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Per un pugno in un occhio

Indietro, grida una voce al di là della porta di ferro.

E che minchia vogliono adesso? Ogni volta che devono aprire la cella, gridano indietro. Avanti, altro che indietro. Mi scoppia la testa con questo caldo. Che puzza di piscio. Mi hanno messo in gabbia con quattro rubagalline. Stronzi che si sono fatti prendere durante uno scippo o una rapina in farmacia. Tossici da eroina. Grissini magri con le braccia piene di croste e le guance scavate. Ma sono tossici ubbidienti. Quando hanno saputo chi sono io, sono diventati docili e servizievoli. Mi tengono pulito il cesso dietro la tenda. Lo puliscono bene. Anche se non sono riusciti a eliminare il tanfo di urina. Quello ormai impregna il cemento della turca, il pavimento, le pareti. La nostra pelle. Per toglierlo del tutto bisognerebbe demolire questo carcere di merda. Poi mi cucinano sul loro fornello da campeggio. A volte mi regalano la pasta. In prigione non mancano i beni di prima necessità. Arrivano con il pacco dei parenti. Oppure consegni i soldi e li fai comprare dallo spesino, il leccapiedi delle guardie che può andare allo spaccio a prendere spaghetti, sugo, caffè. Con il rancio che passa la ditta, moriresti di gastroenterite nel giro di un mese. E qui dentro di mesi ne devo sopportare tanti.

Ma non doveva entrare qualcuno? Falso allarme. I quattro tossici fanno le cose senza nemmeno ordinarle. Ad esempio, quando mi alzo in piedi, loro automaticamente si sdraiano sulle loro brande a castello. Per farmi aria. Per lasciarmi camminare su e giù. La cella è troppo piccola perché si possa stare in piedi tutti e cinque. Bisogna alzarsi a turno. E io, grazie a loro, mi alzo quando mi pare. So cosa vogliono in cambio. Si aspettano che, una volta fuori, io regali loro una busta da cinque grammi pura. Hanno la carne impregnata di eroina. Quelli se li metti davanti a una siringa e a una zoccola nuda, scelgono senza pensarci la siringa. Uno di loro è un cliente del Fortino. Mi ha riconosciuto. Mi ha salutato. E ha detto agli altri tre chi sono.

Indietro, urla ancora la voce là fuori.

La chiave gigante delle guardie gira nella serratura. La prima volta che ho sentito chiudersi una gabbia alle mie spalle ho provato un brivido. Ma ero ancora un piscia a letto, criminalmente parlando. Uno che andava avanti e indietro dal carcere minorile per qualche furtarello. Adesso invece mi piace, perché mi ricorda il suono del carrello della 44 Magnum di Luca. Minchia che pistola è quella. Fin dal momento in cui scarrelli e infili il primo colpo. Potente come un cannone. Ta-tlac. La stessa musica che diffondono le piastre della porta blindata quando gli sbirri girano la chiave. Ta-tlac. Ta-tlac. Ta-tlac. Una musica familiare.

Indietro, gridano.

La porta cigola. Appare una guardia con i gradi. La solita faccia paffuta del Quinto raggio. Si ferma sulla soglia. Ci guarda negli occhi uno per uno. Sicuramente ci sta contando. I secondini hanno la paranoia della fuga. Scommetto che se devono incontrare una sola persona, non appena la vedono la contano. Uno. Siamo in cinque, non in cinquanta. Basterebbe un colpo d’occhio per capire che ci siamo tutti. E poi da dove minchia vuoi scappare? Dal buco del cesso? Perfino le finestre sono irraggiungibili. Sono in alto sulla parete opposta alla porta. E oltre le sbarre, all’esterno sono coperte da una scatola di ferro aperta soltanto verso il cielo. Nessuno di noi può vedere la strada o i balconi dei palazzi intorno. E nessuno da fuori può guardare dentro le celle.

Ogni volta che gridano indietro, gli sbirri pretendono che ci sdraiamo tutti in branda. Oltre a quello con i gradi, altri due colleghi aspettano fuori. La tirano per le lunghe. Forse ci devono perquisire. Invece no. Parlano ad alta voce. È un nuovo acquisto. Ma tu guarda chi entra. Pisacane. L’autista dei tram dell’azienda municipale. Il tranviere dell’Atm. Lo conosciamo bene al Fortino. Guida il tram numero uno, capolinea nella piazza dove hanno ucciso Luca. Anzi, prima il capolinea era proprio davanti al Fortino. Prima che noi lo facessimo spostare.

E bravo Pisacane. Preso come un ladro di polli. Benvenuto anche tu nella cella 224. Benissimo, fai finta di non conoscermi. Non c’è da fidarsi dei quattro tossici. I tossici sono sempre tossici. Sono puttane. Come Alex. Sì, mettiti sulla branda accanto alla mia. Ci capiamo al volo. Così possiamo guardarci in faccia. Senza che gli altri ci vedano. E poi loro quattro stanno in alto. Dove fa più caldo. Tre brande e tre brande. Impilate a castello. Allineate lungo la parete sinistra. Di fronte al lavandino grigio di cemento, lo scaffale con il fornelletto da campeggio e la tenda del cesso che riempiono il muro di destra. Da adesso siamo in sei. Le quattro puttane in alto. Io e il tranviere Pisacane sulle due brande al piano terra. Le più fresche. Si fa per dire. Ma soprattutto le più nascoste.

Luca sei stato tu a farmi questo regalo. Ne sono certo. Regalo più bello non me lo potevi fare. Adesso sì che posso organizzare la vendetta. Non ti ho dimenticato, sai. Ma tu guarda se dovevo ritrovarmi in gabbia proprio il tranviere. Devo solo aspettare il momento di parlarti. Senza che gli altri ci sentano.

Sono ore che dormi. Minchia Pisacane, io sono qui che non vedo l’ora di proporti una storia. E tu ronfi. Ho capito. Non ti hanno arrestato. Ti sei fatto ingabbiare per farti un po’ di vacanza. Certo, dovrò stare attento a dirti quello che voglio dirti. Non so da che parte stai. Dovrò fare falsa politica all’inizio. Magari le armi che hanno ucciso Luca le hai fornite tu. E allora anche tu meriti la tua dose di piombo. Ma che è questo odore?

Ohè, se non tiri l’acqua subito, vengo di là e te la faccio mangiare.

Scusami Rocco, risponde uno dei tossici al di là della tenda. Scusami, ma non c’è acqua. La tengono aperta nelle celle per rinfrescare le lattine. E da noi ne arriva poca.

Allora prendi il secchio con l’acqua di scorta e sciacqua il cesso.

Sì, Rocco, biascica il tossico dietro la tenda.

Dimmi un po’, che minchia mangiate per farla così puzzolente?

È l’astinenza, risponde il tossico.

Non è l’astinenza. È che siete marci perfino nel culo.

Pisacane ha gli occhi chiusi e scoppia a ridere. Ci stava ascoltando, non dormiva. Riapre gli occhi. Nella penombra del letto a castello, mi fa un cenno con il mento. Io ciondolo lentamente la testa perché veda che ricambio il saluto. Non ho motivo per non salutarlo. Certo, in canottiera e bermuda siamo ridicoli. Ma fa troppo caldo per sopportare il pudore di una tuta da ginnastica. Fuori è già buio. Il respiro della città arriva da lontano. La sirena di un’ambulanza. Il rombo del traffico. Lo sferragliare del tram. E l’afa che rende la notte pesante. Fuori e dentro la gabbia.

Se volete, è avanzata un po’ di pasta nella pentola.

Grazie Rocco, risponde Pisacane, ma non ho fame.

Come volete.

Lui sta per aggiungere qualcos’altro. Gli indico la tenda del cesso. Spero capisca che dobbiamo aspettare che anche l’ultimo tossico sia salito in branda a dormire. Pisacane annuisce. Facciamo finta di addormentarci. Anzi, io credo di essermi addormentato davvero. Mi sveglia la sirena di una volante. Mi allarma sempre il richiamo degli sbirri. Sposto il cuscino sull’estremità opposta della branda. Pisacane mi vede e fa lo stesso. Ci sediamo sul lenzuolo. Con la schiena appoggiata alle croste del muro. Uno accanto all’altro. In modo che ci si possa sentire. Anche parlando sottovoce.

Caro compare Pisacane, non mi sarei mai immaginato di incontrarvi qui.

Nemmeno io, Rocco.

Che ore sono?

Non è ancora mezzanotte, risponde Pisacane dopo aver guardato le lancette fosforescenti del suo grosso orologio al polso.

Credevo di avere dormito di più.

Io non ho più sonno. Ho dormito troppo oggi pomeriggio.

Ho visto. Da quanto tempo siete in gabbia?

Da ieri. Mi hanno blindato ieri. Ho passato la notte sveglio con gli sbirri. Aspetta l’interrogatorio. Firma il verbale. Nomina l’avvocato. E oggi pomeriggio mi hanno portato qui.

Benvenuto a San Vittore.

Già, benvenuta una beata minchia, dice Pisacane.

Restiamo a lungo a osservare il buio. Immersi come pesci nell’odore di piscio.

Caro Rocco, si sta sempre peggio qui, bisbiglia a un certo punto Pisacane.

Non si è mai stati bene in gabbia.

Ma tu da quanto sei dentro?

Dall’anno scorso, compare. Mi hanno preso la sera in cui hanno toccato Luca. Il 12 dicembre. Mi hanno fatto fare tre mesi pieni di isolamento. Siete mai stato in cella di isolamento voi?

No, Rocco.

Tre mesi senza incontrare nessuno. Se non gli sbirri. All’inizio non mi facevano vedere nemmeno l’avvocato. Ma poi sapete che sollievo parlare con l’avvocato.

Parlare con l’avvocato è un sollievo?

No, appunto, compare.

Ah.

Tre mesi in questa puzza. Tre mesi in cui puoi solo guardare l’umidità sulle pareti della sezione di isolamento. Caro mio compare, chiuso in quella cella mi sentivo davvero male. Ma non ho ceduto.

L’importante è soltanto questo, Rocco. Non cedere mai.

Pensavo solamente. Mi figuravo solamente l’immagine di Luca. Conciato come l’avevo visto. È Luca a darmi la forza. Dopo questi tre mesi, mi hanno portato nelle sezioni comuni. Ed eccomi qui.

Quanto devi fare, Rocco?

Non lo so, non lo so ancora. Aspetto il processo. L’avvocato dice che andrà per le lunghe. Dice che forse vogliono mettermi in mezzo con le storie di mio zio. Hai capito chi?

Pepé, risponde il tranviere.

Va bene, sì, ma non lo nominiamo.

Ritiro, non lo nominiamo tuo zio.

Io però non c’entro nulla con le storie di mio zio. Lui è un pezzo grosso della famiglia. Io non conto una minchia. Io non ho legami con quelli di giù. Voi sì che avete legami giù in Calabria. Legami diretti, intendo. Io no.

Sì, io ho sempre legami molto forti giù, conferma Pisacane. Io sono di giù. Ma tu sei sempre suo nipote. Lo sanno tutti che sei suo nipote. Per questo nessuno ti tocca.

Che cosa mi volete dire, compare Pisacane?

No, non voglio dire che qualcuno ti vuole toccare. Ma i legami familiari contano.

È questo che mi danneggia, compare. Gli sbirri vogliono attribuirmi storie che nemmeno conosco. Ma ditemi, come se la cavano i ragazzi fuori?

Quali ragazzi?

Quelli del Fortino. Coscia, Faccia d’Angelo, il Massa e gli altri.

Non saprei, dice Pisacane.

Guardate che con me potete parlare.

Coscia è dentro.

Coscia è qui a San Vittore?

Sì, credo di sì.

Coscia è a San Vittore. E non ha fatto nulla per mettersi in contatto con me. Coscia, minchia, ma ti sei dimenticato? Non ti è venuto in mente di mandarmi un’ambascia, un messaggio. Rocco sono a disposizione. Rocco spero tu stia bene. Rocco conta su di me. Minchia, ti sei messo insieme con la sorella di Luca. Addirittura abiti con la sorella di Luca. Dovresti essere tu il primo a organizzare la vendetta. In nome di Luca, di sua sorella, di suo padre. Ma che uomo sei, Coscia?

