguirti. E no, fottuto. Ti sei preso il tram sulla corsia preferenziale. E un altro tram nella direzione opposta. Bravo. Ciao, ciao Luca. Guarda come se la ride. Ti ho fottuto, bastardo. Sei fottuto. Superato. Ci vediamo al solito posto, chissà se mi capisce. Non senti? Mi fai andar giù la voce se grido più forte: andiamo al solito posto. Cosa? Mi fai il dito medio. Io ti pago da bere e tu mi fai il dito medio.
Tre minuti e ventisette secondi di vantaggio. Eccolo che arriva.
Rocco, che minchia fai alla tua macchina?
Ti ho fottuto, Luca.
Sì, ma come fai?
Dammi una sigaretta.
Prendi la sigaretta. Ma facevi centotrenta all’ora in seconda.
No, è solo la tua impressione.
E adesso che fai con la sigaretta?
La sto accendendo.
E la accendi sul cerchione?
No, sul disco dei freni. È rovente, vuoi toccare? Anzi, fammi accendere sui tuoi dischi. Tu freni più di me.
Vaffanculo Rocco.
Ah ah, fanculo a te Luca. Andiamo al Mezzomondo, ti pago da bere.
No, Rocco, prima ti devo parlare. Facciamo un giro a piedi.
Come vuoi.
Luca fa un centinaio di metri in silenzio prima di aprire bocca.
Allora Rocco, ieri sera per la prima volta sei entrato in azione.
Sì, ho dovuto sparargli. Mi aveva fregato…
Aspetta. Però tu sai che neanche i cani si lasciano a metà. O si ammazzano o non si fa niente.
Si merita uno sguardo di traverso. Proprio lui viene a scassarmi la minchia sul fatto che non abbia ucciso Alex. Proprio lui che non ha avuto nemmeno il coraggio di finire chi gli ha ammazzato suo fratello. Adesso fa la predica a me. Eravamo insieme quando Luca ha riconosciuto l’assassino. Uno del quartiere, sui vent’anni. Luca sapeva che era stato lui a uccidere Ghiaccio. Un sabato notte di metà estate. Ghiaccio aveva ventitré anni. E non ho mai capito se il suo soprannome fosse riferito alla droga oppure ai cubetti che metteva in qualunque cosa bevesse, dall’acqua al whisky. Il sabato non usciva mai senza di me. Sniffavamo insieme. Quella notte però aveva voluto farsi un giro in più. Io cotto di ritorno a casa. Lui ancora fuori. Aveva rapinato cocaina a uno che conta. Non so chi abbia deciso cosa. Ma quella notte, anzi era già l’alba, Ghiaccio si era ritrovato fatto come uno straccio in macchina con i suoi assassini. Dicono sia andata così. Uno guidava. Il fratello di Luca era seduto davanti a destra. Il terzo, seduto dietro, ha impugnato la pistola e gli ha sparato dieci colpi. Il primo alla nuca. A tradimento. Gli altri in bocca, alla tempia, quattro al torace, uno al ginocchio, un altro alla coscia, l’ultimo all’addome. Poi hanno scaricato il cadavere lungo una stradina di campagna. E l’hanno arrotato. Sì, gli sono passati sopra con la macchina, mi hanno detto. Avanti e indietro. Altri però sostengono che non sia vero. Che sul corpo non c’erano segni di ruote. Alla fine hanno incendiato l’auto per cancellare le tracce. Forse perché non era una macchina rubata.
Luca non voleva sapere tutti i nomi di quelli che avevano visto Ghiaccio quella notte. Gli bastava scoprire chi si era seduto dietro suo fratello. Per quattro mesi ha indagato. Da solo. Senza dire niente a nessuno. Luca ha chiesto. Ascoltato. Interpretato. Sapendo bene che una domanda di troppo avrebbe decretato la sua morte. Interpellava le donne. Le donne dei boss sanno e non sparano. Qualche volta spifferano. Uccidere un povero ragazzo come Ghiaccio era stata una vigliaccata. Sparare a uno che non parla è una schifezza. Non perché fosse muto. Perché il fratello di Luca era silenzioso, introverso. Come fai a sparare a uno così? Nel quartiere se lo ricordano ancora quando un sabato pomeriggio si è comprato una Bmw nuova fiammante. E la domenica mattina l’ha volutamente distrutta davanti a tutti, divertendosi a sbattere contro muri e marciapiede. Un frastuono di cristalli rotti e lamiere piegate. Fino a quando la Bmw non è rimasta immobile ad arricchire la parata di carcasse abbandonate lungo la strada principale. Ghiaccio pretendeva cocaina senza soldi. E questo non può che creare nemici. Una sera piombò pistola in pugno a casa di un grosso trafficante. E fece un tale casino che i vicini chiamarono la polizia. Ghiaccio riuscì a fuggire. Il trafficante venne arrestato. Un’altra notte, in piazza, in mezzo al traffico dei tiratardi, infilò la pistola in bocca a un grosso spacciatore. E lo scaraventò sui sacchi della spazzatura ammassati sul marciapiede. Luca la mattina sistemava tutto. Telefonava al Calabrese, il boss. Parlava. Mediava. Pagava. Ma si preoccupava perché oltre a consumare cocaina senza limiti, suo fratello si comportava in modo scorretto. Sconfinava in altre zone. Soprattutto di questo Luca aveva paura. Che prima o poi qualcuno si sarebbe stufato di questo ragazzo che involontariamente cercava la morte. Ghiaccio aveva bisogno di aiuto. Non di una pallottola alla nuca. Troppo facile sparargli. Da dietro poi. Ecco perché non tutte le donne avevano accettato l’omicidio.
Alla fine Luca aveva scoperto il nome di quello che in macchina era seduto dietro suo fratello. O almeno, non so perché, si era convinto che fosse lui, Calimero, un tirapiedi arrestato due anni fa a Parigi pieno di cocaina. Un protetto dei Compari, i mammasantissima che ci riforniscono di droga. Lui e Ghiaccio andavano a scuola insieme. E proprio una sera di novembre, quasi un mese fa, Calimero ce lo ritroviamo davanti. Meglio, Luca se lo ritrova davanti. Quello sta tornando a casa a piedi. È solo. Cammina sfiorando i muri lungo una strada poco illuminata. Le sere di novembre a Milano sono sempre poco illuminate. La foschia umida si mangia perfino la luce che piove dai lampioni. È come se la città in autunno corresse dentro una lente sfocata. Luca carica Calimero sul motorino. E lo porta da me. Io sto aspettando un fornitore. Mi deve consegnare qualche pacco di eroina. Luca fa scendere Calimero. Mette il motorino sul cavalletto. Io dietro mi fermo a guardare.
Calimero si volta. Non immagina di essere in pericolo. Nemmeno io immagino cosa stia per succedere. Luca gli dice di andare dentro un portone, vicino ai giardinetti. Mi fa spostare. Lo raggiunge e gli spara addosso. Lo prende a un braccio. Non capisco se sia il destro o il sinistro perché tutte e due le braccia si macchiano di sangue. Quello comincia a fare lo slalom tra le macchine parcheggiate. E Luca di corsa dietro. Pum, pum, pum. Calimero cade. Luca da sopra gli spara ancora. Il cappotto nero lungo gli va quasi sotto le scarpe. Si è messo il cappotto elegante per vendicare suo fratello. Ma non lo ammazza quello. No, non lo vuole ammazzare. Ne sono sicuro. Perché da quella distanza minima, con la sua 44 Magnum, non gli avrebbe lasciato scampo. Invece niente. Subito dopo scappiamo a casa. Luca abita con genitori, fratelli e sorelle. Vede il padre e gli dice a bruciapelo: ho sparato all’assassino di mio fratello. Il papà si incazza di brutto. Non so perché glielo dice. Forse fanno così. Il padre sa tutto. È lui che incassa i soldi di Luca.
Rocco, a cosa stai pensando?
A Ghiaccio.
E che minchia c’entra mio fratello adesso?
Luca, attento. Sesse, sesse.
Sesse, dove?
Sulla macchina che è passata, la Uno grigia. Ci sono gli sbirri in borghese dell’antidroga. Non li vedi?
Ora sì, Rocco. Non ti voltare, li sto seguendo riflessi nelle macchine parcheggiate.
Riesci a vedere cosa fanno?
Si sono fermati. Sei accavallato, Rocco?
No, sono pulito Luca. E tu?
Ma ti pare che se avessi il ferro in tasca, me ne starei qui con te? Ci stanno guardando.
C’è quel rompicoglioni di Iuliano?
Non riesco a vedere tutte le facce. Solo quello che guida si è voltato verso di noi. Sta parlando.
È Iuliano?
No, non è il sovrintendente. È un altro di quelli in borghese dell’antidroga.
Luca, dimmi che minchia fanno.
Li sto guardando, aspetta. Niente, non fanno niente. Stanno già andando via. Allora Rocco, cosa c’entra mio fratello…
Luca, io e te continuiamo a lavorare insieme, vero?
Cosa vuoi dire, Rocco?
Dico che è meglio non insistere. Lasciamo perdere. Pensavo a tuo fratello, tutti i giorni e tutte le notti penso a tuo fratello.
Già, vedi cosa ha portato tutto questo?
Andiamo a bere, Luca.
No, facciamo il giro largo. Rocco, quando hai sniffato l’ultima volta?
Luca, ma cos’è, la mattina delle prediche?
Mi avevi fatto una promessa e io ti ho fatto una domanda.
E da quando ti interessi dei cazzi miei, Luca?
Non sono cazzi tuoi. Sono cazzi nostri.
Gli affari vanno bene. A parte lo sgarro di quella puttana di Alex, va tutto bene.
No, Rocco, non va bene. Da quando hanno ammazzato Ghiaccio, non gira più come prima.