Compare Pisacane dormite?

No, Rocco.

Ma voi siete sicuro che Coscia sia a San Vittore?

L’hanno arrestato cinque mesi fa, a febbraio. Più o meno negli stessi giorni in cui hanno arrestato per le armi compare Vincenzo, il padre di Luca. Lo sapevi che compare Vincenzo è qui dentro, no?

Sì, l’ho saputo. E perché Coscia è dentro, compare Pisacane?

Cazzate. Due etti di hashish. L’ho sentito raccontare al bar. C’era anche la notizia sul giornale.

Sì, va bene, ma è a San Vittore?

Io sono appena entrato. La certezza non ce l’ho. Però così si dice fuori. Per un po’ di hashish, Rocco, non ti portano lontano.

Avete ragione, compare. Non ti portano lontano per un po’ di hashish.

Coscia, non mi hai fatto arrivare nemmeno un saluto. Di messaggi te ne ho mandati. A te e a Faccia d’Angelo. Non le avete lette le lettere? Forse non le avete nemmeno ricevute. Forse non le avete capite perché erano in codice. Eppure, proprio tu Coscia, ti saresti dovuto preparare per primo. Insieme dovevamo fare una strage. Dobbiamo fare una strage. Lo sai che quando esco faremo fuori gli assassini di Luca. E i loro mandanti. Lo sai che quelli devono pagarla. Minchia e tu sei a San Vittore, nello stesso carcere. E non ti degni nemmeno di mandarmi un saluto.

Compare? Compare Pisacane?

E vaffanculo pure tu. Ti sei addormentato seduto. La schiena appoggiata alle croste del muro e la testa piegata in avanti. Come se ti avessero sparato alla tempia. Il colpo di grazia. Pum. Come mi prudono le mani, Pisacane. Come vorrei stringere un ferro dei tuoi. E prolungare il mio gesto, il mio braccio, la mia mano fino agli occhi di quelli che hanno ucciso Luca. Fino a quel centimetro di pelle che separa gli occhi. Che nasconde il cervello che si ritrovano dentro il cranio. Luca, me l’hai mandato tu Pisacane. Io ti giuro, così come sono vivo, che in mezzo a quegli occhi scaricherò tutto il piombo che riuscirò a infilare nel caricatore.

La mattina in cella ti sveglia sempre con l’odore di caffè bruciato. Non hanno ancora imparato a fare il caffè con il fornelletto da campeggio. Lo bruciano perché sono tossici perfino nel naso. Non sentono gli odori. Mettono la moka sul fuoco. E se la scordano.

Rocco, si volta uno dei quattro grissini, è pronto il tuo caffè.

Dallo prima a lui. È l’ultimo arrivato, dobbiamo trattarlo bene.

Pisacane si mette seduto sul bordo del letto. Si stira e porta le mani ai fianchi.

Grazie, dice e prende la tazza con il caffè bruciato.

Per me rifallo, dico al grissino.

Va bene, Rocco, risponde lui ubbidiente.

Non mi ricordavo che la gabbia fosse così scomoda, mormora Pisacane.

Vi siete addormentato seduto contro il muro.

Lo so, Rocco, ma poi mi sono sdraiato. È che la branda è scomoda.

Siamo a San Vittore, compare Pisacane.

Già, a San Vittore.

Che avete combinato?

Eh?

Che avete combinato per finire qui?

Ferri, risponde Pisacane. Mi hanno preso con i ferri.

Si alza e posa la tazza vuota sul lavandino. Si risiede con la schiena contro le croste sul muro. Lo stesso punto di stanotte. Si stira un’altra volta. Mi siedo accanto a lui, rimanendo sulla mia branda. Guardiamo tutti e due avanti senza incrociare lo sguardo. Pisacane racconta sottovoce.

Una pistola. Mi hanno trovato con una Walther P38 e le munizioni. Roba buona che arriva dalla Svizzera. Io non vendo ferri da rottamare, sorride Pisacane.

Già, lo so bene. Come tre anni fa.

Lascia perdere. Quella storia mi ha messo sul groppone due anni e quattro mesi di condanna. Ma era roba buona anche quella. Il mio agente a Berna mi aveva spedito ferri davvero di prima qualità. Due pistole calibro 9, una mitraglietta israeliana. Più una sfilza di altri gioielli che sul verbale gli sbirri hanno descritto come armi comuni da sparo. Non hanno ancora capito che quelle che vendo io sono armi fuori dal comune. E poi, se sono così comuni perché ci arrestano?

Ma è un modo di dire.

Sì, Rocco, un modo di dire…

Aspettate che il grissino ha fatto il caffè per me.

Il grissino, ripete Pisacane e scoppia a ridere.

Non voglio che senta i nostri discorsi.

Va bene, Rocco, ma sono storie vecchie. Sono stato condannato dal giudice, ormai è risaputo. In nome del popolo italiano…

Sì, ’sto cazzo di popolo italiano.

Pisacane vede il mio gesto sconcio. E ride ancora.

E vostro figlio come sta?

Caro Rocco, questo è un problema.

Scusatemi.

No, non devi… Il problema è che mio figlio è finito nei guai per causa mia. Già tre anni fa, quando sono arrivati gli sbirri in casa la prima volta, lui ha cercato di aiutarmi. Ha preso una calibro 6.35 e se l’è infilata nei pantaloni. Ha cercato di far sparire anche un bel po’ di banconote. Sono minorenne, mi diceva, non possono perquisire me. Sì, minorenne. Ma a diciassette anni ti considerano un adulto. Così hanno perquisito pure lui. La 6.35 era l’unica pistola che avevamo in casa. Le altre cose grosse non le tengo in casa.

Giusto.

Poi hanno trovato altri soldi. Ventuno milioni.

Di dollari?

Macché dollari, Rocco. Ventuno milioni di lire, spiccioli per noi.

Già, spiccioli.

E le chiavi della macchina.

Della vostra macchina?

No, la macchina era di mio fratello. Ma la usavo io come imbosco. Sono scesi in strada e con quelle chiavi gli sbirri hanno tentato di aprire tutte le macchine parcheggiate nel quartiere. Tutte. Sembravano tossici quando per fregare l’autoradio maneggiano sulla serratura delle portiere con lo spadino. Sono riuscito a vederli dalla finestra. Poi uno è salito di corsa a chiamare lo sbirro con i gradi. Avevano trovato la macchina, il bagagliaio, il borsone. Lì erano nascoste le armi. Poi hanno smontato la casa. Ti dico smontato perché, giuro, hanno smontato perfino i mobili. In camera di mio figlio hanno trovato altri soldi, i certificati di deposito che erano i miei risparmi e tutta la scorta di cartucce che tengo per i clienti. Quando vendi il ferro devi anche rifornire il piombo.

Non mi fai pena, Pisacane. Non può farmi pena uno che mette in mezzo suo figlio. Immagino com’è andata. Gli sbirri, gli sbirri. Prendi la pistola. Mettitela addosso. Tanto tu sei minorenne, non ti perquisiscono. E al massimo, se lo fanno, sei minorenne. Un minorenne intanto non va a San Vittore. Va al carcere minorile. Va al Beccaria. E poi un minorenne ha sempre le attenuanti. Ne so qualcosa. Però quando diventi maggiorenne e ti prendono, quei reati diventano precedenti. Diventi recidivo. Diventi semplicemente un pezzo di fango da sbattere dentro. Che pezzo di fango che sei, Pisacane, a mettere nei guai il tuo ragazzo. Ma mi sei utile. Mi sarai utile. E poi nel nostro ambiente mica puoi sceglierteli i fornitori di armi. Devi prendere quello che passa.

Vuoi un altro caffè, Rocco?

No, grissino, sali in branda. Tra un po’ grideranno indietrooo. Apriranno lo spioncino per l’appello.

Ma che ore sono, biascica Pisacane sbadigliando, che ore sono?

Compare Pisacane, è prestissimo. D’estate entra la luce e le giornate non ti passano più.

Mio figlio, sì, sono preoccupato per mio figlio. È un ragazzo come te, dice Pisacane come se avesse letto nei miei ragionamenti.

Se aveva diciassette anni tre anni fa, adesso ne ha venti. Più o meno come me, sì.

Sono preoccupato, ripete Pisacane.

Ma a vent’anni è un uomo. Cosa vi preoccupa?

Ieri hanno preso anche lui.

Ah. Era con voi?

No, sono venuti da me perché hanno trovato lui. Era con sua madre a Belluno, in Veneto. Ieri gli sbirri hanno arrestato mio figlio, mia moglie, l’altro mio figlio. Poi sono venuti a Milano a prendere me.

Sempre per i ferri?

Pisacane non risponde subito. Guarda in alto. Sopra la tenda lurida del cesso. Resta in silenzio per un minuto buono. E quando uno come Pisacane resta in silenzio, non gli vai a dire o Pisacane, ti ho fatto una domanda, mi rispondi? No, accetti il silenzio come risposta.

Mio figlio ha ammazzato uno sbirro.

Pisacane rompe il silenzio così. E continua a parlare sottovoce.

Lo accusano di questo, spiega. Dell’omicidio di un appuntato dei carabinieri. È successo l’anno scorso. Giù a Soverato, in Calabria. Lo cercavano da allora. L’hanno preso ieri. Rocco, sono davvero preoccupato per lui.

Vi capisco, compare, vi capisco.

Non ci parliamo più per giorni. Pisacane sulla sua branda. Io sulla mia. I quattro grissini a farci da camerieri. Almeno loro vanno all’ora d’aria. Noi due no. Non possiamo ancora. Disposizioni del giudice. O di chissà chi. Che sfiga però. Ho accanto a me il più grande trafficante di armi della città. E non posso sfruttarlo. Come faccio a chiedergli ciò di cui ho bisogno se quello pensa solo al figlio. Come minchia faccio a chiedere i ferri al padre di uno che ha ammazzato uno sbirro. Se quello ha i telefoni sotto controllo, come minimo vengono a prendere anche me. No Luca, non ho paura di farmi l’ergastolo. Ma mica posso organizzare la tua vendetta in diretta con gli sbirri, a carte scoperte. Dammi almeno qualche giorno di vantaggio. Qualche settimana. Prima li ammazzo tutti. Poi sono pronto a farmi il carcere a vita. Altrimenti succede che quando mi apposto per sparare, gli sbirri salvano la vita a quelli che ti hanno ammazzato, Luca. Non l’hanno salvata a te. A loro sì, gliela salverebbero. Vedrai. Ma non ti lascio solo, Luca. Lo faccio per te. E forse un modo c’è per portarsi avanti. Mica posso avvicinarmi a Pisacane e dirgli: ho bisogno di due mitragliatrici delle tue, due pistole, una bomba a mano. Comincio a prenderla da lontano. Magari approfittando di un momento in cui in cella ci siamo soltanto noi due. Quando i grissini sono fuori. All’aria.

La mattina dopo, un caldo da sudare. Finalmente siamo soli in cella. Io e Pisacane.

Come va la schiena oggi, compare Pisacane?

Male, male, quarantanove anni da far schifo.

Avete un fisico di ferro, compare.

L’unico ferro qui sono le sbarre maledette della cella.

Prendete l’asciugamano. Lo bagnate e ve lo mettete attorno al collo come ho fatto io. Vi fate una bella sciarpa d’acqua. Un po’ ne esce ancora dal rubinetto. Se permettete, datemi il vostro asciugamano. Ve la preparo io, prima che quei fottuti del piano di sotto ci prosciughino i tubi.

No, va bene così, Rocco. Grazie.

Ma perché guardi sempre davanti, Pisacane? Cosa c’è da fissare sopra la tenda del cesso? Perché non incroci mai il mio sguardo? Questa, Pisacane, non è sincerità.

Compare Pisacane…

Dimmi, Rocco.

Posso chiedervi un’informazione?

Certo.

Voi trattate giubbotti antiproiettile?

Giubbotti? Sì, di che tipo ti servono?

Non saprei, ci sono tipi diversi?

Sì, molto diversi.

In che senso diversi? I giubbotti sono giubbotti.

Sì, ma i giubbotti che vanno per la maggiore sono di due tipi. Premetto che la mia roba arriva tutta dalla Svizzera. Un tipo di giubbotti è italiano. E uno americano. Quello italiano è più pesante. Ma protegge anche le parti basse. Va bene per una protezione statica. Non so se mi sono spiegato.

No, non ho capito.

Quello italiano va bene se devi sparare a qualcuno senza dover correre. Te ne stai fermo, prendi la mira e colpisci. Roba da cecchini. Perché pesa. Se devi correre, muoverti, è un po’ troppo pesante. Allora è meglio il modello americano.

Quello americano.

Giusto, Rocco, quello americano. È roba militare, in kevlar. Sono sottili e leggerissimi. Rispetto a quelli italiani, intendo. Li puoi perfino indossare sotto la camicia, sotto il maglione. Non si vedono. Certo, sotto la camicia è meglio poi metterci sopra una giacca. Altrimenti gli sbirri capiscono che hai un giubbotto antiproiettile.

E quali sono, compare, i punti a sfavore del giubbotto americano?

È meno coprente. Meno protettivo. È più corto di quello italiano e meno spesso. Ma molto più leggero. Serve per attacchi dinamici. Arrivi, colpisci e fuggi. Agevola il movimento.

Ma ferma il calibro 7.62?

Caro mio, no. Il calibro 7.62 buca il ferro degli autoblindo. Nessun giubbotto, oggi come oggi, può fermare il calibro 7.62 del kalashnikov. Però un killer non medita il rischio della risposta al fuoco. Un killer deve colpire e uccidere. Se deve pensare a una possibile risposta, è meglio che ripianifichi l’azione. Se pensa che l’obiettivo è protetto da guardie del corpo armate di 7.62, oppure… Insomma, dipende da quello che vuoi fare. Io mi occupo dei ferri. Non del loro utilizzo. Da quelle cose mi tengo lontano.

Fate bene, compare Pisacane. Da certe cose è meglio tenersi lontano.

Quindi dipende da quello che vuoi fare. Quanti giubbotti ti servono?

E perché mi chiedi questa cosa e mi guardi? È la prima volta da giorni che mi guardi dritto negli occhi. Vuoi che ti dica che cosa devo fare dei giubbotti antiproiettile? Pisacane, Pisacane, mica lo vengo a dire a te che cosa voglio fare. Quando sono fuori, se tu mi porti i giubbotti, poi sarà più facile chiederti i ferri. Non te lo vengo a chiedere adesso di portarmi i ferri. Così magari per accorciarti un mese di galera mi vendi agli sbirri.

Ho capito, non puoi dirmi che cosa vuoi fare con i giubbotti.

Compare Pisacane, non voglio fare nulla. Era soltanto per informazione.

Solo per informazione, Rocco, ho capito.

Dormiamo un po’. Così sentiamo meno il caldo. Ci conviene stare svegli di notte e dormire di giorno, no? Fa più fresco di notte.

Pisacane non mi risponde nemmeno. Si sdraia e sbuffa. Tra poco torneranno i grissini e dovremo parlare sottovoce. Invece no. Non c’è più bisogno di parlare. Pisacane si chiude nel silenzio.

Ma perché mi eviti? Cosa hai capito? Perché è chiaro che mi eviti. Cioè no, se si tratta di parlare delle condizioni del cesso, della sbobba, del caldo, della doccia noi parliamo. Ma non mi parli più di te. E io, ovvio, non ti parlo di me. Non ti ho mai parlato apertamente di me. Non ti posso dire cosa ho in mente. Lo devi capire. Tu vendi le armi, bene. Io le uso. E si sa a cosa servono le armi. Non puoi pretendere che te lo dica prima contro chi le userò. Mi dà fastidio questo clima, però. Credevo di avere un alleato. Sei semplicemente un venditore di ferri. Tu te ne stai lontano da certe cose. Certo. Tu guadagni se c’è la guerra. Fai soldi se la gente si spara. Se si ammazza per strada. Non ti chiedi nemmeno chi ammazzano i tuoi ferri. Tu te lo puoi permettere. Perché, come dicono, sei parente dei mammasantissima. Gli Strangio, dicono. Ma di Strangio ce ne sono tanti. Dipende dal paese di nascita. E io non so di quale paese siano gli Strangio di Pisacane. Ma gli Strangio sono comunque gli Strangio.

E poi non mi hai detto come stanno i ragazzi. Tu, Pisacane, mi nascondi qualcosa.

Luglio è un mese davvero difficile. Non passa più. La domenica poi. Ogni domenica è lunga un mese. Oggi Luca, se non fosse successo quello che è successo, saremmo al mare. In Liguria, sì. La sfida in moto. Da Milano al casello di Rapallo. Dieci di noi. I migliori del Fortino. Chissà perché uscivamo dall’autostrada a Rapallo. Sempre a Rapallo. Forse perché da Milano è scontato finire a Rapallo. L’ultimo che arrivava al casello, pagava per tutti. Bevute per dieci. E poi la cena. E tu Luca le salite della Serravalle a duecentoquaranta all’ora le facevi con una mano sola. In curva, piega piena. Giù con il ginocchio a sfiorare l’asfalto. Staccavi la mano. Ti voltavi a vedere dove eravamo noi. E ci facevi pure marameo con le dita. A duecentoquaranta all’ora. Solo tu potevi. E le pischelle in topless che ci aspettavano sugli scogli? Adesso sono qui a bollire nell’afa con l’asciugamano bagnato al collo. Pisacane che russa in branda. E quattro grissini che ci ronzano intorno ossequiosi. A proposito, sono due ore che i grissini se ne stanno sdraiati ai piani alti dove il caldo e la luce picchiano di più. Sdraiati e silenziosi. Un giorno o l’altro muoiono di astinenza. E non ce ne accorgiamo nemmeno.

Il boato arriva da lontano. Sale da sotto il pavimento. Pisacane scatta seduto sulla branda. Veloce come una saetta.

E che minchia è?

Non lo so, compare.

Il terremoto non è, dice Pisacane.

Il boato è sempre più forte. È dentro il carcere.

Ma gioca l’Italia, Rocco?

Compare, se chiedete a me di calcio siete messo proprio male.

È un rimbombo di voci e di sbarre. Sì, battono sulle sbarre. Centinaia di mani picchiano pentole, padelle, cucchiai sulle sbarre che ci rinchiudono. Anche i grissini sopra di noi si mettono a gridare. Ma che minchia hanno da gridare? Pisacane esce dalla branda a guardarli.

Che c’è?

E che ne so, risponde uno dei grissini a Pisacane. Gridano loro, gridiamo anche noi.

Allora statevene buoni. Non vorrei dover salire io a chiudervi la bocca.

Pisacane è un duro quando serve. Mi guarda mentre si risiede sulla branda. Ci viene da ridere. Ma ancora non si capisce cosa sia successo. Ecco una guardia. Cammina veloce nel corridoio deserto. Guarda dentro le celle. Una per una, attraverso le sbarre dei cancelli chiusi. La paratia scorrevole oggi l’hanno lasciata aperta. Per farci respirare. Quando tocca a noi, Pisacane si alza e si avvicina alla soglia.

Cosa sta succedendo?

Hanno ucciso un magistrato, risponde la guardia. E passa frettolosa alla cella accanto, nella sua divisa blu un po’ fuori misura sulle spalle e sulla pancia.

Pisacane si volta e mi osserva in silenzio. Non c’è niente da festeggiare. Va male per tutti quando muore uno sbirro o un corvo, un magistrato. Gli omicidi tra malavitosi fanno parte delle regole. Se non sei tu in mezzo alla guerra, puoi continuare a lavorare. Quando viene ammazzato un rappresentante dello Stato, però, vanno di mezzo tutti. Lo Stato si vendica. E nessuno riesce più a lavorare come prima. La fanno pagare anche a chi non c’entra. Figuriamoci a noi che siamo in carcere. Comunque se capita, non dura a lungo. Per fortuna lo Stato non è la mafia. Lo Stato dimentica in fretta.

Chi hanno ammazzato, compare Pisacane, come si chiama?

Non lo so, Rocco, la guardia non me l’ha detto.

Forse si riferiscono a quell’altro che hanno ucciso.

Chi, Giovanni Falcone? Ma no, Rocco, Falcone l’hanno fatto fuori due mesi fa.

E chi può essere ora, compare?

Pisacane non risponde nemmeno. Ci sdraiamo in branda. Anche i grissini se ne stanno zitti, adesso. Il boato si sta dissolvendo come il tuono di un temporale. Qualcuno ha alzato al massimo il volume del televisore. C’è un telegiornale. Di pomeriggio. Di domenica. In luglio. Allora è davvero una cosa grossa.

Compare Pisacane, avete capito il nome?

Borsellino, in tv hanno detto Paolo Borsellino, risponde uno dei grissini. Loro in alto sentono meglio.

E chi è ’sto Borsellino?

Rocco, fai silenzio che non ci sento. È un giudice di Palermo Borsellino, spiega Pisacane.

Il magistrato, continua la voce del telegiornale, è rimasto coinvolto oggi pomeriggio in un attentato dinamitardo a Palermo, dove sono morte quattro persone. Secondo la polizia, Borsellino, cinquantatré anni, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano, è rimasto ferito nella violenta esplosione di un’automobile imbottita di tritolo che ha investito la vettura del magistrato e le due blindate della scorta. L’attentato è stato compiuto in via Mariano D’Amelio nei pressi dell’abitazione della madre del giudice. Sul luogo dell’esplosione, che è stata avvertita ad alcuni chilometri di distanza…

Ma compare Pisacane, è morto ’sto magistrato o è solo ferito?

Rocco, ne so quanto te. Il telegiornale dice ferito. Ma la guardia prima ha detto che l’hanno ucciso. Quindi quello morto è.

Decine di feriti nell’attentato al giudice Borsellino, aggiunge il tono distaccato del telegiornale, sono stati raccolti e trasportati in diversi ospedali della città. Tra i feriti vi è anche un agente di polizia che si pensa sia un agente di scorta del magistrato. L’esplosione, che ha investito decine di altre auto posteggiate lungo la strada, ha divelto il manto stradale per una lunghezza di duecento metri. Danneggiato anche l’edificio vicino al quale è avvenuta la deflagrazione. Muri lesionati, alcune parti crollate, infissi di balconi e finestre divelti fino al quinto piano. Sulla zona volano elicotteri di polizia e carabinieri.

Restiamo in silenzio ad ascoltare. Aspettiamo da un momento all’altro che gli sbirri entrino nella cella a perquisirci. Succede sempre così dopo un grande fatto di criminalità. Ammazzano un pezzo grosso a Palermo. E loro vengono a scassarti la minchia a Milano.

È morto, Rocco, il telegiornale ha appena detto che il giudice Borsellino è morto, dice Pisacane, sdraiato con le mani dietro la testa. Lui è più vicino alle sbarre del cancello e da lì sente meglio di me. La tv continua a risuonare nel corridoio deserto.

Dei cinque agenti della scorta del giudice Borsellino morti nella strage, dice la voce del giornalista, tre sono di Palermo: Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano. Walter Eddie Cosina era invece originario della provincia di Trieste. Emanuela Loi di Cagliari. Traina e Catalano, sposati, lasciano rispettivamente uno e tre figli…

Non so perché. Ma la storia che quattro figli siano rimasti senza padre mi infastidisce. Forse perché io un padre non l’ho mai avuto. Magari sono figli piccoli. Bambini. E che colpa hanno loro se i loro papà facevano gli sbirri? Non mi devo impressionare di queste cose. Minchia, Luca, sto diventando un rammollito. Lo pensi di me? No, non ti preoccupare. Ti vendico lo stesso. Anche se i tuoi assassini fossero padri di famiglia. Dovevano pensarci prima. Però di qua mi devo levare. Devo togliermi da questa cella. Pisacane, non mi piaci. Non mi hai detto tutto. Coscia è dentro da febbraio e non mi ha cercato. Tu Pisacane lo sai perché non mi ha cercato. Ma non me lo dici. Si sentono grida lontane stasera nel carcere di San Vittore. Sono gli sbirri. Hanno fatto spegnere le tv. Stanno perquisendo le celle. Da noi non sono ancora arrivati. Sono ancora troppo lontani. Forse non arriveranno. Ma anche se ci perquisiscono, chi se ne frega. I miei progetti sono invisibili. Non li scopriranno mai.