Ma perché? Noi non siamo più la batteria del Fortino? Come fai a dire che non gira. Quest’anno ci siamo riempiti di soldi. Vendiamo chili di roba ogni giorno. I commercianti hanno paura e pagano. Come fai a dire che non gira più come prima?
Minchia, Rocco, ma ti sei guardato allo specchio stamattina? Guarda che faccia hai. Quando hanno ucciso Ghiaccio, mi avevi promesso che non avresti fatto la stessa fine. Guardati.
Ma io non sono Ghiaccio.
Hai pippato di brutto stanotte, si vede.
Ho scopato di brutto.
E hai pippato. Rocco, se un giorno ti trovo morto in un campo collassato di coca, ti sputo anche se sei morto. Giuro che ti sputo in faccia.
Noi la vendiamo la coca, perché non dovremmo usarla?
Perché noi siamo migliori di quelli che sniffano coca. Credi che non sappia cosa fai? Dalle dieci di sera a mezzanotte fai fuori venti pezzi, venti grammi di coca buona. A duecentomila lire al grammo, sono quattro milioni a sera. In due anni ti sarai infilato nel naso due miliardi. Due miliardi.
E che altro ci dovevo fare con due miliardi?
Tu finirai a comportarti come Ghiaccio. Tu finirai come Ghiaccio.
Tuo fratello mi diceva che voleva morire così. In battaglia.
Ma quale battaglia, Rocco. Volevamo diventare forti. Più forti di quelli che stanno sopra di noi. Credevamo che fosse meglio morire da leoni che vivere da conigli.
Io lo credo ancora, Luca.
Sì, ma guardati. Guardaci. Tu sei sfatto di coca. Io non ho più il mio fratello più piccolo.
Ma c’è il Fortino. La nostra famiglia è il Fortino. Io non ho nessuno al di fuori del Fortino. Ti sei dimenticato le nostre azioni, Luca? Come quando ci siamo fatti l’ottico che non pagava. Io a fare da palo a vedere che non arrivassero gli sbirri. Voi sulla macchina rubata. Ta, ta, ta contro le vetrine dell’ottico.
Rocco, ti sei chiesto perché ti lasciamo fuori negli ultimi tempi?
In che senso fuori?
Tu fai da palo. Non vieni con noi a sparare. E lo sai perché? Perché non ragioni più. Ti mandiamo a parlare con qualcuno. Ti diciamo vai a fargli un certo discorso. Solo un discorso, parole. Tu vai e gli spari un caricatore nelle cosce. Ma chi ti ha detto che dovevi sparare? E io poi a mediare, a fare falsa politica, a inventare storie, prima per la coca che Ghiaccio rapinava. E adesso per evitare che qualcuno venga a sparare a te. Ecco dove ci ha portati quella roba che ti riempie il cervello. Quella la dobbiamo vendere per fare soldi. Non la dobbiamo consumare noi. Ecco dove è finito il Fortino.
Luca, non ti riconosco. E l’amicizia, la nostra amicizia? La mia, la tua, quella degli altri della batteria? E le regole della nostra amicizia? L’onore. L’omertà. Il rispetto. Non possiamo fare falsa politica e poi sottrarci alle nostre responsabilità…
Dobbiamo finirla con tutte queste cazzate, irrompe Luca sottovoce.
Una voce per la prima volta spenta. Non l’ho mai sentito così. Lui si ferma qualche secondo a guardarmi negli occhi. Riprende a camminare.
Ma cosa dici, Luca?
Sono cazzate. Ci sto riflettendo da quando hanno ammazzato Ghiaccio. Rocco, non pensi che la nostra batteria stia insieme per soldi e non per amicizia?
Che minchia ne so io del perché gli altri stiano con noi. Stanno con noi perché noi siamo il Fortino.
Rocco, dobbiamo tirarci fuori prima che facciamo tutti la fine di mio fratello. La settimana scorsa gli sbirri hanno trovato una macchina piena di armi in via Capuana. C’erano mitra, fucili, pistole.
E allora?
Non erano armi nostre.
E allora?
Ma non capisci, Rocco?
Via Capuana non è la nostra zona.
Sì, ma confina con la nostra zona.
Hanno ingabbiato qualcuno?
No, non hanno arrestato nessuno, risponde Luca.
Le avranno fatte ritrovare, sarà il solito diversivo per farne passare altre.
Sarà come dici tu. Io comunque vorrei dedicarmi ad altro. Ho finalmente una ragazza che mi ama. Domenica l’altra siamo andati a vedere il derby allo stadio. Rocco, fuori del Fortino la gente non si spara. Vive. Ho deciso di prendermi la licenza media. A settembre mi sono iscritto a una scuola serale. Ho anche parlato con un prete. Mi ha presentato un gruppo di volontari. Stanno aprendo una cooperativa agricola lontano da Milano…
Luca è uno che picchia forte. Minchia, come è forte. Mi picchia se mi vede mentre sniffo. La devi smettere, grida. E giù botte. Oppure mi picchiava da ragazzetto in cortile, per farmi crescere. Mi diceva: vieni con me nel prato. Una volta nel prato mi ordinava: picchiami. E io invece di darle, le prendevo. Luca è piccolo. Ma in discoteca salta addosso ai buttafuori. Si arrampica su di loro. Gli dà quattro testate. E loro cadono stecchiti. Ecco, le ultime parole che ha detto sono una botta dritta nello stomaco. Una botta più forte, più violenta di tutte le sberle, tutti i pugni, tutte le testate che ho preso da Luca.
Un prete, hai detto: un prete?
Sì un prete, risponde lui. Uno famoso, che va anche alla televisione.
Minchia Luca, ma ti rendi conto? E magari ti sei anche confessato.
Ti sembro uno che si confessa? Ho solo detto che ho incontrato un prete. Non che mi sono confessato. Chi confessa i suoi crimini è un infame.
Ma un prete, tu?
Che minchia c’è da ridere, Rocco.
Poi dici che quello sfatto di coca sono io. Andiamo al Mezzomondo a bere un Campari.
No Rocco, non sto scherzando. Adesso vai a casa. Dormi, che hai una faccia che fa paura. Stasera ti aspetto al bar in piazza. Non ti lascio più solo la sera. Se torni a sniffarti, te la devi vedere con me.
Fanculo Luca.
Rocco, guardami negli occhi.
Che minchia vuole ancora. Luca è in piedi, accanto alla portiera aperta della sua fuoriserie rossa. Non dice altro. Saluta con un sorriso. Il suo sorriso. E quella bella faccia da schiaffi. I capelli neri, ricci. La mascella squadrata. Il fisico asciutto dentro il piumino rosso. I jeans risvoltati sopra gli scarponcini. Nessuno mi ha mai parlato così. Nessuno si è mai interessato alla mia salute. Non so più se Luca sia un compagno di bravate, il capo batteria o un fratello maggiore.
Ti aspetto stasera, Rocco.
Chiude la portiera rossa. Mette in moto. E se ne va piano verso la strada alberata dove ieri sera ho sparato a quella puttana di Alex. Prima che io metta in moto, le sue parole si ripetono nella testa. Ha paura. Ecco cos’è. Luca ha paura. Da quando gli hanno ammazzato il fratello non è più lui. Minchia, la madama. Un posto di blocco. E io giro a sinistra contromano così vi fotto. Luca considera la morte di Ghiaccio una sua debolezza. Non aver saputo mediare alle ultime spacconate di Ghiaccio. No, mi sta inseguendo la madama. Io penso alle parole di Luca e questi mi rompono la minchia. Vado o freno? Hanno messo la sirena. Freno. Minchia, non sono più io. Luca, le tue parole mi hanno fregato. Qui c’era da fare un inseguimento con i controfiocchi. E invece ho frenato. Eccoli a fianco. Paletta fuori.
Polizia, accosti e metta le mani sul volante, grida l’agente dal finestrino.
Certo che ho visto che siete la madama. Avete una discoteca che vi lampeggia sulla testa. Con una macchina così, chi dovevate essere?
Buongiorno, patente e libretto per cortesia.
Questo è pazzo. Controlla la patente e il libretto e mi piazza la fondina della sua pistola al finestrino. Proprio sotto il naso. Così mi invita a nozze. Gli prendi la pistola e bum. Minchia, che figura. Mi hanno fermato come un pischello. E io non sono scappato. Luca, è colpa delle tue parole.
Era vietata la svolta a sinistra, non ha visto il cartello? Scusi, sto parlando con lei, insiste l’agente.
Il suo collega è entrato sulla volante con la mia patente e il libretto. E parla alla radio. Questi sono nuovi, non si sono mai visti nel quartiere.
Scenda dall’auto, ordina l’agente. Metta le mani sul cofano e allarghi le gambe.
Tu guarda se questo imbecille mi deve perquisire qui, davanti a tutti. Ma che minchia ti ho fatto io? Non ho niente addosso e tu mi tocchi dappertutto.
Rimanga qui, dice l’agente dopo essersi soffermato a tastare i polpacci.
Questo è buono, lo avverte il collega dall’auto e si avvicina con la patente in mano.
Bene: rapina, spaccio, lesioni personali, estorsione, elenca. Dove sta andando?
E che cos’è questo, un confine? Una dogana? Da quando uno deve dire alla polizia dove sta andando?
Le domande le facciamo noi. Come fa ad avere questa macchina?
Minchia, ma oggi è davvero la giornata delle prediche.
Risponda. Lei ha una macchina che non tutti si possono permettere.
Mi piacciono le macchine, è reato?
No, ma un ragazzo di vent’anni di solito non gira con un bolide da rally, che lavoro fa?
Recupero crediti.
Mi è uscita così, senza pensarci. La mia faccia è incazzata. Ma dentro mi è scoppiata una potente risata. Meno male che non ho detto droghiere. Oggi è la giornata delle prediche. E di Luca. È colpa tua se mi viene da ridere, Luca. Anzi, di tuo padre. Una sera al telegiornale regionale hanno mandato in onda un’intervista a tuo padre perché c’era stato nel quartiere non so quale casino. Il giornalista gli chiede: lei ha una macchina di lusso, che lavoro fa? E Vincenzo, il papà di Luca, serissimo: recupero crediti, dice. Un genio. Non avevo mai visto la nostra attività da questo punto di vista. Certo, recupero crediti. Chi non paga, si prende quattro colpi nelle cosce. E poi sai che macchina di lusso. Era una vecchia monovolume gialla. Come fai a chiamare macchina di lusso una monovolume? Questa è falsa politica.
Per quale società di factoring lavora?
Oh, ma questo sbirro da dove l’hanno mandato? Sembrano bibì e bibò. Uno alto e uno basso. Questo, quello alto, è proprio scemo. Non ha capito lo scherzo. E io non ho capito che cosa ha detto.
Eh?
Per quale società di factoring lavora, ripete l’agente basso.
E chi l’ha detto che lavoro in fattoria?
Allora, parliamoci la stessa lingua, interviene a voce alta il collega. Se pensi di prenderci per il culo, noi ti smontiamo la macchina finché non troviamo qualcosa. E ti schiaffiamo dentro.
Lascia perdere, lo ferma l’agente basso. Resta qui con lui, che ci chiamano alla radio.
Volante Musocco, gracchia la radio.
Avanti, risponde l’agente basso.
Al commissariato di zona dicono che non hanno nulla da notificargli, per noi potete lasciarlo andare.
Ricevuto.
Ecco che ritorna il bassotto. Adesso si inventeranno qualcos’altro per scassarmi la minchia.
Tenga la sua patente, il libretto. E anche il verbale della contravvenzione. Lei ha svoltato a sinistra con il divieto.
Puttana, pure la multa stamattina. Sai che gli faccio? La patente e il libretto li metto in macchina. Il verbale glielo straccio a pezzettini. Ma no, lo appallottolo e lo butto per terra. I due agenti osservano la scena e ritornano alla loro auto senza dire nulla. E adesso che avete da guardare? Volete sapere dove vado, eh? E io vi deludo. Perché sto andando a casa a dormire. Luca vuole che vada a dormire. E io obbedisco. A dormire. Dove cazzo trovo un parcheggio? La lascio qui, sul prato. Tanto oggi lavora la batteria di Luca.
Guardatemi la macchina, il primo che si avvicina gli tagliate le mani.
Il capo delle sentinelle risponde con una smorfia del mento. L’idea di chiudere il cancello con una catena e lasciare aperto il cancelletto è stata geniale. Da un anno la polizia non entra più nel giardino tra le nostre case. Non possono più fare i blitz, come li chiamano loro. Se si avvicinano a piedi, si beccano i sassi. Sì, non serve sparare. Bastano i sassi a scacciare gli sbirri. Una mattina Blues, l’altro fratello di Luca, ha fatto cadere un vaso di gerani dal terzo piano. Uno di quei vasi lunghi e pesanti. La misura giusta per prendere due sbirri contemporaneamente. Li ha sfiorati di pochi centimetri. Se li centrava, li ammazzava. Meglio così. Sai il casino poi con due sbirri morti. Certo, Blues poteva andare a pretendere quattrocento milioni dai capi della ’ndrangheta. Di solito per ogni sbirro ammazzato pagano duecento milioni. Due sbirri morti, cifra raddoppiata. Ma per quattrocento milioni avremmo perso chissà per quanto tempo i miliardi che incassiamo ogni mese. Posti di blocco. Retate. Arresti. Se gli sbirri vogliono, non ti fanno lavorare.
Minchia che puzza. Cosa mangiano i vicini che cagano questa puzza? Mi viene da ridere. Perché anche la merda ci è utile. Una notte quelli del commissariato sono venuti con i cani. Sembrava carnevale. Erano vestiti da carnevale. Avevano il passamontagna nero sulla faccia. Sembravano banditi. E a momenti non si sparano fra di loro. Fermo. Fermo tu. Butta la pistola o sparo. Silenzio. Noi della batteria nascosti sui tetti. Sentiamo tutto. Si accende una pila. Il fascio di luce illumina una faccia. Coglione, sono il collega. Per poco non ti sparo. Sai che risate. Una sparatoria tra sbirri. Quella ci manca ancora. Però quella notte i cani antidroga sono scesi in cantina e hanno trovato gli imboschi. Ci hanno portato via cinque chili di eroina. Allora abbiamo avuto una grande idea. Rompere i tubi della fogna e allagare le cantine di merda. Adesso i cani non vanno più nelle cantine. Si rifiutano. Li abbiamo visti una volta. Lo sbirro lo tirava con il guinzaglio dentro la merda. E lui, il cane poliziotto, no. Puntava i piedi sulla porta. Cioè le zampe. E da lì non si muoveva. Come si chiama? Ammunitamento. No, ammutinamento. I cani antidroga si rifiutano di annusare la droga. E lo credo, con questa puzza di merda che sale dalle scale. Anche i cani degli sbirri hanno la loro dignità. Noi pure dovremmo avere la nostra dignità. La puzza è insopportabile. Ma la merda protegge i nostri affari. Gli sbirri mica la possono arrestare. E così, evviva la merda.
La merda serve anche a zittire le spie infami. Un giorno diedero una lezione al vecchietto rompicoglioni dell’ultimo piano. Non l’ultimo piano del mio palazzo. Il Fortino ha tanti palazzi nel suo giardino. Ci eravamo convinti che fosse quel vecchio un po’ strano a protestare con il commissariato. Anzi, ne eravamo certi. Abbiamo due talpe nel commissariato. Lui quasi ogni settimana andava in ufficio a chiedere di arrestarci, di fermarci, di fare questo e quell’altro. Ma anche se è un infame, come fai a sparare a un vecchio? I vecchi vanno compatiti. Allora gli hanno mandato un avvertimento, una specie di ambasciata. Hanno deciso tutto i ragazzi della batteria. Credo che abbiano dovuto cagare per giorni dentro un secchio. Poi hanno preso la merda e gliel’hanno spalmata sulla macchina. Non fuori. Dentro. Chili di merda spalmati sui sedili. Sul volante. Sullo specchietto retrovisore. Sul cruscotto. Sui finestrini. Sui tappetini. Mi sono perso la sua faccia la mattina che l’ha scoperto, avrei voluto esserci. So che cercava un carrozziere che gli ripulisse la macchina. Non ha trovato nessuno disposto a mettere le mani su tanta merda. Ora la macchina è parcheggiata davanti al Fortino. Da mesi è lì, piena di merda secca. Il vecchietto non ha soldi per comprarsene un’altra. Vuol dire che morirà a piedi. Minchia, questa scala non finisce più. Perché non ci hanno piazzato un bell’ascensore invece di tanti gradini di cemento? Il Comune ci ha dato una casa da pezzenti. Quando metterò da parte abbastanza soldi, andremo via di qui. Lo giuro su mia mamma, io e lei andremo via. Strano che la porta sia aperta. Mia madre non è in casa. Non c’è nessuno, bene. Mi calo un litro di birra e mi sparo una bella dormita. Così Luca è contento. Che freddo che fa in casa. Ci vorrebbero i massaggi di Katia. Minchia che scopata, Katia. Ti sento ancora addosso. Magari ti sognassi adesso, Katia. Anzi, sai che faccio? Sto con Luca stasera. E dopo vengo da te. Luca vuole che smetta di pippare. Mica mi ha detto che devo smettere di scopare.
E che ore sono? È già buio fuori. Allora è tardi. E mia madre? Mia madre è ancora in giro. Uhm, che dormita. A giudicare dalle mie parti basse, ho sognato Katia. Luca non mi ha detto a che ora mi aspetta. E arrivare prima di lui in piazza non mi piace. È troppo esposta. Passano gli sbirri. Ti vedono e ti scassano la minchia. Andrò prima al Mezzomondo a sentire come girano le cose. Il Mezzomondo è appartato. La via è stretta. Un senso unico. Il senso unico è sempre meglio di una piazza. La polizia può arrivare da una sola direzione.
Fammi un Campari.
Un Campari al compare, annuncia a tutti Mimmo, il barista del Mezzomondo.
Minchia, mi toccherà passare la serata con Luca. Non mi dispiace, è un amico. Ma vuoi mettere la differenza di una serata con Katia. Invece dovrò ascoltare le prediche di Luca. Va così oggi. Il prete gli ha fatto male. Luca mi sorprende sempre. Andrò da lui alle otto. Così non arrivo in piazza per primo.
Mi dici quando sono le otto?
Le otto di domani mattina? Va bene, se la ride il barista.
Bravo, se insisti ti faccio tenere aperto tutta la notte. No, le otto di stasera.
Hai tempo, Rocco, non sono ancora le sette. Hai più di un’ora.
Allora fammi un caffè.
Un caffè per il dottore.
Macché dottore.