Ma che ore sono? Dormono tutti. Fuori è buio. E tu Luca non mi fare più questi scherzi. Sogno che sto togliendo i vestiti a Katia. E appari tu. Almeno lasciami arrivare fino alla fine. Lasciami divertire in sogno. E fammi la predica quando ho finito, Luca. Che sistema è? Hai fatto scappare Katia. È svanita mentre si stava sfilando il camice. Sotto è sempre nuda. E tu mi rimproveri. Ma di cosa? Luca, non ho capito perché mi hai rimproverato. Però mi hai dato una buona idea. Tuo padre è dentro. E io, se voglio capire perché Coscia non mi vuole parlare, devo mettermi con tuo padre. Nella stessa cella, s’intende. Sì, Luca, non ti preoccupare. Farò domanda di trasferimento. Lascerò la cella di Pisacane per andare da tuo padre. Sempre che il direttore del carcere mi dia il permesso, che il magistrato non si opponga, che lo sbirro di turno non scriva che questo è controindicato. Da quante persone deve dipendere la mia vita? Non appena viene giorno faccio domanda di trasferimento. Io e tuo papà Vincenzo nella stessa gabbia. Più chiaro di così, Luca, il messaggio non può essere.

L’ora d’aria è un grande sollievo. Sono trascorsi mesi dal mio arresto e finalmente me l’hanno concessa. Si respira direttamente dall’aria. Nel senso che non hai quattro pareti, un soffitto e un pavimento a filtrare quello che mandi giù. Riempi i polmoni senza ammorbarti di odore di piscio a ogni respiro. L’aria libera, pura del cortile alla prima sniffata è come la droga. Fa girare la testa. Non mi ricordavo più quanto buona fosse l’aria senza la puzza di cesso. E stiamo parlando dell’aria di Milano. Per il resto non succede molto. Cammini su e giù per il cortile. Fa bene ai muscoli. Oppure tiri quattro calci a pallone, se le guardie non hanno nulla in contrario. Oppure ti guardi intorno e cerchi di interpretare come gli altri ti guardano.

È importante interpretare come gli altri ti guardano. Come la mattina che mi ritrovo nel cortile Coscia. Proprio lui. È un tuo amico, o dovrebbe esserlo. Ti dovrebbe correre incontro. Abbracciare. Rassicurare. Promettere fedeltà. Consolidare l’alleanza. Invece che cosa fa? Se ne sta sulle sue. E soltanto perché vado a calpestare il cortile su cui sta camminando, lui deve salutarmi. Coscia in fondo non ha colpa. Coscia è un cagasotto. È nato cagasotto. Semplicemente ha paura ad avvicinarmi. Non perché io gli faccia paura. E questo non mi sta per niente bene. Da quello che ho capito, ha paura ad avvicinarmi perché altri gli fanno paura. Io gliel’ho detto chiaro e tondo la prima mattina che ci siamo rivisti. Ma no, dice lui, ma dai, non è così, che cosa hai capito, non ti ho cercato perché non ero certo che tu fossi qui, non devi pensar male. E invece penso male. Malissimo. Non vuoi far sapere che stai dalla mia parte. O forse non stai più dalla mia parte. Poi mi vieni a lisciare dicendo che sei contento che mi abbiano messo in cella uno come Pisacane. Che con lui sto sicuramente bene. Che Pisacane sta sicuramente dalla nostra parte. Perché le armi trovate vicino al Fortino, quando hanno arrestato il papà di Luca, le aveva fornite proprio Pisacane. Puttanate. Pisacane sta con noi. E contro di noi. Perché un trafficante d’armi non sta dalla parte di nessuno. Quello sta solo dalla parte dei soldi. Se lo paghi, lui i ferri te li dà. Non perché condivida i tuoi obiettivi. Te li dà solo perché lui con i ferri ci guadagna. Coscia, vuoi fare fesso proprio me? Eccolo che adesso mi deve per forza guardare.

Rocco, come va? È un po’ di settimane che non siamo usciti alla stessa ora.

Già.

Non passa più, Rocco. È dura.

Non passa più.

Senti Rocco, ti devo parlare.

Era ora, Coscia.

Sì, ma non te la prendere. Non mi guardare così.

E come minchia ti devo guardare? Sei tu che abbassi lo sguardo. Chi abbassa lo sguardo è un cagasotto. E un traditore. Che tu sia un cagasotto, lo sappiamo in tanti. Vediamo ora se sei anche un traditore. Ma guarda, ti sudano le ascelle. Hai messo la maglietta azzurra e si vede benissimo la macchia sotto le braccia. Se stai sudando, è perché hai davvero paura. E questa volta temi la mia reazione. Vediamo fino a che punto arriva la tua faccia di minchia.

Rocco, che fai, te ne stai zitto? C’è qualcosa che non va?

Coscia, io sono qui. Ti ascolto. Basta che non mi fai ancora la pippa su Pisacane.

No, non è di Pisacane che ti devo parlare. Senti, dice Coscia. E si ferma.

Allora ciao, Coscia, faccio un giro del cortile.

Vengo anch’io, Rocco, è meglio se camminiamo.

Camminiamo.

È del Fortino che ti devo parlare. E di Faccia d’Angelo.

Sentiamo.

Rocco, fuori non è più come prima.

Ma che minchia mi vieni a raccontare, Coscia? Certo che non è più come prima. Luca non c’è più. Io me ne sto qui dentro.

Luca non c’è più perché è stato tradito.

Non è stato solo tradito, Coscia, Luca è stato ammazzato.

Sì, ma la soffiata è arrivata dai ragazzi del Fortino. Aspetta Rocco, lasciami parlare. E continuiamo a camminare. Quelli ci stanno guardando.

Sai che minchia me ne frega di quelli, Coscia.

Camminiamo, è meglio. Allora, sono i Compari, i mammasantissima dei Compari, che hanno deciso di toccare Luca.

E me lo vieni a dire tu che sono i Compari? Era chiaro da subito che fossero i Compari. Il padre di Luca, tuo suocero compare Vincenzo, l’ha detto chiaro e tondo davanti a tutti chi è stato. L’ha detto che il cadavere di suo figlio era ancora per terra in mezzo alla piazza.

Sì, ma i Compari non sapevano come e quando trovare Luca. Li hanno avvertiti i ragazzi. I nostri ragazzi. Hanno avvertito quelli venuti da giù con i ferri. E loro hanno sparato a Luca.

Il suono della città è perfino bello. Il sottofondo del traffico. La solita sirena. C’è sempre una sirena che passa. Ho imparato a distinguerle. Quella da astronave delle ambulanze. Quella a due suoni degli sbirri. Quella potente, che ti sveglia a qualunque ora del giorno e della notte, dei camion dei pompieri. Questa è un’ambulanza. La testa fa in fretta a difendersi. Pensa ad altro. I pensieri, le parole non sono materia. Ma il corpo no. Non può nascondersi. Il corpo deve affrontare la realtà. E quella che Coscia mi presenta, è una realtà sconvolgente. I nemici di Luca eravamo noi. Erano dentro di noi.

Chi, Coscia?

Come chi, Rocco?

Chi ha tradito Luca?

I nomi non li conosco.

E che minchia c’entra Faccia d’Angelo in tutto questo?

Faccia d’Angelo non c’entra nulla con l’omicidio di Luca. Però lui fa parte di quelli passati con i Compari.

Dopo la morte di Luca si è schierato con i Compari?

No, Rocco, non dopo la morte di Luca. Prima della morte di Luca.

Se mi dice queste cose, è perché Coscia sta ancora dalla parte di Luca. E quindi dalla mia. Che pivello sono stato. La possibilità del tradimento non l’avevo proprio calcolata. Come fai a immaginare che il nemico stia al tuo fianco? Faccia d’Angelo alleato con gli assassini di Luca.

Quando hanno ucciso Luca e ti hanno arrestato, continua Coscia mentre facciamo dietrofront per percorrere il cortile in senso opposto, hanno messo in giro la voce che tu c’entravi con l’omicidio. Tu eri il traditore. Questo ci hanno detto. Sei stato arrestato subito dopo l’omicidio, come facevamo a non pensarlo?

Mi hanno ingabbiato per un’altra storia.

A noi hanno detto così…

Ma tu, Coscia, guardami negli occhi una volta tanto. Davvero hai pensato che Luca l’avessi fatto ammazzare io? Io che quella sera ero lì a distrarre gli sbirri che stavano manganellando i nostri. Io che per difendervi mi ero messo in tasca la P38 che tu mi hai fatto trovare nell’imbosco. Io che sono corso nel bar con il lenzuolo macchiato del sangue di Luca. Davvero hai pensato che fossi io il traditore?

Rocco, in quel casino non sapevo più cosa pensare.

Stai cagando fuori dal vaso, Coscia.

Ma no, Rocco, nelle settimane dopo il tuo arresto questa era la voce fatta mettere in giro dai Compari. Io all’inizio non volevo crederci. Ma da te, dal carcere, non è arrivato nessun segnale.

Ho passato tre mesi di isolamento totale, Coscia.

E che ne sapevo io? Poi hanno blindato anche me per l’hashish, il 23 febbraio, pochi giorni dopo l’arresto di compare Vincenzo con le armi del Fortino. Lui l’hanno preso il 17 febbraio, me il 23. Così ho pensato che avrei passato le mie giornate nella stessa prigione in cui era stato rinchiuso il nostro traditore. Anche se non ero sicuro che tu fossi ancora a San Vittore.

Il nostro traditore. Io sarei il nostro traditore.

Rocco, quelli hanno approfittato del tuo arresto per allontanare i sospetti da loro, dai Compari. Poi sono andati dai ragazzi e hanno detto: adesso che Luca non c’è più e il vostro capo, Rocco, l’hanno ingabbiato, lavorate per noi. Il Fortino, Rocco, sta lavorando per i Compari, hai capito? E Faccia d’Angelo è il nuovo capo dei ragazzi.

Sei sicuro, Coscia?

Abbastanza sicuro.

E perché mi racconti queste cose adesso?

Perché ho saputo delle lettere.

Le hai lette?

No, non me le sono fatte portare qui dentro. Sono arrivate che mi avevano già arrestato. Da casa, però, durante le visite, mi hanno detto quello che hai scritto. Dei messaggi incomprensibili. Ma io ho capito cosa volevi dirmi.

E Coscia, gli chiedo, adesso da che parte sta?

Rocco, quelli sono i Compari. Non possiamo pensare di fare la guerra ai Compari. Noi siamo solo i ragazzi del Fortino. Loro sono la ’ndrangheta. Ci ammazzerebbero uno dopo l’altro prima ancora di recuperare i ferri. Quelli, Rocco, hanno orecchie e occhi ovunque. Quelli sono più forti di noi. Non puoi pensare a una guerra, senza prevederne le conseguenze, Rocco. Ci metterebbero tutti sotto terra solo perché ne stiamo parlando. Loro sono la ’ndrangheta, Rocco. Quanti siamo noi?

Certo, Coscia, usano le orecchie e gli occhi dei cagasotto come te.

Rocco, io non ti sto dicendo che mi sono messo con i Compari. Ti sto dicendo che ho saputo delle tue lettere, ho capito cosa hai scritto e ti rispondo che non possiamo fare la guerra ai Compari. Dobbiamo ammettere di aver perso.

Sei un cagasotto. Confermi il mio pensiero. Sei un cagasotto. Tu, il custode delle armi del Fortino, l’accasato nella famiglia di Luca, tu che dovresti essere il primo a organizzare la vendetta, ti tiri indietro. Un cagasotto di minchia.

A cosa pensi, Rocco? Perché non parli?

Perché non ho niente da dirti, Coscia.

Non hai niente da dirmi. Va bene. Io torno in cella.

Ti allontani con le tue ascelle sudate. Attraversi il cortile con la camminata da bullo che hai sempre avuto. Magro. Alto. Bullo. Coscia non è un uomo di crimine. Sei soltanto un bullo. Luca, non ti preoccupare, basto io per la tua vendetta. A costo di andarci da solo a sparare a quelli.

La notte è una giostra di incubi. Appaiono. Si nascondono. Riappaiono. Mi svegliano. Pisacane ha gli occhi aperti e fuma in branda. I grissini fanno i fatti loro di sopra, in silenzio. Forse dormono. In autunno la notte torna a essere la notte. Fa freddo ormai in cella. È riapparso il freddo. E non sono sicuro che Coscia non si sia messo d’accordo con Faccia d’Angelo prima di essere arrestato. Oppure, per salvare il suo deretano, direttamente con i Compari. Il problema più grosso però è che io, le stesse lettere che ho spedito a Coscia, le ho mandate anche a Faccia d’Angelo.

Indietro, gridano una mattina dal corridoio.

Aprono la porta blindata e dietro le sbarre che ci rinchiudono appare il maresciallo. Addirittura il maresciallo. Il capo degli sbirri qui dentro. Quello grande e grosso e il nodo della cravatta sempre allentato sulla camicia azzurra della divisa. Con la chiave più grande sblocca la griglia che ci ingabbia. Il cancello cigola di brutto. Entrano anche due agenti.

Rocco, prenda le sue cose e ci segua, dice il maresciallo.

Pisacane, sdraiato in branda, mi guarda. I grissini si avvicinano ossequiosi. Mi aiutano a riempire il borsone. Quasi ci pestiamo i piedi. Non c’è spazio per tutti nella cella. I due sbirri escono in corridoio per lasciarci muovere. Pure il maresciallo si toglie di mezzo. Ma si ferma sulla soglia.

Rocco, chiede uno dei grissini, il più magro, uno stoccafisso pelle e ossa, ti liberano?

Sì, mi liberano.

Allora ci vediamo fuori. Allo stesso posto.

Allo stesso posto in culo al mondo, dico io.

Il maresciallo sorride. I grissini mi guardano seri.

Ci si rivede, Pisacane, gli dico per salutarlo.

Lui, sempre sdraiato in branda, mi risponde con un cenno morbido del mento. Come farebbe un bullo. Nemmeno tu, Pisacane, sei un gangster. La mano destra del maresciallo stretta al mio braccio sinistro mi accompagna in corridoio. I due sbirri richiudono il cancello e la blindata. Adesso camminiamo in mezzo a due pareti di porte blindate. Rettangoli di ferro solidi come fiancate di navi corazzate. Alcuni sono chiusi. Altri sono aperti sulla scacchiera dei cancelli. Decine di occhi ci guardano attraverso le griglie di ferro verniciato di bianco. Sento addosso lo sguardo di tutto il carcere. Di tutti i detenuti. Anche di quelli nascosti dietro lo spioncino. Due porte chiuse. Tre aperte. Una chiusa. Una aperta. Due chiuse. Il maresciallo si fa aprire l’ultima cancellata. Quella che ci separa dalla rotonda.

La rotonda è il luogo in cui si concentrano le voci, i rumori, i respiri, le grida di San Vittore. È lo spazio su cui convergono tutti i sei raggi, i corridoi, i piani. Il luogo delle sceneggiate con il mondo di fuori quando invitano volontari, attori, autorità a sciacquarsi l’anima davanti a noi. Delle messe della domenica. Della messa di Natale celebrata dal vescovo. Io non ci sono andato a messa a Natale. Anche perché non mi hanno chiamato. Il mio secondo Natale in gabbia è stato un giorno come gli altri. La rotonda vista da dentro è una immensa torre. È come il centro cilindrico di una chiesa. Con le nicchie alle pareti. Le sue finestre alte. Inarrivabili. Il cartello ingiallito dai decenni, sopra il cancello che i due sbirri stanno richiudendo a chiave. Il numero romano. Quinto. La scritta in stampatello. Raggio. Lo lasciamo alle nostre spalle.

Andiamo di qua, ordina il maresciallo.

I due sbirri ci superano. Corrono ad aprire il prossimo cancello. Il maresciallo si mette davanti. Minchia, ma quanto è alto il maresciallo. Non riesco a vedere. Non riesco a leggere il cartello in alto. Dovevo stare attento a non perdere l’orientamento. Dove mi stanno portando? Mi spingono dentro. Non ho visto in quale raggio siamo adesso. Davanti a noi si allunga un corridoio oscuro. Entra un po’ di luce dalle poche celle che hanno la porta aperta. Nella prima a sinistra, due donne ci guardano passare. Come donne sono davvero dei cessi. Una ha la barba al mento. No, non ci posso credere. Sono uomini. Due uomini truccati come zoccole. Questa è la sezione dove rinchiudono i travesta. Travesta, ricchioni e pedofili. Perché mi portano qui? Se vogliono farmi incazzare, ci stanno riuscendo. Che messinscena è? I Compari hanno un fratello travestito. Questi vogliono farmi uno scherzo. Vogliono farmi ammazzare dal fratello dei Compari. Un lenzuolo al collo. E la versione ufficiale da raccontare fuori. Non ha retto la detenzione e si è impiccato. Vaffanculo, maresciallo, io non mi impicco. Se mi volete ammazzare, pregate iddio che non sopravviva.

Lasci il borsone ai miei colleghi, dice all’improvviso il maresciallo. Poi mi volta di nuovo le spalle.

Indietro, grida. Apre la porta blindata. E poi il cancello, nascosto dietro la porta.

Prego, entri, dice di nuovo il maresciallo.

Mi affaccio. Non riesco a vedere. Il sole sbiadito dell’inverno si infila dall’alto e illumina la stanza. È davvero piccola. Due letti a castello a sinistra. Un tavolo addossato alla parete di fronte. Sopra splende il quadrato della finestra. Anche questa inarrivabile, sotto il soffitto di almeno cinque metri. Una mensola a destra. E un telo di cellophane nero a fare da tenda. Nasconde il cesso e il lavandino, credo. C’è troppa luce perché riesca a vedere bene. Gli occhi non si sono ancora abituati al passaggio dall’oscurità del corridoio. Solo a questo punto mi accorgo che la branda più bassa è occupata. Lui si alza. Resta in piedi in mezzo alla cella a guardarmi. È un uomo piccolo. Anziano. Più piccolo di me. Non mi arriva alle spalle. A mano a mano che le mie pupille si adattano alla luce, scopro i lineamenti del suo volto. La cicatrice, soprattutto. Un taglio di traverso tra il mento e il labbro inferiore. I due sbirri in corridoio stanno rovistando nel mio borsone. È la perquisizione. Posano sul pavimento tre paia di mutande. Due magliette. La bottiglia di shampo. Il sapone. Il tubetto della schiuma da barba. Due pacchi di pasta. Il resto lo controllano senza tirarlo fuori. E rimettono tutto dentro.

A posto, dice il maresciallo e mi consegna il borsone.

Gli sbirri se ne vanno facendo risuonare la chiave dentro la serratura del cancello. Il suono della 44 Magnum che mi piace tanto. Poi sbattono la porta blindata. Altri giri di chiave.

Mettiti comodo, dice l’uomo.

Ora lo vedo bene. Pantaloni di una tuta da ginnastica nera. Maglietta bianca e, sopra il bianco della maglietta, una felpa blu con il collo aperto.

Come state, signor Vincenzo?

Sono qua, Rocco. Aspetto il momento di uscire.

Non possiamo fare altro che aspettare quel momento, signor Vincenzo.

Già, tra otto giorni è un anno che vivo qua dentro. Aspettiamo.

Posso abbracciarvi?

Lui mi guarda. E si lascia baciare con rispetto sulle guance.

Prenditi la branda sopra, dice subito dopo.

Siamo soltanto noi?

Solo noi, risponde.

Butto sopra la branda il mio borsone. Ci guardiamo. Intorno, una cella da due. Una di quelle che usano come isolamento, immagino. Il padre di Luca a un certo punto si asciuga gli occhi. E si siede sulla coperta di lana grezza della sua branda.

’U figghiu miu intelligente, mormora nel suo forte accento siciliano.

Luca era il nostro capo.

Già, anche di quei pezzi di fango lo fu. Perché hai fatto domanda di metterti in cella con me? Lo sai… Esita un attimo prima di finire la frase. Lo sai cosa rischi…

Lo so bene, signor Vincenzo. Ma per me è un onore.

Lascia perdere l’onore. Quella è roba buona per il Calabrese.

Il Calabrese e i Compari suoi sono solo una questione di tempo, signor Vincenzo. Aspettiamo quel momento.

Rocco, stai accorto. Qui dentro i muri ci ascoltano.

Scusate, non era quello che intendevo.

Lui sgrana gli occhi, sorpreso dalla mia risposta.

Era solo un modo di dire per fare falsa politica, mi giustifico subito.

Lui allora sorride. Un sorriso incontrollato. Significa che si fida di me. Forse.

Ci eravamo baciati, io e il Calabrese. E anche tu, Rocco, gli avevi stretto la mano.

È per questo che sono qui, signor Vincenzo. Perché tutti sappiano da che parte sto.

Il vecchio non parla più. Accende il fornelletto da campeggio. Mette sul fuoco una pentola piena d’acqua. Quando bolle, aggiunge spaghetti per due. Apparecchia la tavola. Riempie la caraffa al rubinetto. Mi fa accomodare con il gesto della mano. Mangiamo pasta in bianco, condita con un filo d’olio. Gli sorrido. Lui niente. Abbasso la testa e faccio sciogliere gli spaghetti tra i denti. Penso per gioco che ogni spaghetto sia un braccio, un orecchio, un occhio del Calabrese. E dei suoi sgherri traditori. Ci sdraiamo sulle brande. Lui sotto. Io sopra. Il vecchio non parla da ore.

All’improvviso, senza scendere dal letto, mi passa un foglio. Dal cigolio delle molle, sento che torna a sdraiarsi. Il foglio è una fotocopia sbiadita. Una carta degli sbirri. Legione carabinieri di Milano, c’è scritto in alto. Fa seguito segnalazione numero 41/11 datata 05/07/1991. 17 febbraio 1992. Quadro indagini omicidio cui tratta segnalazione at seguito. Ma come minchia scrivono gli sbirri? Militari di quest’Arma effettuavano perquisizioni domiciliari in Milano… Pervenendo ai seguenti risultati: ore 14, Milano, arresto…

Non si legge il nome, chi arrestarono signor Vincenzo?

Io fui arrestato, risponde lui di sotto, è il verbale del mio arresto. Il 17 febbraio. Tra una settimana è un anno che mi arrestarono.

Capisco, ma come minchia scrivono gli sbirri?

Così scrissero, Rocco.

Vado avanti a leggere.

Vai, vai avanti, dice lui e si gira facendo traballare il letto a castello.

… Pregiudicato. Cui sequestrato: fucile automatico dodici colpi at rotazione, calibro dodici Armser…

Armser? Cos’è Armser, non si legge bene.

Lascia perdere i dettagli, vai avanti.

Puntamento laser. Fabbricazione italiana. Fucile a pompa Winchester Defender calibro 12GA. Matricola L2139637. Calcio segato. Fucile automatico Colt AR15. Calibro 223. Completo tre caricatori bifilari. Fabbricazione Usa. Pistola semiautomatica Imi calibro 44 Magnum modello Desert Eagle. Fabbricazione israeliana. Numero 32 cartucce calibro 44 REM Magnum. Numero 171 cartucce calibro 12. Numero 74 cartucce calibro 223 REM. Numero 120 cartucce calibro 5.56 Ball-M855. Numero 1 silenziatore. Numero 1 giubbotto antiproiettile. Titoli vari al portatore per circa 200 milioni di lire. Armi et munizioni in perfetta conservazione.