Chissà se quella puttana di Alex ha ancora il coraggio di farsi vedere in giro. A parte Luca, nessuno è venuto a chiedermi della questione. Nessuno della polizia intendo. Significa che Alex ha imparato la lezione. Vorrei tanto sapere cosa ha raccontato in ospedale. Perché è sicuro che sia andato in ospedale. Camminavo, avrà detto, e qualcuno mi ha sparato alle spalle. Non l’ho visto, non so perché, non ho nemici. Bravo Alex. Il piombo quando serve fa bene. Raddrizza i pensieri. E piega le gambe. Bella questa. Proprio qui, su questo tavolino in formica, l’altra sera Alex si è giocato le sue gambe. Faccia d’Angelo, uno dei capi batteria, mi dice che Alex ha rubato le bustine dal nostro imbosco. Allora ci diciamo: a quello bisogna fargli del male. E neanche i cani si lasciano a metà. O si ammazzano o non si fa niente. Forse ha ragione Luca. Ma perché quello poi mi parla del prete, della vita, del fatto che è innamorato, se voleva che ammazzassi Alex? È proprio vero. Quando si è innamorati si diventa cagasotto. Si diventa rammolliti. No, Luca non è né un cagasotto né un rammollito. Forse è naturale che sia così. Non lo so. Io scopo, ma non mi innamoro. Quindi non ho paura di niente. Forse è naturale. Com’è naturale che ogni anno arrivi il Natale. Minchia, tra poco è Natale. Un’altra giornata di merda. Odio quando arriva il Natale. Sì, è un periodo felice. A Natale e a Capodanno la gente si fa di più. Le vendite di eroina e cocaina vanno alle stelle. Ecco perché le chiamano le stelle di Natale. Forse perché girano più soldi. O forse perché la gente si scazza e invece di farsi le solite menate con i regali, la cena, gli auguri si spara una dose in vena o una sniffata nel naso ed è più felice. Il Natale è anche il periodo in cui si fanno le rapine migliori. Ogni negozio, ogni farmacia, ogni vecchia rincoglionita per strada è piena di soldi. Non serve nemmeno il ferro. Basta tenere la mano in tasca. Quelli credono che sei armato e ti danno tutti i soldi che hanno. Poi però il giorno di Natale è una palla. Tutti pensano ai cazzi loro. E io e Ghiaccio ci ritroviamo a pippare come matti fino a notte. Per poi calarci litri di birra e rallentare i battiti del cuore. A volte ci sembra che il cuore stia per scoppiare talmente va veloce. E allora giù birra. Così da una parte sei eccitato e sveglio per la coca. Dall’altra sei stirato e ubriaco per la birra. Alla fine crolli sul letto e passi un giorno a dormire. E poi… Minchia, ma Ghiaccio non c’è più. Come passo il Natale quest’anno? Ecco cos’è la morte di un amico. È il fatto che non puoi più farti una bella pippata in compagnia. Ma cos’è che mi ha fatto venire in mente il Natale? Al di là della vetrina del bar, in cima al davanzale di un balcone al quarto piano, lampeggiano i colori di un piccolo abete. È colpa di quell’albero se mi sto facendo tutte queste menate sul Natale. La porta del bar si apre con un botto. E che minchia è?
Rocco, Rocco, hanno fatto del male a Luca.
È un’amica di Katia. Ha spinto con tutte le sue forze la porta. Tanto che la vetrina accanto continua a vibrare. I nostri volti, le luci e il bancone riflessi nella parete trasparente tremano ancora.
Ma che dici, cosa è successo a Luca?
Rocco, in piazza, in piazza, in mezzo alla piazza.
In certi momenti la vista dimentica tutto quanto c’è intorno. Non vedo più nulla. Soltanto la strada. L’asfalto del marciapiede e i miei passi. La piazza è dietro l’angolo. A meno di duecento metri. Faccio prima a piedi. Luca arrivo. La piazza è piena di gente. Minchia, quanta gente. Ci sono già gli sbirri. Una macchina dei carabinieri e due della polizia. Ecco Coscia, il nostro armiere. È già arrivato anche lui. Corre verso di me.
Rocco, dice Coscia sottovoce, dietro quelle macchine ho imboscato un ferro. È una P38 carica, prendila tu. Non si sa mai.
Fisso la sua mano mentre indica una fila di auto parcheggiate. Non gli rispondo nemmeno. Cambio direzione. E senza farmi vedere dagli sbirri vado a prendere il ferro. L’imbosco è sotto il parafango di una Alfa Romeo. Un rottame senza targa, grigio di smog e di merda di piccione. È fermo qui da mesi. Le armi si lasciano nei punti strategici. Nel quartiere siamo pieni di punti strategici. E siamo pieni di armi. I colpi sono tutti nel caricatore. L’impugnatura gelida della calibro 38 scivola nella tasca destra del giaccone. Ma dove minchia sei, Luca?
Guardano tutti nella stessa direzione. Sulla grande aiuola centrale. Quella intorno alla quale girano la strada e i binari del tram. I binari della corsa in macchina di stamattina. Più ti avvicini al centro della piazza, più l’ammasso di gente si addensa. Corpi contro corpi che non ti lasciano avanzare. Via, e tu togliti, fatemi passare. Ma dov’è Luca? Toglietevi. E vaffanculo, dov’è Luca? C’è un varco al centro della folla.
Cazzo. Cazzo, Luca. Cosa ti hanno fatto? Sei pieno di buchi, Luca. Sembra che sorridi con quella smorfia da schiaffi. E sei pieno di buchi. Luca. Il sangue nei capelli. Il tuo sangue nei capelli. Ti hanno bucato perfino la guancia. Quella guancia su cui si scolpiva la fossetta del tuo sorriso, quando mi picchiavi e mi prendevi per il culo. E ti hanno bucato in mezzo ai capelli. Pure il tuo piumino è pieno di buchi. Buchi grossi. Pallettoni da caccia al cinghiale. Manco fossi un animale, Luca. Un cinghiale lo ammazzi con un pallettone. Non con una raffica di pallettoni. Come ti hanno ridotto? Te ne stai sdraiato sull’asfalto sporco. Vicino all’aiuola con l’erba bruciata dal gelo. Non hai avuto scampo. Ancora pochi metri e ti saresti protetto dietro questa Panda parcheggiata. Bastardi. Si sono perfino presi gioco di te. Ti hanno ammazzato davanti al cartello con la freccia e la scritta Cimitero Maggiore. Ed eri qui per me, Luca. Aspettavi me. Ma perché non sono venuto qui prima? Così a quelli facevamo vedere chi siamo noi del Fortino. Nell’unico momento in cui hai avuto bisogno di me, io non c’ero. E non c’ero quando hanno ucciso Ghiaccio. Ti hanno devastato, Luca. Ma no, adesso non possono uscirmi le lacrime. No, un vero uomo piange d’imbosco. Nessuno deve vedermi piangere.
Questi bossoli li vedete? Guardateli bene, urla all’improvviso un anziano in mezzo alla folla di curiosi. Alza un pugno pieno di cilindretti di ottone e grida ancora più forte. Guardateli bene, dice, perché questi sono bossoli dei Compari. Sono loro che hanno fatto ammazzare mio figlio. Avevano detto che era pace, che era tutto a posto. Ai Compari li restituirò.
Minchia, è il padre di Luca. Se li ha raccolti così lontano dal cadavere, significa che la piazza è ricoperta di bossoli. Ma quanti erano a sparare? No, Vincenzo, sbagli. Come faccio a raggiungerti per fermarti? Non devi dire queste cose in pubblico. Questa è tutta pubblicità. Noi dobbiamo piangere in silenzio. La vendetta non si annuncia. Si serve in silenzio.
U figghiu miu, u figghiu miu intelligente, urla l’anziano padre e si fa largo verso il cadavere.
Cosa fanno gli sbirri? Stanno sbarrando il passo al padre di un morto. Bastardi, bastardi, non si ferma il padre di un ragazzo morto. Devo alleggerirgli la morsa. Serve un diversivo.
Cosa fa quello? Giù dalla volante, grida un poliziotto in divisa.
Venite a prendermi. Io salto, salto, salto.
Ma sta saltando sul cofano della nostra macchina. Collega, aiutami a fermare quel pazzo.
Salto, salto, salto.
Giù, giù dal cofano, maledetto, ordina uno dei due poliziotti mentre si avvicina con il collega.
La folla di colpo sbanda. Come se avesse ricevuto una vigorosa spinta alle spalle. Crescono le grida. Volano sassi. Bottiglie. Prima due, tre. Poi una grandinata. Ci voleva. Così i due sbirri hanno altro di cui occuparsi.
Assassini. Assassini. Assassini, gridano nella folla.
Li riconosco. Li riconosco uno per uno. Sono i ragazzi della batteria. Le vedette. Le sentinelle. Gli spacciatori. Sono tutti qui. E le donne. Tante donne. Sono le madri. Perfino i bambini sono qui.
Riprendiamoci Luca. Prendiamolo noi, annuncia la più esagitata delle donne.
Eccola. È mia madre. È un momento tragico e mi viene da ridere. Sono orgoglioso di te, mamma.
Disponetevi a protezione del cadavere, grida un poliziotto in borghese, non devono portarlo via. Mandatemi i rinforzi, ordina poi nella grossa radio ricetrasmittente azzurra che tiene in mano, sì, il reparto mobile. No, non solo la squadra mobile, anche il reparto mobile. Qui si vogliono rubare il cadavere. Siamo circondati e ci tirano di tutto.
Ricevuto dottore, li stiamo mobilitando dal contingente in piazza Duomo, gracchia la radio.
Altre radio di altri sbirri diramano ordini, vie, nomi, indirizzi degli interventi in corso. In piedi sul cofano della volante si vede e si ascolta tutto. Da qui sembra di sentire ogni singola voce, ogni parola, ogni rumore della battaglia. All’improvviso tutte le radio trasmettono simultanee lo stesso messaggio:
Il cadavere è stato identificato per Luca… Nato il 25 marzo… È deceduto. È stato attinto da numerosi colpi. Dai bossoli si tratta di calibro 9 e 7.62. Attenzione: gli esecutori potrebbero essere in possesso di armi da guerra. Potrebbe trattarsi di una mitraglietta calibro 9 e di kalashnikov calibro 7.62. Ripeto: fate molta attenzione. Le auto da ricercare sono due. Un’Alfa 33 Station Wagon… Dell’altra, disconoscesi il modello.
Luca, chi ti ha fatto questo saprà che non sei solo. Saprà che fino a quando ciascuno di noi è vivo, dovrà avere paura. Luca, tutto il Fortino è qui per te. Peccato che tu non possa vederci. Oh, c’è perfino la stampa. I flash di due fotografi si riflettono sulle facciate grigie delle case. Luca, è fantastico tutto questo. Stanno prendendo a calci le macchine degli sbirri. E loro intorno al tuo cadavere continuano a picchiare duro con i manganelli. Minchia, ma un lenzuolo? Possibile che ancora nessuno abbia avuto pietà del tuo sguardo da morto. Mazza, che botte. Hanno circondato anche uno in borghese. Forse uno sbirro. O un giornalista. Le sirene ci sono addosso. Io di solito scappo quando sento le sirene. Adesso resto qui a guardarmele arrivare. Dai pullmini scendono sciami di sbirri con i caschi e gli scudi. Ehi, ma che minchia fanno quelli? Hanno i fucili.
Attenti, attenti, gli sbirri hanno i fucili.
Se sparano li stendo con la P38. Giuro che li stendo. Ma cosa mettono sui fucili? Cosa sono quei missili? Volano con un sibilo nell’aria gelida. Decorano il cielo buio con lunghe scie bianche. Per ogni missile che parte, risuona uno scoppio sordo. Luca, sembra la notte di Capodanno. Dovresti vedere cosa stanno facendo per te. Dai piedi della battaglia salgono sbuffi di fumo. Sassi contro manganelli. E perché adesso tutti si allontanano? Perché indietreggiano verso i palazzi del Fortino? Minchia, come brucia questo fumo. Brucia gli occhi e la gola. Gli sbirri con i caschi approfittano del vuoto che si è aperto in mezzo alla strada e lo occupano. Si allineano dietro una parete di scudi e manganelli. Le mamme continuano a gridare. Le ultime arrivate hanno saputo soltanto ora che Luca è stato ucciso e urlano il loro dolore. I ragazzi della batteria sono indietreggiati fin sotto i due lampioni spenti della strada. Lì è troppo buio perché li si possa vedere in faccia. Arriva ancora qualche sasso. Sarà meglio scendere dal cofano della volante. Eccomi qui, Luca. Sono vicino a te. Mi hanno lasciato avvicinare al tuo corpo. Ci dovevamo vedere proprio adesso, Luca. Fa freddo stasera. Finalmente ti hanno coperto con un lenzuolo.
Che casino, dice l’agente di guardia al cadavere salutando un poliziotto appena arrivato.
Fosse per me, si dovrebbero ammazzare tutti tra di loro, gli risponde il collega, così noi avremmo meno lavoro.
E perché mi guardi? Perché dici queste cose e mi guardi? Forse ti riferisci a me. Le vuoi dire a me. È come se le avessi dette a me. Vorresti vedermi a terra, accasciato, snodato? Come è adesso il corpo di Luca? La mano destra stringe l’impugnatura calda della P38. La mia mano destra affondata nella tasca del giaccone. Io ti sparo in bocca. Io non ci penso due volte a spararti in bocca. Pezzo di merda di uno sbirro, vediamo se hai coraggio. Non si parla così davanti a un cadavere.
Che cazzo c’è da guardare, grida il poliziotto.
Si è accorto che anch’io lo sto osservando. Sa che sto pensando a lui. Ti fai grande perché indossi la divisa. E non vali nemmeno il costo della pallottola, pezzo di merda. Meno male che sono arrivati gli sbirri in borghese della squadra mobile. Tolgono il lenzuolo per guardare il cadavere. Oh Luca, come sei ridotto. Ci sono tutti. Quelli dell’antidroga. Quelli dell’antirapine. Quelli della Omicidi. Luca, sono qui tutti per te. C’è anche quella vecchia conoscenza che mi ha messo le manette una volta. Mi vede e si avvicina.
Che brutta fine il tuo amico, dice la vecchia conoscenza, sottovoce, con riguardo.
Già.
Eri qui quando gli hanno sparato?
No.
Hai qualche idea di chi possa essere stato?
No.
E mica lo vengo a dire a te chi è stato. Tu sei uno sbirro. Io non sono uno sbirro. Però questo non te lo dico. Questo lo penso. E lo penserò sempre. Io non sono un infame.
Allora è meglio se ti allontani un po’, per favore, dice il poliziotto della squadra mobile, adesso dobbiamo lavorare. Non possiamo lasciare qui il corpo del tuo amico.
L’ho guardato abbastanza il mio amico. Senti, posso prendermi il lenzuolo?
La vecchia conoscenza si guarda intorno. Forse non sa se sta facendo una cosa giusta. Poi le sue mani avvolte nei guanti di lattice si chinano e afferrano il lenzuolo macchiato di rosso.
Tieni il lenzuolo, ma adesso allontanati.
Luca, Luca, stringo nelle mie mani il tuo sangue. Mi macchia le dita. Lo odoro. Lo sento. Meglio lasciare prima la pistola all’imbosco. La vendetta ha bisogno del suo tempo. Ma il prossimo, Luca te lo giuro, non lo lascio a metà come Alex. Il prossimo lo finisco. Perché il prossimo sarà chi ti ha fatto questo, Luca. I tuoi assassini saranno i miei primi cadaveri.
La porta del Mezzomondo si apre facendo tremare un’altra volta la vetrina. Che minchia fanno? Luca è ancora per terra e loro sono qui a bersi l’aperitivo. Guarda Faccia d’Angelo. Guarda i suoi compari. C’è tutta la loro batteria. La batteria di Luca è a prendere a sassate la polizia. E questi sono al bar. Anche voi siete soldati del Fortino. Io ho bisogno di voi. Luca adesso ha bisogno di voi. Il lenzuolo si allarga per terra. Sotto i faretti della sala, le macchie di sangue si aprono sul pavimento come papaveri. Loro guardano in silenzio.
Chi è veramente amico di Luca, strappi un pezzo di questo lenzuolo sporco del suo sangue e lo tenga con sé. Se lo conservi, lo dico a tutti voi.
Qualcuno si china sul rettangolo di stoffa. Faccia d’Angelo resta appoggiato al bancone.
Andiamo a prendere le armi. Io so chi ha fatto del male a Luca. Facciamolo subito. Andiamo e li stendiamo tutti.
Lui, Faccia d’Angelo, ascolta le mie parole pronunciate sottovoce. Mi guarda. Non risponde. Forse perché non ha il tempo di rispondere. E io di sentire la sua risposta. La porta di vetro si riapre con un frastuono.
Polizia, annuncia uno sbirro in borghese.
Ma tu guarda chi c’è fuori in strada. Flaviano Iuliano, il poeta. Lo sbirro che da un anno ci sta scassando la minchia. Il lecchino del magistrato. Lui scrive verbali. Scrive denunce. Scrive, scrive. Un poeta. Perché non entra? Così finalmente ci guardiamo negli occhi. Minchia, come si era incazzato quella volta che gli avevamo scritto noi. A modo nostro. Lo spray nero, in grande sul muro alla fine della strada principale: la talpa è con noi, stronzo lecchino del magistrato, Iuliano sei una merda, neanche lo sbirro sai fare. Non una, due talpe erano con noi. Due poliziotti nel commissariato di zona. Il sovrintendente Iuliano è apparso all’improvviso nella squadra antidroga. Non so da dove minchia sia arrivato. Dicono in giro che venga dai reparti speciali mandati sulle montagne in Calabria, gli sbirri spediti a cercare i ricconi sequestrati dalla ’ndrangheta. Prima del suo arrivo, i suoi colleghi si erano stancati di darci la caccia. Senza auto di servizio, senza carta per stampare le denunce, senza computer, forse avevano cominciato a pensare che fossimo invincibili. Ci consideravano un pezzo inevitabile del quartiere. Come il traffico, le case popolari, lo smog. Così intervenivano soltanto se combinavamo grossi casini. Per le bustine no, per lo spaccio non uscivano nemmeno dall’ufficio. Luca dice… Minchia Luca, non ci sei più. Luca diceva, non so da chi l’avesse saputo, che la questura aveva dato ordine alle volanti di non avvicinarsi al Fortino senza rinforzi. Quindi le volanti venivano a scassarci la minchia soltanto quando succedeva qualcosa di pesante. Come quel sabato di fine inverno, nove mesi fa, quando Luca e gli altri hanno sparato con il mitra dentro l’appartamento dei veneti.
I veneti sono una famiglia che non conta una minchia. Nel senso che lavorano. Una famiglia regolare, come si dice. Il padre fa il piastrellista. La madre non so. Hanno sei figli giovani. Giancarlo, Marino, Piero, Antonio, Sandra e Patrizia. Quel sabato mattina il padre pretende di aprire il cancello del Fortino per entrare con la sua misera Panda. Dice che deve scaricare la spesa. Che il cancello è di tutti. Che va lasciato aperto. Che noi non abbiamo nessun diritto di chiuderlo con la catena. Che la catena è abusiva. Che se proprio vogliamo chiuderlo, dobbiamo aprirlo quando qualcuno vuole scaricare la spesa. E minchiate di questo tipo. Solo che se le vedette hanno ricevuto da noi l’ordine di fare una cosa, la fanno e basta. E poi mica puoi chiedere all’ultimo momento, a mezzogiorno, di aprire il cancello del Fortino. Non ricordo se ci sia anche Faccia d’Angelo già a quell’ora. Insomma, parla e riparla, accusa e contraccusa, alla fine il piastrellista si prende un ceffone sonoro. Uno dei figli, il più alto e grosso, è accanto a lui e non abbassa la testa. Afferra quello che gli ha aggredito il padre e lo colpisce con uno o due pugni. Poi incassa a sua volta un destro da campionato mondiale dei pesi massimi. Una botta da spaccargli il setto nasale. I veneti credono che sia finita lì. Riescono a scassinare il lucchetto. Aprono la catena. E scaricano la spesa entrando in macchina fin sotto casa loro. Abitano al piano rialzato, nel palazzo più distante dal cancello, il settimo. Luca è presente alla discussione. Ci sono anch’io e qualcun altro.