Ridammi il foglio, Rocco.

Eccolo signor Vincenzo.

Guardo il soffitto per almeno un’altra ora di silenzio. Il sole fuori si è spento. Nel buio rivedo Luca. Il suo ultimo sguardo.

Signor Vincenzo?

Dimmi, risponde lui.

Avete fatto un solo errore nella fornitura.

Quale errore?

Il giubbotto antiproiettile. Ne avevate comprato uno solo.

Uno solo basta.

Volete lasciarmi senza protezione?

Non so se riesco a farmi capire. Lui resta zitto. Spero che nel buio abbia almeno sorriso.

Rocco, non ti mettere in mezzo, dice dopo un po’. Il Calabrese e i Compari se la devono vedere con me. Loro i due figli li hanno tolti a me.

A me hanno tolto due fratelli.

Quando sarà il tuo momento, ci penserai. Queste cose si lavano da soli.

Come volete, signor Vincenzo. Ma io ho chiesto di venire qui da voi per essere sempre al fianco di Luca. Io non ho tradito.

Tradito, tradito. È pieno di traditori.

Credete che lo sia anch’io? Io non mi chiamo Faccia d’Angelo.

Buono quello, mormora il papà di Luca. E si alza.

Accende la luce. Svita la caffettiera. La riempie di caffè. Avvicina l’accendino al fornelletto. Mette la caffettiera sul fuoco. Impreca. Riprende la caffettiera.

Signor Vincenzo, ve lo volevo dire.

Che c’è?

Avete dimenticato l’acqua.

Me ne sono accorto… Senti Rocco, dice all’improvviso il vecchio. Si volta e mi guarda negli occhi: se vuoi parlar di certe cose, parliamone. Però a bassa voce. Non si sa mai. E sappi che da qua dentro non si torna indietro.

Io non intendo tornare indietro. Io non ho tradito Luca.

Dicevano questo in piazza, aggiunge lui.

E voi credete alla piazza? Voi credete che io sia come quelli là fuori? Se ho chiesto di essere trasferito nella vostra cella, mi dovete credere. Lo giuro su Luca che…

Non bestemmiare il nome di mio figlio.

Non è una bestemmia, signor Vincenzo. È quello in cui credo. Luca era la mia famiglia. E lo è ancora. Luca mi ha salvato. Non gli hanno lasciato il tempo di vedere come io sia cambiato. Grazie a lui. Nel Fortino avevo la fama del pazzo, di quello che sniffava qualunque cosa fosse polvere. Qui dentro ho smesso. Bevo interi flaconi di Valium, me lo danno come terapia, ma ho smesso con la mia volontà. Io ho un solo compito nella vita, ora. Che è anche il vostro. Signor Vincenzo, io non mi chiamo Coscia.

Vieni giù e siediti che è pronto il caffè.

Il papà di Luca riempie due tazze e si siede.

Cominciamo da Coscia, dice.

Cominciamo da dove volete.

Coscia è un morto che cammina.

E perché dovrebbero ammazzarlo? Non si spara all’acqua.

Immagino quello che pensi, Rocco. Ma non sai molte cose. Coscia è un morto graziato. Nel senso che ha promesso ai Compari di non farsi ammazzare.

Un traditore, allora.

Cosa vuoi che ti dica, così è. Un giorno il Calabrese e i Compari andarono a prenderlo. Tu eri già in carcere. Lo caricarono in macchina e lo portarono in un campo fuori città. Scesero dalla macchina, presero una pala dal cofano e gliela diedero. Scava pezzente, gli disse il Calabrese. Lui chiese perché. Non ti preoccupare, scava, potrebbe esserci utile. Coscia cominciò a scavare la buca. Capì che gli stavano facendo scavare la fossa. Nemmeno facevano la fatica di scavarla loro la tomba. Cosa minchia intendi fare, gli chiesero i Compari, è vero che vuoi vendicare tuo cognato? Coscia, giuda qual è, non rispose subito. Si fermò a guardare. Quelli, già con il ferro in pugno, gli urlarono. Scava. Lui continuò e per la paura si cacò perfino nei pantaloni. Immaginati la scena.

La immagino. Ho sempre pensato che fosse un cagasotto.

Certo Rocco, così è. Non ebbero nemmeno bisogno di mettere il colpo in canna. Coscia si inginocchiò. E si mise a pregarli. Non a pregare, che è sempre segno di dignità. A pregarli. Vi giuro, vi spergiuro, vi prometto, vi assicuro. Lì in ginocchio, con la merda nei pantaloni, giurò che non avrebbe fatto nulla contro il Calabrese, contro i Compari.

E non l’hanno ammazzato.

No, Rocco. Coscia dev’essere stato così convincente…

Sarà stata la puzza di merda.

Forse, Rocco. Li convinse a lasciar perdere. A non rischiare l’ergastolo per omicidio. Tanto lui non avrebbe fatto nulla. Li convinse. E loro lo lasciarono lì nel campo. Con la pala in mano. E la cacca nei pantaloni.

Senza pagare nessun prezzo, signor Vincenzo? Non ci credo. Se le cose sono andate così, penso che…

Appunto. È proprio come pensi tu, Rocco.

Cioè, lui ha rivelato al Calabrese e ai Compari notizie riservate. Loro le hanno fatte arrivare agli sbirri. E gli sbirri sono venuti a prendervi con tutto l’arsenale.

Caro Rocco, non era difficile. Tenevo tutto in casa. È andata proprio così, ne sono sicuro come è vero il mondo.

Coscia, Faccia d’Angelo. Perfino il Calabrese ha tradito. Ci ha detto una cosa e ne ha fatta un’altra.

Ha fatto falsa politica, Rocco. Pensa che io il 5 febbraio dell’anno scorso fui addirittura sentito dal pubblico ministero come testimone sulla morte dei miei figli. E il 17 febbraio mi arrestarono per i ferri. Se già sapevano, mi arrestavano il 5, non credi? Invece il 5 mi convocarono in Procura per chiedermi cosa sapessi sugli omicidi di Ghiaccio e di Luca. Mi lasciarono tornare a casa. E il 17 vennero a prendermi con le manette. Non ti sembra strano?

Sì, signor Vincenzo. È evidente. Tra il 5 e il 17 febbraio quegli infami hanno dato la soffiata agli sbirri.

Allora, continua il vecchio, dopo l’omicidio di mio figlio Ghiaccio, Luca si mise alla ricerca degli autori. E scoprì che era stato Calimero, insieme ad altre persone.

Quella femmina di Calimero. Quello che si fa proteggere dai mammasantissima. Anch’io conosco questa versione.

Proprio lui, Rocco. Perciò mio figlio, per vendicarsi, sparò a Calimero.

Lo so, signor Vincenzo.

Lui, seduto di fronte, nemmeno mi guarda. Continua a osservare sul tavolo la tazza di caffè ormai freddo. E a raccontare.

Luca mi disse che aveva invitato Calimero a fare un giro in motorino. E che poi lo aveva portato da qualche parte e lo aveva ferito.

È andata più o meno così, signor Vincenzo.

E disse che non lo aveva ammazzato perché non si era sentito di farlo.

Proprio così. Luca non era un assassino.

Luca mi disse anche che aveva lasciato una lettera nella sua macchina, nel caso gli fosse successo qualcosa.

Nella macchina di Luca?

Sì, la macchina di Luca. La polizia trovò il biglietto nascosto nel poggiatesta del suo sedile. C’era scritto con quali persone mio figlio aveva rapporti per la questione dell’omicidio di Ghiaccio.

Non sapevo della lettera. Luca non me ne aveva mai parlato. Forse per non coinvolgermi. O forse perché, pieno di cocaina com’ero, non si fidava di me al punto di dirmelo.

Dopo il ferimento di Calimero, continua il padre, io telefonai a casa sua, a Calimero. Gli dissi che se mio figlio doveva andare in galera per avergli sparato, da parte mia ci sarebbe andato. Gli chiesi anche dove fosse la sua macchina. Perché non vedevamo più in giro la Panda di Calimero. Quegli infami avevano creato un doppione, sicuramente un clone. Distrussero la Panda coinvolta nell’omicidio di Ghiaccio. E montarono la targa su un’altra simile. Non uguale, simile. Cambiava leggermente il colore. Credevano di farmi fesso? Dalla domanda sulla Panda, Calimero seppe che avevo capito chi avesse ucciso Ghiaccio. E mi rispose che lui non avrebbe denunciato Luca per avergli sparato. Forse per tenermi buono. Io allora mi preoccupai di più, perché pensai che Calimero volesse vendicarsi personalmente. Allora gli proposi un incontro. Circa una settimana prima dell’omicidio di Luca, forse verso la fine di novembre, gli dissi, a mio figlio, che doveva andare in Sicilia, da mia sorella. Perché ritenevo che stessero per ammazzarlo. Luca mi diede ascolto e andò a Catania. Però rimase a Catania soltanto tre giorni. Io lo avvertii che le persone che ce l’avevano con lui potevano infuriarsi e farlo fuori. Ma lui non se ne preoccupava o comunque non dava a vedere che avesse paura. E preferiva affrontare il rischio.

Luca era proprio così. Quando hanno trovato la lettera nel poggiatesta?

Qualche giorno dopo l’omicidio, gli sbirri, i carabinieri, smontarono la macchina di Luca. Il biglietto era infilato sotto la stoffa del poggiatesta.

E cosa c’era scritto?

Il vecchio si alza. Da un borsello di pelle nascosto nell’ombra della sua branda, prende il portafoglio. Dal portafoglio estrae un foglio di carta piegato in quattro. Lo apre e lo stende sul tavolo. È una fotocopia consumata da mani sudate che chissà quante volte l’hanno girata e rigirata tra le dita. La scritta è in stampatello.

Ecco qua il testamento. ’U figghiu miu intelligente. Leggilo a voce alta, ordina il papà di Luca.

CALIMERO A UCCISO A GHIACCIO L’O SAPUTO DA UNA CHE È LA COGNATA DELLA MOGLIE DI PEPPINO-BUONANIMA UCCISO DA GENTE CHE NOI NON ABBIAMO NULLA A CHE VEDERE CI O DATO SOLDI E MI HA DETTO CHE LA MATTINA CHE È MORTO A GHIACCIO LEI ERA DALLA COGNATA E A’ VISTO CALIMERO CHIEDERE AIUTO PERCUE ERA PIENO DI SANGUE E PER FAR SPARIRE LA PANDINA. CI O’ SPARATO IN VIA RICCIONE MA E SCAPATO E ADESSO O’ PAURA CHE MI FANNO CUALCOSA.

Non importa che sia una fotocopia. Con queste parole, è come se stringessi la mano di Luca. Una mano fredda. Sottile. Fragile. Come questa carta sgualcita.

Tra la cognata e la moglie, le confesso signor Vincenzo che non ho capito una beata minchia. Però se qualcosa ho capito, è che Peppino Buonanima è il capo della famiglia legata al Calabria. Non il Calabrese. Il Calabria, quello con il ghiaccio al posto degli occhi.

Proprio così, Rocco. Il Calabrese è il capo. Ma il Calabria, il Calabrese, Calimero sono tutti la stessa combriccola.

Il Calabrese è più di un capo. È il capo ’ndrina, il capo parrocchia. Il nostro capo parrocchia da cui eravamo obbligati a rifornirci. E questo è un dato assodato, signor Vincenzo.

È un dato assodato, Rocco. Quella mattina, dopo avere ucciso mio figlio Ghiaccio, Calimero era sporco di sangue. Anche la sua macchina, la Panda bianca, era sporca di sangue. E dove andò a chiedere aiuto? Dalla famiglia del Calabria andò. È così legato a loro da chiedergli aiuto addirittura dopo avere ucciso un cristiano.

Eppure, signor Vincenzo, ero convinto che il Calabria facesse parte di un’altra parrocchia.

Così stanno le cose.