A quel punto io me ne vado. Non ricordo dove. Forse, essendo sabato, vado a pipparmi l’anima. Luca convoca i più grandi del Fortino e decidono di agire subito. Sarà stata l’una o l’una e mezzo. La famiglia dei veneti è seduta a pranzo. Una delle figlie è in bagno in piedi al lavandino. Dalle finestre al piano rialzato li vedono tutti. Un bel quadretto familiare. Me l’hanno raccontata proprio così. Luca non partecipa. Manda avanti suo fratello Ghiaccio. Gli altri tre sono i cecchini della nostra batteria, Faccia d’Angelo, il Massa e il Rosso, che è anche il papà di Samanta, la mia fidanzata storica quando eravamo bambini nel cortile. Loro sono sotto il piano rialzato con la santabarbara. Una mitraglietta Uzi o una M12, in quel periodo le abbiamo tutte e due. E tre pistole calibro 9 e 7.65. Ta ta ta ta ta ta ta ta ta. Pum. Pum. Pum. Le finestre in frantumi. Le schegge di cemento e intonaco che grandinano dai muri. Il lampadario a pezzi. L’arredamento pieno di buchi. Le grida. La fuga dei nostri lungo i binari della ferrovia. E quarantasei bossoli per terra. Minchia, quarantasei. Ecco quel sabato sì, la polizia è arrivata in forze. Anche i carabinieri. Sono venuti a prendere me. Mi hanno perfino arrestato. Poi si sono convinti che con la sparatoria io non c’entravo. Ma gli altri giorni no. Non si vedeva nessuno. Gli sbirri non si muovono per qualche bustina da cinque grammi. O meglio, non lo facevano prima che in commissariato trasferissero quel rompicoglioni del sovrintendente Iuliano.
Lui da noi veniva in moto. Non con la moto della polizia. No, con il suo chopper personale. Veniva davanti al cancello. Ci guardava. Ci chiamava uno per uno. Se non andavamo da lui, quello la volante la faceva arrivare subito. Non è che ti arrestassero. Ma ti bloccavano le vendite. Un tossico non viene a comprarsi una bustina davanti a una pattuglia della polizia. Anzi, la prima volta che l’ha visto, Blues gli ha dato il benvenuto come al solito a sassate: Iuliano non si è mosso di un centimetro. Puoi capire la sorpresa. Noi del Fortino siamo riusciti a suon di botte a far spostare di un chilometro il capolinea del tram che prima era proprio davanti al cancello. Perquisiamo i camion della nettezza urbana ogni volta che vengono a raccogliere la spazzatura: o accettano o non passano. Controlliamo la posta, sì apriamo e leggiamo le lettere. Scortiamo fino al pianerottolo medici, preti e chiunque venga a trovare qualcuno. Proibiamo di stendere il bucato ai balconi perché potrebbe essere un segnale in codice per gli sbirri. Abbiamo devastato l’asilo e la scuola elementare accanto al Fortino fino a quando non hanno capito che dovevano togliere le tende alle finestre. Abbiamo fermato e identificato i genitori di quei bambini. Abbiamo sequestrato le macchine fotografiche agli studenti di architettura che, chissà per quale progetto, erano venuti a scattare foto alle nostre case. E a noi lì davanti. Abbiamo fatto tutto questo per impedire che gli sbirri potessero travestirsi da tranvieri, netturbini, postini, medici, preti, parenti, genitori, insegnanti, bidelli, architetti, studenti. E poi ti arriva uno tutto solo con il suo chopper e ti dice che siccome lui è uno sbirro del commissariato, noi gli dobbiamo rispondere.
Luca una sera mi ha raccontato che Iuliano gli aveva chiesto addirittura di fare una sfida a calcio. Gli sbirri contro i ragazzi del Fortino. Uno come me, come Luca, come Faccia d’Angelo con gli sbirri non ci deve nemmeno parlare. Di solito quelli vogliono sapere gli affari tuoi e quelli dei tuoi amici. Ma Iuliano è uno che ti spiazza. Non ti aspetti che uno sbirro venga al Fortino a chiedere di fare una partita a calcio. E a Luca il calcio piace, piaceva troppo per fare il duro davanti a quella proposta. Così non gli ha risposto subito. Ne ha parlato prima con suo fratello Blues. Poi con me. Poi, forse, con qualche altro della batteria. Io sono troppo fatto per giocare a calcio. Ma anche se fossi Maradona, che minchia ti potevo rispondere, Luca. No. Non si gioca con gli sbirri. Se un giorno gli devi sparare, come fai a sparare a uno con cui magari la sera prima hai fatto una partita a pallone? Così la volta dopo che il sovrintendente Iuliano è venuto davanti al Fortino con il suo chopper, Luca gli ha risposto in questo modo: è meglio di no, altrimenti volerebbero scintille. Luca diceva che se andava avanti così i mammasantissima, quelli che stanno sopra di noi, a uno scassaminchia come Iuliano gli avrebbero fatto del male. A lui e a un altro agente della volante che, non appena ci allontanavamo dal Fortino, non ci lasciava respirare. Con l’agente abbiamo vinto noi. L’hanno trasferito un anno fa.
Perché Iuliano ancora non entra? Perché i suoi sbirri ci tengono bloccati qui dentro e lui se ne sta fuori a parlare al telefono? Mica siamo venuti al Mezzomondo ad aspettare i porci comodi di uno sbirro sovrintendente. O forse è lui che sta aspettando. Forse sì, sta aspettando rinforzi. Se è così, stasera anche il sovrintendente Flaviano Iuliano ha paura.
La strada si illumina di lampeggianti blu. Arrivano una volante e un pullmino carico di sbirri. Sono quelli con i caschi e gli scudi che hanno sparato i lacrimogeni contro i ragazzi del Fortino. Il pullmino si ferma davanti al bar. Gli sbirri restano a bordo. Mah. Ecco che Iuliano ha finito la telefonata. Viene dentro. Adesso ci divertiamo. Minchia, punta direttamente a me.
Tu vieni con noi, visto che c’entri con l’omicidio, dice senza perdere tempo.
Che infame che sei. Mi stai accusando di avere ucciso il mio amico. Non ti vergogni a pensare questo? Mi vergogno io per te. Lo sai benissimo che io non c’entro con la morte di Luca. E non te lo devo dire io.
Non parli, ti si è seccata la lingua in bocca? Muoviti, ordina il sovrintendente.
Io sparo ai pezzi di merda, non ai miei amici.
La frase cade come un sasso nel silenzio del bar. Faccia d’Angelo mi guarda. La forte mano destra di Iuliano si stringe intorno al bicipite del mio braccio sinistro.
Bravo, tu spari ai pezzi di merda. Allora andiamo in commissariato così ci racconti a chi hai sparato, dice Iuliano trascinandomi verso l’uscita del Mezzomondo. Questo ha abboccato, spiega subito dopo a un collega con i capelli tirati indietro dal gel. Ha ammesso che ha sparato a un pezzo di merda. Andiamo in commissariato e vediamo di farci dire chi è il pezzo di merda.
Ma io non ho ammesso una minchia. Cosa vogliono da me? Non mi lasciano nemmeno soffrire per la morte di Luca. Saliamo su una vecchia macchina del commissariato. È la Tipo grigia dell’antidroga che le vedette in motorino ci segnalano con il clacson non appena passa davanti al Fortino. Questi stronzi hanno deciso di non girare nella piazza dove hanno fatto del male a Luca. Fanno un percorso più lungo pur di non farmi vedere Luca per l’ultima volta. Iuliano è seduto dietro con me, alla mia sinistra. Il collega con il gel a destra. L’autista e l’altro sbirro seduto davanti sono due che non riconosco.
Spegni la radio, ordina Iuliano, altrimenti questo viene a sapere cosa stanno facendo i colleghi.
Nell’auto cala il silenzio. Solo il rumore del motore ci accompagna. Ecco la strada principale. Quella del semaforo e della gara in macchina con Luca stamattina. Lontano, dietro di noi, i lampeggianti blu che ancora rimbalzano sulle facciate dei palazzi.
Stai fermo e guarda avanti, ruggisce il poliziotto con il gel.
In fondo alla strada il finestrino di destra inquadra il Fortino. Le facciate bianche scrostate. I balconi con le tapparelle abbassate. Le carcasse delle macchine abbandonate sul prato davanti. La luce debole dei lampioni. Non c’è nessuno di guardia al cancello stasera. O forse sì. Non si capisce. L’immagine scappa in fretta dal finestrino. La vecchia Tipo gira a sinistra, proprio davanti al muro su cui avevamo scritto l’avvertimento a Iuliano. Ancora un incrocio. Ci si ferma davanti al commissariato. Un posto di polizia ricavato negli uffici dove c’era un’azienda. Sono stato qui l’ultima volta a fine giugno. Sempre per colpa di Iuliano. È arrivata una convocazione in commissariato, dice una mattina mia madre. Vado? Non ci vado. Poi vengo a sapere che è arrivata a tutti i ragazzi del Fortino. Perfino a Luca. Andiamo a vedere cosa vogliono, ci diciamo. Allora vado. C’è proprio Iuliano in ufficio. Mi portano da lui. E mi dice: le devo consegnare l’avviso orale del questore. E che minchia è questo avviso orale, ho pensato. Io di orale conosco solo una cosa in cui Katia è una dea scesa in terra. Lei deve cambiare condotta, continua Iuliano, altrimenti il passo successivo sarà l’applicazione delle misure di prevenzione. Non sapevo cosa fosse l’avviso orale. Ma le misure di prevenzione sì, le conoscevo già bene. È quando la polizia ti scassa la minchia al punto che non puoi uscire di casa la sera, devi andare a firmare in commissariato tutte le mattine, non puoi guidare la macchina. E pensare che a quest’ora sarei dovuto essere in piazza con Luca. Oppure già con Katia a farmi dare un avviso orale da lei. Ci sarebbe da ridere. Me ne sto qui, blindato da quattro sbirri. E penso agli avvisi orali di Katia.
Entri qui, dice il poliziotto con il gel.
È l’ufficio del sovrintendente Iuliano. Lo stesso dove mi hanno portato in giugno. Un locale piccolo e spoglio. Una finestra con le sbarre. Una scrivania. Tre sedie. Un armadio basso in lamiera. Nemmeno una foto alle pareti. Ma dove minchia è finito Iuliano? Devo guardarmi le spalle, non si sa mai. Eccolo che arriva. Entra anche lo sbirro con il gel e chiude sbattendo la porta alle spalle. I soliti trucchetti per metterti tensione. Guardate che con me non funziona. Mi verrebbe voglia di dirvelo. Fanno così perché ho solo vent’anni. Quando prendono i boss della ’ndrangheta come mio zio non fanno gli arroganti. Anzi, finché non arrivano il magistrato e l’avvocato non fanno proprio nulla. Iuliano si siede al suo posto. Il maglione nero che indossa è gonfiato al petto dal fascio di muscoli che gli scolpiscono perfino il volto sotto la testa rasata. Però non sono i muscoli pompati di uno che butta via ore in palestra. Le sue mani hanno la pelle di chi ha cominciato a lavorare da ragazzo. Mani da muratore o cose del genere. Ed è finito a fare lo sbirro. Poveraccio. L’altro, quello con il gel nei capelli, è più magro. Ha la faccia da bravo ragazzo. Per questo fa lo stronzo alzando la voce, sbattendo la porta. Sa che non ha né lo sguardo né il fisico da duro. Se mi menano, devo guardarmi proprio da lui. Quelli con la bella faccia sono i peggiori. Mi scrutano e non parlano. Ma non mi menano. Che minchia avete da guardarmi. Suona il telefono sul tavolo. Iuliano risponde con il suo accento napoletano. Non mi sono mai piaciuti i camorristi. Fanno camurria, cagnara, casino. Non che il sovrintendente Iuliano sia un camorrista. Tutt’altro. Questo è uno che per fregarti con le bustine in mano se ne sta dodici ore filate chiuso nel bagagliaio di una macchina. E ti blinda quando meno te l’aspetti. Come fai a scappare a uno che ti appare dal bagagliaio di una macchina parcheggiata. A due galoppini della batteria di quella puttana di Alex è successo proprio questo. Oppure ti frega standosene giorno e notte sul tetto di un palazzo. Da lassù vede tutti i movimenti. Avverte i suoi via radio. E quando credi di averla fatta franca, ti ritrovi in manette. Perché lo sbirro con il gel continua a fissarmi? Iuliano ascolta cosa gli stanno dicendo al telefono. Ho capito che è la squadra mobile. Vogliono che mi portino in questura da loro. Forse è meglio così. Telefonata finita. Non mi portano in questura.
Allora, ascoltami, esordisce il sovrintendente Iuliano, se vuoi startene zitto fallo pure, ma tieni conto che da qui uscirai in manette per omicidio. Ho detto omicidio, non spaccio di bustine. Altrimenti fai il tuo dovere di testimone.
Iuliano mi guarda dritto negli occhi. Anch’io ti fisso dritto negli occhi. Credi di farmi paura? E di cosa dovrei essere testimone? Tu non mi chiedi di testimoniare. Tu mi chiedi di fare l’infame. No, non ti consegnerò gli assassini di Luca. Gli assassini di Luca li prenderò io prima di te.
Ho capito, non vuoi parlare. Preferisci farti l’ergastolo per omicidio, continua Iuliano. Guarda, le possibilità sono due. O ci aiuti a trovare gli assassini del tuo amico, così ci convinciamo che tu non c’entri nulla. Oppure cominciamo a pensare che tu voglia coprire gli assassini. Allora, a chi hai sparato?
Sovrintendente Iuliano, ma dove mi vuoi portare? Il tuo gioco è questo. Accusarmi di complicità nell’omicidio solo per trarne un vantaggio nelle tue indagini. Ma quale vantaggio? Se ti rispondo, faccio l’infame. Se resto zitto, mi accusi di un’infamia. Troppo facile fare lo sbirro così.
Sempre che non sia tu l’assassino di Luca, dice Iuliano dopo un lungo silenzio.
Minchia, questo è davvero troppo. Ti va bene che non siamo soli. Altrimenti mi appenderei al tuo collo da sbirro e ti stenderei con una testata. Il pezzo di merda non lo faccio io. Lo stai facendo tu. Tu sai benissimo che Luca è il mio amico più caro. Lo sai eccome. Come fai a pensare che io l’abbia tradito? Vuol dire che non hai rispetto per Luca. Eppure gli avevi perfino offerto di fare una partita a calcio. Tu adesso dovresti essere fuori a cercare i suoi assassini. Non stare qui a perdere tempo con i tuoi giochetti del cazzo.
Va bene Rocco, te ne stai zitto a guardarmi, dice il sovrintendente Iuliano. Adesso andiamo in questura a fare lo stub. Dalla faccia che fai, deduco che non sai cosa sia lo stub. È l’esame sulla pelle delle mani per vedere se hai sparato. Ti conviene dirci a chi hai sparato. Perché lo stub non sbaglia. E se per caso esce che hai sparato, finisci dentro per l’omicidio del tuo amico Luca. E io in persona farò il giro del vostro Fortino a dire come tu sia un traditore. Uno che spara agli amici. Poi te la vedrai tu con la famiglia di Luca.
Ti ho detto che io sparo ai pezzi di merda, non ai miei amici.
Avanti, allora, non fare tu il pezzo di merda: a chi hai sparato?
Minchia, mi scoppia la testa. Vorrei pensare solo a Luca. Alle cose che abbiamo fatto. A quelle che non faremo più. E questo sbirro insiste a fare lo sbirro.
Ho sparato ieri sera.
Vedi che hai capito, dice Iuliano. E a chi hai sparato ieri sera?
Ad Alex. Ieri sera più o meno a quest’ora, davanti al supermercato.
Bene. Almeno abbiamo risolto un tentato omicidio.
Il sovrintendente Iuliano prende il telefono e compone un numero breve.
Portatemi la relazione degli spari di ieri sera davanti al supermercato e la segnalazione arrivata dall’ospedale, dice Iuliano, fatevi dire se il ferito è ancora ricoverato. Poi posa il telefono e ricomincia l’interrogatorio. Ottenendo però soltanto lunghe pause di silenzio. Perché hai sparato ad Alex?
Prendo atto, conclude sbuffando, che non vuoi collaborare. Guarda che così continui a farci perdere tempo. E tu ti cacci nei guai. Invece a te conviene…
Perché Alex non rispettava le regole.
Rocco, scandisco meglio la domanda: perché-hai-sparato-ad-Alex?
Aveva rubato le bustine da un imbosco.
Di chi era l’imbosco? Di Luca?
No. Era mio.
E Luca ha ordinato di sparare ad Alex.
No, Luca non sapeva niente. Io ho deciso che bisognava sparare ad Alex. E io ho sparato ad Alex.
Alex appartiene alla tua batteria?
No.
Allora a quella di Luca, butta lì Iuliano.
Non so nulla di Luca. E non so nulla di Alex.
Dunque, tu spari a uno di cui non sai nulla. E oggi uccidono un altro di cui non sai nulla.
Luca e io eravamo amici, questo lo sapete.
Quindi tu tenti di ammazzare Alex e gli amici di Alex ammazzano il tuo amico Luca. È andata così?
E no, adesso non ti rispondo più. Tu stai facendo falsa politica con me. Mi fai le trappole. Io non so chi ha sparato a Luca. Ma so chi voleva fargli del male. So chi ha ordinato l’omicidio. Questo però lo dovrete scoprire voi. Io non vi aiuto, sbirri.
Ricevuto il messaggio. Il signor Rocco ha richiuso la bocca, dice con ironia il sovrintendente ancora seduto alla sua scrivania. Guardami bene negli occhi. Adesso andiamo alla squadra mobile a fare il tampone per cercare le tracce di polvere da sparo. Verificheremo quello che ci hai detto. Continua a guardarmi negli occhi, Rocco. Se ci hai presi per il culo tu finisci dentro per l’omicidio di Luca. E poi ti voglio dire un’altra cosa. Ora che andrai in galera, avrai tempo per pensare. Hanno ammazzato Ghiaccio. Hanno ammazzato Luca. Tu hai sparato ad Alex. Vi stanno uccidendo uno per uno. Il prossimo potresti essere tu. Guardati allo specchio. Hai appena vent’anni e vivi dentro una guerra. Una guerra di pazzi. Tu però ti puoi ancora salvare. Se lasci il Fortino, ti puoi ancora salvare.
No, Iuliano, non meriti nemmeno che ti guardi negli occhi. Io non parlo più con te. Tu non vuoi la mia salvezza. Tu vuoi solo trasformarmi in un infame. Un infame che serva alle tue fottute indagini. Un infame che ti dica chi ha ammazzato Luca in modo che tu diventi uno sbirro di successo. Eh no, se devo morire, voglio morire in battaglia. Meglio un giorno da leoni che una vita da conigli. E il mio giorno da leone sarà quando svuoterò il caricatore nella testa degli assassini di Luca. A quel punto avrò raggiunto il mio scopo. E mi potranno anche ammazzare.