E l’incontro? All’incontro il Calabrese ha fatto una promessa.

Quale incontro?

Il nostro, signor Vincenzo. Quello con Luca, voi, il Calabrese e io.

Il nostro incontro, sì.

Il padre di Luca guarda a sinistra verso il cancello e la porta blindata, rimasti chiusi da quando sono entrato qui. Come se stesse cercando qualcosa lì. O forse insegue solo il suo pensiero. O il suo ricordo.

Ti manca un pezzo, Rocco, dice subito dopo. E visto che sei venuto nella mia cella, lo devi sapere.

Se volete.

Sì, continua lui. Tu sapevi che Ghiaccio aveva ferito Calimero?

No.

Tutto cominciò da lì. Un pugno di Ghiaccio.

Quando picchiava era Mohamed Alì.

Chi?

Il pugile americano, signor Vincenzo. E Calimero cosa fece?

Tra mio figlio e Calimero scoppiò una lite. C’era anche l’altro mio figlio.

C’era Luca?

No, magari ci fosse stato Luca. L’avrebbero chiusa lì. C’era Blues. Non mi hanno mai detto il motivo della lite. Questione di bustine, penso. Ghiaccio gli tirò un destro. E Calimero ebbe una lesione all’occhio. Una lesione permanente, disse lui. Calimero lavorava per noi, fino a quel momento.

Sì, lo sapevo.

Fino a quel momento. Poi per la storia dell’occhio si mise con i Compari, quelli che ci rifornivano.

Gli uomini comandati dal Calabrese.

Appunto. Ma questo lo venni a sapere molto dopo, Rocco. Calimero era appena rientrato dalla Francia, dove era stato arrestato. Storie di droga.

Sapevo anche questo.

Poco dopo il suo arrivo dalla Francia, avvenne quella lite. La causa di tutto. Calimero raccontò in giro che era stato ricoverato in ospedale, che per colpa di mio figlio aveva rischiato di farsi arrestare. Tu sai com’era Ghiaccio.

Era Ghiaccio, signor Vincenzo.

Ecco, Ghiaccio fu ucciso da Calimero per la storia dell’occhio.

Solo per questo?

Ghiaccio ne aveva fatti di casini. Ma io e ’u figghiu miu intelligente avevamo sempre messo una parola. Questa volta no. Calimero fece tutto di testa sua. Secondo me, però, i Compari sapevano. Nessuno di loro fa nulla senza avvertire i Compari. E anch’io avvertii i Compari.

Osservo gli occhi piccoli del vecchio. Occhi neri, quasi appuntiti, come quelli di Luca. Li osservo senza capire il senso della sua ultima frase. In che senso, cioè, avrebbe avvertito i Compari?

Un giorno, continua lui, feci sapere a uno dei Compari che Calimero doveva essere ucciso da noi. Dalla mia famiglia. Gli dissi proprio così. E che ce n’era per chi si metteva di mezzo. Non ho fatto falsa politica. Dissi appunto che ce n’era anche per chi si metteva di mezzo. Il giorno dopo vennero da me il Calabrese e un altro fratello dei Compari. Erano armati. Si fecero vedere che erano armati. Io ero con due ragazzi del Fortino. Quando li chiamai, vennero subito a farmi da scorta. Ma erano terrorizzati.

Io dov’ero?

Che ne so io, Rocco, dove minchia eri? Sapevo che il Calabrese era scontento di noi. Perché Luca si riforniva di droga non solo da lui. E anche perché voi continuavate a fare casino nel quartiere.

Mi spiace.

Ti spiace. Oramai è tardi, Rocco, per spiacersene. Seppi anche, ma solo dopo l’omicidio di Luca, che dopo quell’incontro con me il Calabrese disse così: li dobbiamo ammazzare tutti. Cioè io, i miei figli e quanti stanno dalla mia parte. Capisci cosa intendo dirti?

Non c’è bisogno che me lo diciate voi, signor Vincenzo. Lo sapevo da prima di venire qui.

Bene. Il Calabrese e i Compari seppero che ci stavamo armando. Ancora prima dell’omicidio di Ghiaccio. E sai come?

Francamente no, signor Vincenzo.

Glielo disse Luca. Un giorno Luca portò uno dei Compari a casa di Coscia in via Grigna e gli mostrò le armi nascoste sotto il cuscino di una poltrona. Convinto di giocare nella stessa squadra, Luca mostrò ai Compari la nostra potenza di fuoco. Eravamo ancora tutti vivi. Poi uccisero Ghiaccio. E ci fu la mia promessa pubblica ai Compari di ammazzare Calimero. Quelli a quel punto non solo conoscevano le nostre intenzioni. Ma perfino il tipo di armi che avremmo usato. E veniamo al ferimento di Calimero.

Quando Luca gli spara e non ha il coraggio di ucciderlo.

Sì, quando mio figlio lo ferì a un braccio e non ebbe la forza di finirlo. Luca seppe che, dopo la morte di Ghiaccio, Calimero andò dalla parente del Calabria per ripulirsi dal sangue e far sparire la macchina. E lo scrisse sul biglietto che hai letto.

Quello nascosto nel poggiatesta.

Sì, quello. E siamo così al famoso incontro. Quando ti dissi di venire anche tu.

Luca sembrava tranquillo dopo quell’incontro.

Era tranquillo, Rocco. Era tranquillissimo.

Bastardi traditori.

E come poteva dubitare?

Ma fu il Calabrese a chiederlo l’incontro?

No, Rocco. Fui io. Siamo a una settimana prima dell’omicidio di Luca. Dopo la mia telefonata a Calimero, quando lui disse che non avrebbe fatto denuncia per il ferimento. Dovevo proteggere mio figlio. Visto che non se l’era sentita di uccidere Calimero, Luca pensava addirittura di consegnare agli sbirri il risultato delle sue indagini.

Cioè avrebbe denunciato Calimero agli sbirri perché lo arrestassero?

Più o meno sì, Rocco. Allora tentai di parlare con il livello superiore, come era giusto.

Era giusto, sì.

Allora, sempre attraverso i Compari, feci arrivare al Calabrese l’ambascia per un incontro pacificatore.

Questo non lo sapevo.

Il Calabrese accettò subito. Io poi chiesi la tua partecipazione perché volevo un testimone esterno. Chiesi a Luca di chi ci potevamo fidare. Fu lui a fare il tuo nome.

Un groppone allo stomaco mi riempie gli occhi di lacrime. Ma il padre di Luca non deve vedere. Un uomo d’onore non piange. Spara.

Signor Vincenzo, io mi ricordo che dopo il ferimento di Calimero, voi avevate una scorta.

Sì, feci arrivare due uomini dalla Sicilia.

Non è possibile che loro abbiano tradito sul…

No, no, sono tutti di un’altra parrocchia. Sono siciliani, Rocco. Non sono calabresi.

Voi però mi avevate detto che avevate raggiunto un accordo con il Calabrese e proprio per questo avevate fatto tornare Luca a Milano perché si incontrasse con il Calabrese.

Sì, ti dissi questo, Rocco. Ma non andò così. Luca tornò di testa sua. Allora capii che, se non volevo lasciarlo ammazzare, dovevo ottenere un incontro pacificatore con quello che aveva il potere di fermare Calimero.

E proprio questo avvenne, no? Il Calabrese diede addirittura una pacca sulla spalla a Luca per rassicurarci sulla pace raggiunta. Non andò così?

Andò così, Rocco, andò così. Invece stavano facendo falsa politica. Come Giuda con Gesù Cristo. Mentre posava la sua mano destra sulla spalla di mio figlio, il Calabrese aveva già deciso di ucciderlo.

Signor Vincenzo, ormai è tardi per certi pensieri. Però se solo mi aveste detto come stavano davvero le cose, vi avrei consigliato diversamente. Con voi no, scusatemi, non mi permetterei mai. Ma con Luca, avrei detto a Luca di lasciar perdere l’incontro. Non puoi chiedere la pace, se hai sparato al figlioccio del boss. Dico così per modo di dire.

Ma noi non sapevamo che Calimero fosse il figlioccio del boss. Era un pezzente, un signor nessuno ferito in una lite tra ragazzi. Chi immaginava che si sarebbe messo sotto la protezione diretta dei Compari?

Già, sicuramente Luca non lo sapeva quando gli ha sparato. Però voi avete detto che sapevate che il Calabrese aveva ordinato di ammazzarci tutti.

Solo dopo l’omicidio, Rocco. Solo dopo l’omicidio di Luca, ho saputo che aveva ordinato questo. Altrimenti credi che avrei scelto proprio il Calabrese come paciere? Volavano le pallottole e non capivamo niente.

Quindi le prossime pallottole saranno per noi, signor Vincenzo.

Rocco, saranno per me. Tu devi tenerti fuori. Ma devono fare presto, perché se mi lasciano muovere io li porto tutti sottoterra prima di me. Giuro come è vero dio, giuro sul sangue di mio figlio, ’u figghiu miu intelligente, che me li porto sottoterra, Rocco.

Il vostro compito è anche il mio.

L’omicidio di Luca è stato deciso in alto. Molto in alto. Riunirono il numero uno della ’ndrangheta al Nord, il giro dei mammasantissima, quelli di Lecco, capisci? Arrivarono da Lecco per dare il via libera alla morte di mio figlio. Colpire il Calabrese, significa poi vedersela con loro.

Me la vedrò con loro. Io non ho paura, signor Vincenzo. Prima di venire qui, ero in cella con Pisacane. Sapete chi è, no?

Pisacane, Pisacane, mormora il vecchio. Stai attento a quello.

Indietro, gridano da fuori.

Uno sbirro apre la porta blindata. Ma non il cancello.

Tutto a posto, dice dopo averci contati. E richiude a chiave la blindata.

È già ora del contrappello, sbuffa il papà di Luca. Io vado a dormire.

E sparisce dietro la tenda di cellophane nero che nasconde il cesso. Aspetto il mio turno. Seduto sulla sedia, dove le parole del vecchio mi hanno colpito più volte come fossi io la sagoma del tirassegno. Tocca a me andare al cesso. Lui si corica e spegne la luce. Senza nemmeno aspettarmi. Al buio, attraverso la minuscola cella. E mi arrampico sulla branda superiore. Sono finalmente con il padre di Luca. Con l’uomo che ha dato la vita all’amico, al fratello che ha salvato la mia vita. Forse è per questo che gli occhi restano spalancati a fissare l’oscurità. In realtà vedono Luca. Vedono il Calabrese. Vedono il vecchio padre mentre stringe la mano agli assassini che hanno tradito suo figlio. Adesso è tutto più chiaro. Da questa notte non si torna più indietro.

Passa un’altra sirena. Sono pompieri. Fa freddo. Devo comprare una coperta. E con quali soldi? Qui non mi fanno lavorare. E non ho nessuno a casa che mi mandi il pacco postale. Ma perché ’sto sonno non arriva? Senti il vecchio come se la russa. Minchia, però, Luca. Quante puttanate avete combinato tu e tuo padre? Non me ne potevi parlare prima? La guerra si combatte con le armi. E l’arma più efficace è la sorpresa. Ma tu cosa fai? Tuo padre cosa fa? Fate sapere a Calimero che lo volete toccare. Lo fate sapere anche ai Compari. È vero, eravamo tutti dalla stessa parte. Poi però che succede? Un Compare se la canta con un comparino. Un comparino se la canta con un tirapiedi. Un tirapiedi con un leccaculo. Il leccaculo con gli sbirri. E alla fine tutti sanno che Luca e suo padre vogliono ammazzare Calimero. Minchia, ma che modo è di fare crimine questo? Il crimine richiede intelligenza. Richiede efficacia. Richiede riservatezza. Luca, tu eri un capo. Dovevi informarti prima di agire. Un capo spara. Ammazza. Non si tira indietro. Mica telefona prima. Mica dice guarda che ti devo uccidere. Così quell’altro si prepara. Perché se non è scemo si prepara, eccome. Io e te invece non abbiamo avuto il coraggio di uccidere. Forse, hai ragione, capi non lo siamo mai stati. Forse è tutta colpa mia. Un capo ha i suoi guardaspalle. Ha il suo esercito. Ha la sua intelligence. Sì, gli 007 che spiano tutti e tutto. Tu chi avevi vicino? Alla fine hai detto a tuo padre di chiamare me. Alla fine ti ero rimasto soltanto io. Uno scoppiato che tirava di coca come un aspirapolvere. Un inaffidabile. Questo sono stato per te, Luca. Tu mi hai salvato. Ma quando me ne sono reso conto, ecco che arrivano i Compari a sotterrarti. Ormai lo sanno tutti che sono stati loro. Loro e il Calabrese. Tuo padre, Luca, ha raccolto le conferme. E adesso siamo chiusi qui dentro. Tu non ci sei più. Ghiaccio non c’è più. E per cosa? Per cosa è accaduto tutto questo? Per una guerra sui confini? Per un carico di droga non pagato? Per una scalata ai vertici? No, minchia di una minchia. Tutto questo è successo per un pugno in un occhio a Calimero.

Una mattina, quando ormai è primavera e fa caldo, gli sbirri ci danno il via libera per l’ora d’aria.

Signor Vincenzo, non venite?

No, Rocco, non mi interessa l’ora d’aria. Troppe brutte facce là fuori.

Come volete. Io però vado. Ho bisogno di respirare.

Sei giovane, devi andare, Rocco.

Che profumo. Che forza ha nei polmoni l’ossigeno vero. Ma tu guarda chi c’è in cortile. Coscia c’è. Non salutarmi. Bastardo. Non salutarmi che è meglio. Stammi alla larga. Mi viene da ridere. Lo immagino in ginocchio. Con il fagotto di merda nel cavallo dei pantaloni. La puzza. E lui a mani giunte che prega di non finire nella buca che gli hanno fatto scavare. Calabrese, non uccidermi. Ti prego. Sono un pezzo di merda. Non senti la puzza? Sono io che puzzo. Sono merda. Non farò mai nulla contro di te. Contro la tua organizzazione. Anche se vivo con la sorella di Luca. Mai e poi mai mi permetterei di vendicare Luca. Di vendicare Ghiaccio. Mica sono un criminale io. Sono un cagasotto. I cagasotto puzzano. Mica sparano.

Rocco, che c’è da sorridere?

Minchia, mi sono distratto. Non mi sono accorto e sono finito a distanza di mani di due Compari. Non mi ricordo i loro nomi. Ma so che sono due che lavorano per i Compari. Quello cicciottello con l’orecchino ad anello, la stempiatura e la tuta da ginnastica bianca. E quello magro con i capelli biondi, rasati come un militare, bermuda verdi e maglietta rossa.

I miei rispetti.

I nostri rispetti, Rocco. Allora, che c’è da sorridere?

Sorridevo perché dopo mesi di reclusione senza ora d’aria, l’ossigeno ubriaca.

Quindi sorridevate perché siete ubriaco?

Ubriaco d’aria fresca, sì.

Come ve la passate? Vi trovo in forma, dice quello cicciottello. L’altro resta zitto.

Me la passo abbastanza bene, meglio di così non potrei.

Appunto, Rocco, è di questo che vi dobbiamo parlare.

Ditemi.

Dunque. I due si guardano. Poi quello cicciottello continua: ma voi cosa volete fare al Calabrese?

Noi chi?

Voi, tu, Rocco. Ti do del tu allora, così ci capiamo meglio.

Datemi del tu.

Ma tu cosa vuoi fare al Calabrese?

Io al Calabrese?

Al Calabrese, sì.

Niente voglio fare al Calabrese. Perché?

Dicono che stai studiando un piano per toccarlo, al Calabrese.

Toccare il Calabrese?

Ci siamo capiti, Rocco, per farlo ammazzare.

Ma come? Io come posso voler ammazzare quello, se lui lavora per mio zio? Andrei contro la mia famiglia. Non credete?

Se questo è quello che ci dici, Rocco, ti crediamo. Vedi, però, ti sei messo in cella con quel vecchio. Tutti lo sanno che siete in cella insieme. E tutti sanno cosa è successo ai figli di quel vecchio.

E questo cosa c’entra? È un vecchio. Abitava nel mio quartiere. Sono cresciuto con i suoi figli. Forse gli sbirri del carcere hanno pensato fosse giusto metterci in cella insieme. Il vecchio può aver bisogno di aiuto. Non significa che mi sia messo con lui perché voglio ammazzare qualcuno.

Certo, può aver bisogno di aiuto, ripete quello cicciottello. Va bene, passatevela bene, Rocco. I nostri rispetti.

I miei rispetti.

Se ne vanno verso il gruppo di sgherri seduti lungo il muro all’ombra. E andatevene affanculo anche voi. Credete che io sia un pischello da raccontarvi i miei piani? Ho fatto falsa politica, sì, Luca. Falsa politica. L’importante è sopravvivere. Fino al giorno che sai.

Indietro, gridano un pomeriggio gli sbirri davanti alla cella. Aprono la blindata. Poi il cancello.

È il 17 luglio. Il 17 luglio 1993, dice l’agente al padre di Luca.

Lui sorride. Si alza dalla branda. Comincia a riempire la sua borsa.

Sapevo che era il 17 luglio. Ma voi non vi facevate vedere, replica il vecchio.

Mancavano le carte. Prima le carte, poi la libertà, sorride l’agente.

Signor Vincenzo, ma non mi avevate detto nulla.

Come facevo a dirtelo, Rocco? Tu non sai nemmeno quando finirai. Non si beve davanti a un assetato se non puoi condividere l’acqua.

Ma noi abbiamo interi mari da condividere, signor Vincenzo.

Lui alza lo sguardo per fissarmi. Gli sta per scappare un sorriso. Ma si trattiene. Mi stringe la mano con distacco. Io lo abbraccio forte. Come se abbracciassi Luca. Come se suo figlio fosse risorto adesso, al centro della cella. Tra le brande a castello e la tenda di cellophane del cesso che sventola per la corrente d’aria. Lui non mi abbraccia. Forse per proteggermi. Forse perché tra vecchi siciliani non si usa. Abbracciarsi tra uomini è roba da ricchioni. Ma io l’ho abbracciato come se fosse mio padre. Vorrei dirglielo. Lui esce con il borsone nero a tracolla. In mezzo ai due sbirri. Chiudono a chiave il cancello. Chiudono a chiave la blindata. Spero abbia capito perché l’ho abbracciato.

Solo. Rinchiuso. Nel silenzio di queste mura alte. Le grida si sfogano dalla pancia del carcere. La luce di luglio dura fino a tardi. Fa caldo. L’asciugamano bagnato intorno al collo. Sdraiato in branda senza più nessuno intorno. Sono grida spaventose quando si è soli ad ascoltarle.

Ho perso il conto dei giorni. Ho perso il senso del tempo. Non esco più dal giorno in cui il papà di Luca è stato scarcerato. Che bisogno c’è di contare il tempo? Il mio tempo ha una sola data, Luca. Il mio tempo è il giorno che scaricherò tutti i caricatori che avrò nella carne di chi sai tu. Di chi hai visto negli occhi nel momento in cui i tuoi occhi si sono spalancati per sempre. L’indice tirato sul grilletto. Il rinculo continuo della raffica nelle braccia. L’odore di ammoniaca. Il fumo di polvere da sparo. Le scie rosse dei proiettili. Sì, sparerò al buio. Perché la scena sia più luminosa. Un Ak47. Non ho mai sparato con un kalashnikov Ak47. Il mio occhio destro nel mirino. La faccia terrorizzata di quelli. Il sangue. Il loro corpo che esplode. Come hanno fatto esplodere il tuo, Luca. Non vedo l’ora. È la ragione della mia vita. Sei la ragione della mia vita, Luca. Devo dormire. È ora di dormire. Un altro giorno è passato. Uno in meno tra me e la nostra vendetta.

All’improvviso una botta. Un tonfo forte. Colpisce la finestra alta sotto il soffitto. Fa tremare i vetri. Un tuono. Arriva il temporale. È luglio. Forse è ancora luglio. O è già agosto. È normale che arrivi il temporale. Fa troppo caldo. È giusto che arrivi un temporale. Questi sono i pompieri. Sì, è la sirena dei pompieri. Tante sirene dei pompieri. No, questi sono sbirri. E a tutta velocità. Minchia come corrono. Pompieri. Sbirri. E ambulanze. Anche le ambulanze. Ma che minchia succede? Forse è mezz’ora che corrono le sirene. Il buio stanotte mi fa paura. Non dovrei nemmeno pensarci. Ma stanotte ho paura. Potrebbe entrare uno sbirro pagato dai Compari e farmi la pelle. No, Luca, non ho paura di morire. Un criminale non ha mai paura di morire. Ho paura di morire prima di poterti vendicare, Luca. Se non mi mettono in cella un altro con cui parlare, do fuori di matto. Forse è l’astinenza. Il Valium. Ci vorrebbe una bottiglia di Valium. Guardiaaa. Perché non viene nessuno stanotte? Guardiaaa. Guardiaaaaaa.

Sono crollato sul letto. Sulla branda di sotto. Quella del papà di Luca. La più fresca. Apparentemente più fresca. Ci saranno più di trenta gradi in cella. La notte non si raffredda qui dentro. Sono crollato. E adesso mi sono risvegliato con i brividi. È già chiaro fuori. Ma quanto ho dormito? Qualche travesta del nostro raggio ha la radio a tutto volume. Ogni raggio ha il suo rompicoglioni. La voce della radio arriva forte fin qui. Un’autobomba? Cosa minchia è successo?

Ecco la sequenza delle esplosioni a Milano e Roma, dicono alla radio. Ieri sera, ore 23.15, a Milano. È lo stesso boato, nella centralissima via Palestro, a dare l’allarme. Alle 23.35 l’agenzia Ansa batte la prima notizia sulla base delle primissime informazioni. Un’autovettura esplosa all’altezza dell’ingresso della Villa Reale. Testimoni oculari riferiscono di diverse persone riverse a terra. I morti sono cinque: i vigili del fuoco Carlo La Catena, venticinque anni, Sergio Pasotto, trentaquattro anni, e Stefano Picerno, trentasei anni, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari, ventinove anni, e un immigrato marocchino che dormiva su una panchina nel parco di via Palestro, Driss Moussafir, quarantaquattro anni. Altre sette persone sono rimaste ferite. Il Padiglione d’arte contemporanea ospitato nella Villa Reale è in parte crollato. E, come ci confermano i nostri inviati da Milano, le fiamme si levano ancora alte poiché l’attentato ha coinvolto le tubazioni del gas.

Il botto di ieri sera. Credevo fosse il temporale. Un attentato. Roba da vigliacchi. Non si uccide nessuno senza un motivo. Senza prima guardarlo negli occhi.

Alle 24.04 un’altra autobomba esplode a Roma davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano, continua la radio. Le prime notizie parlano di diversi feriti. Ma non ci sono vittime. Alle 24.08 un secondo boato si sente in diversi quartieri romani. L’esplosione è a San Giorgio al Velabro e il ritrovamento di un pezzo di motore conferma che si tratta di una terza autobomba. La notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 entra dunque nella storia insanguinata della nostra Repubblica. La mattina dopo gli attentati è forte e puntuale la presa di posizione di Oscar Luigi Scalfaro. Le bombe non fermeranno il rinnovamento, ha detto il presidente della Repubblica, non si ferma il cammino del governo e del Parlamento, nessuno si illuda. Nessuno può pensare di creare vuoti di potere o di mettere in ginocchio le istituzioni. Il rinnovamento è fortemente voluto dal popolo italiano. Questo Paese non teme l’uscita di nomi di qualsiasi levatura: il ristabilimento della legalità non si ferma. Il presidente Scalfaro è rimasto per tutta la notte in continuo contatto con il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, e con il ministro dell’Interno, Nicola Mancino… Fanculo la radio. Ho bisogno di Valium. Devono portarmi in infermeria. Subito.

Guardia. Guardiaaa.