Questo non ha più niente da dirci. Mettigli le manette e caricalo in macchina, dice Iuliano al collega con il gel. Prendo le carte del ferimento di ieri sera e vi raggiungo.
Mi viene da dormire. Questa giornata non finisce più. La questura è in centro. Ci sono stato qualche volta. Quando mi hanno arrestato. Se non mettono la sirena, arriveremo tra un quarto d’ora. Ci vorrebbe una bella pippata. E questi non mi lasciano fumare nemmeno una sigaretta. Magari riesco ad addormentarmi un po’. Questa volta gli sbirri non spengono la ricetrasmittente in macchina. Alla radio dicono che la situazione in piazza si è messa male. I ragazzi e le mamme del Fortino hanno attaccato di nuovo la polizia. Volano sassi, bottiglie, lacrimogeni. Il magistrato è bloccato in mezzo alla battaglia. Uno sbirro chiede rinforzi. Dall’altra parte gli rispondono che in piazza ci sono già cento sbirri in tenuta antisommossa. E che di rinforzi al momento non ce ne sono. Come vorrei essere lì con voi. Noi del Fortino contro cento sbirri vestiti da carnevale. Se le stanno suonando da più di un’ora. La prima ora senza di te. Tutto questo, Luca, è dedicato a te.
Mi svegliano che siamo ancora in macchina nel sotterraneo della questura. Da lì mi trascinano a piedi fino al primo piano. Iuliano e i tre poliziotti intorno, io in mezzo. Entriamo in un ufficio quadrato della squadra mobile. Sezione omicidi c’è scritto sulla porta. Qui Iuliano e gli altri del commissariato mi consegnano a due poliziotti in borghese. Sono vestiti peggio di me. Capelli lunghi. Uno con la coda e l’orecchino vistoso a sinistra. Mi fanno sedere su una poltrona di velluto. Mi riaddormento subito. È una cosa che ho imparato da bambino. Dormire per non pensare. Per non avere paura. Per far passare il tempo. Quando mia madre se ne andava a guadagnare qualche soldo, io rimanevo a casa solo. Non ho mai saputo che lavoro facesse. Non l’ho mai voluto sapere. Sono figlio di una ragazza madre. Non avevamo nessuno. Così mi stendevo sul letto e dormivo. Luca, che casino è successo. Tu sei morto. E io non posso nemmeno vendicarti. Almeno mi avessero arrestato per aver ammazzato i tuoi assassini. Invece sono qui per colpa di quella puttana di Alex.
Sto dormendo bene, un sonno profondo, quando sento una mano sulla spalla sopra al cuore. Una mano calma. Le dita che premono leggermente come quando si vuole dare conforto a qualcuno. Minchia, ma è il Marocchino. Non che sia davvero un marocchino. Ma al Fortino lo chiamiamo così perché ha la pelle nera. È l’unico poliziotto che ho visto con la pelle nera. Non credo ce ne siano altri in città. Lavora alle volanti. Quante volte mi ha inseguito. E quante volte l’ho seminato con la mia moto. Di solito perché passavo davanti a loro apposta con il rosso. Per poi impennare. E via. Ci guardiamo a lungo. Lui in divisa impeccabile. Io con il mio giubbotto di cuoio nero e la puzza della stanchezza addosso.
Rocco, mi dispiace.
Non me l’aspettavo. È salito apposta negli uffici della squadra mobile per dirmi questo. Non aggiunge altro. È la sua mano che mi parla. Non dura molto. Il Marocchino se ne va. Torna a lavorare, credo. Ma l’impronta della sua mano, la sensazione delle sue dita restano a lungo sulla mia spalla. Forse questo è davvero il posto più sicuro, come vuole farmi credere quello sbirro di Iuliano. Ma no, no. Devo solo saper aspettare. Con calma. In silenzio. Senza fare pubblicità. Farò tanta falsa politica. Fino a quando non avrò di fronte chi ti ha ridotto così, Luca.
Iuliano e i suoi sono spariti. Minchia che sonno. Sono ore che gli sbirri della squadra mobile mi tengono sveglio. Vogliono sapere da me chi ha ucciso Luca. Ma io sto zitto. Vi guardo negli occhi e sto zitto. E voi domande. Controdomande. Trabocchetti. Parole messe lì per farmi paura. No, non mi fate paura. A un certo punto entra un superiore. Si capisce che è un superiore perché quello che sembra il capo dell’ufficio si alza in piedi non appena lo vede. Sono sbirri e lecchini. Il superiore mi guarda in silenzio.
Mi serve gente per andare a fare le perquisizioni, dice poco dopo. E se questo non parla, aggiunge a voce alta, peggio per lui. Telefonate al magistrato e ditegli che lo stiamo portando a San Vittore. Fatelo mettere in isolamento.
Finalmente si dorme. Una corsa in macchina. E poi la branda. L’ingresso al carcere di San Vittore va un po’ per le lunghe. Via la cintura. Via le stringhe delle scarpe. Via i vestiti. Nome. Cognome. Quando sei nato? Dove abiti? Minchia, ma se avete tutto scritto sulle carte degli sbirri, perché non mi lasciate in pace? Non mi portano in cella. Questo corridoio non va alle celle. Mi chiudono in infermeria stanotte. Meglio, si dorme meglio in infermeria.
Mi sveglia una mano sulla spalla. Un’altra mano sulla spalla. Sbrigativa, però. Non riesco nemmeno a vederlo in faccia. La luce al neon sulle pareti mi abbaglia. Non so quanto ho dormito. Un giorno intero. Forse due giorni.
Si prepari, dice l’agente, stamattina ha l’interrogatorio con il magistrato.
Non sono sbirri come gli altri. Questi sono agenti penitenziari. Sono dei poveracci. Li pagano poco per fare questo mestiere. Tenerci chiusi qui dentro. Farcela passare nel peggior modo possibile. Devo solo trovare qualche sbirro amico. Mio zio, il boss, dice che c’è sempre qualcuno disposto a darti una mano. Lo fanno per compassione. O per paura. Oppure perché hanno preso una mancia. Ma non è facile trovare lo sbirro a libro paga. Mica puoi andare a chiedere al comandante delle guardie: scusi, mi sa dire chi è a libro paga della ’ndrangheta? E poi, minchia, sono senza uno spicciolo in tasca. Che minchia di libro paga devo avere io?
Mi portano in una stanza. Un tavolo e tre persone sedute ad aspettarmi. La porta è di quelle blindate dei caveau delle banche. Si vede che per gli sbirri siamo preziosi noi.
Buongiorno, si accomodi, dice l’uomo seduto al centro. Toglietegli le manette.
Dev’essere il magistrato. Ha un vestito davvero elegante. Camicia azzurra con le iniziali ricamate. Cravatta. Giacca di velluto. Quello accanto a lui è il superiore degli sbirri, quello che ho visto in questura. Minchia che occhiaie che ha. Sembro io dopo tre notti di pippate. L’altro, seduto un po’ in disparte, dev’essere l’avvocato d’ufficio. Sì, ho l’avvocato d’ufficio. Ogni sabato spendo milioni in coca e puttane. E adesso non ho nemmeno i soldi per pagarmi un avvocato di fiducia. Gli incassi li tiene Luca. Li teneva Luca. Il magistrato aspetta che i due sbirri escano dalla stanza e chiudano la porta blindata.
Buongiorno, ripete freddamente.
Buongiorno.
Lei è indagato per i reati agli articoli 56, articolo 575, articolo 699 e articolo 703 del codice penale. Vedo dai suoi occhi che ha bisogno di una traduzione. Si tratta di tentato omicidio, porto abusivo di arma da fuoco e spari in luogo pubblico. Vuole dirci qualcosa su quello che è successo?
Non ho niente da dire.
Va bene. Scriviamo che l’indagato si avvale della facoltà di non rispondere.
Buongiorno, io sono il capo della sezione Omicidi, si presenta il poliziotto seduto accanto. La Procura della Repubblica mi ha delegato a chiederle se sa o intende riferire informazioni utili alla cattura degli assassini del suo amico Luca.
Non ho niente da dire.
Non ha niente da dire, conclude il magistrato. Avvocato, voi avete argomenti da opporre in merito all’udienza di convalida all’arresto del qui presente indagato per il reato di tentato omicidio?
Nessun argomento, signor giudice.
Bene, il giudice per le indagini preliminari letti gli atti, visto l’articolo 274 del codice di procedura penale in merito alle esigenze cautelari… convalida l’arresto… e dispone la custodia cautelare in regime di isolamento giudiziario, come previsto dall’articolo 33 numero 3 della legge 26 luglio 1975, numero 354, che reca le norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Adesso le spiego. Significa che lei sarà collocato in una cella individuale, con divieto di comunicare con altre persone. Non potrà ricevere visite. Non potrà spedire né ricevere lettere o telegrammi. Non potrà leggere giornali né avere la tv. Prego, vuole dirmi qualcosa?
Fino a quando resterò… isolato?
Fino a quando il giudice lo riterrà necessario alle indagini.
Minchia che mal di testa. Sarà la tensione. Sarà il vuoto creato dalla morte di Luca. Sarà questa minchia di giudice. Mi rimettono le manette. Attraverso corridoi immensi tutti uguali. Immensi e vuoti. Soltanto il rumore dei passi sul cemento. Gli scarponi anfibi dei due sbirri che mi accompagnano. Il tintinnio delle chiavi nelle loro mani. Le grida di sottofondo, lontane, di qualcuno in cella che chiama. Nemmeno fossi un terrorista. Se mi isolano, dovrò rinviare la vendetta. Ma ce la farò. Puttana di Alex, è per colpa tua che sono qua. Se non ti avessi sparato, gli sbirri non avrebbero avuto storie per arrestarmi. Ti dovevo ammazzare. Questo dovevo fare. Carcere per carcere, tanto valeva stenderti.