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Sull’autobus con il ministro

Ultimo ufficio a destra. In fondo al lungo corridoio senza finestre, la porta è chiusa. Da queste stanze c’è chi non esce da trentatré ore. Da quando il tuono dell’autobomba ha richiamato in questura tutta la polizia. Un giorno e una notte dopo la strage in via Palestro, Milano non è una città smarrita. Almeno, al di là della retorica dei telegiornali, non tutti lo sono. È una strage annunciata. Da mesi i servizi segreti diffondono allarmi sulle minacce della mafia. Lo scorso inverno all’aeroporto di Linate hanno addirittura istituito un controllo straordinario per tutti i voli in arrivo dalla Sicilia. Una barriera discreta. Centinaia di passeggeri in fila davanti ai poliziotti in divisa. Passaporto o carta d’identità in mano. Documenti, prego. Come se la Sicilia fosse uno Stato straniero, non una regione italiana. Grazie, può andare.

Dall’ultimo ufficio a destra esce un ispettore. La luce dei tubi al neon appesi al soffitto sbianca il suo viso sfatto dalla stanchezza.

Buongiorno, il dottore è in ufficio?

Sì, provi a bussare, dice e si allontana nel corridoio.

Avanti, risponde il dottore dietro la porta chiusa.

Ciao, come va?

Puoi immaginarlo, dice lui. È seduto alla scrivania. Le sue spalle scortate da una parete piena di encomi e fotografie di agenti in borghese in mezzo a carichi di armi e droga appena sequestrati.

Ho saputo che ti hanno affidato una parte delle indagini.

Sì, conferma lui laconico.

La parte sull’innesco e sul detonatore?

Vedo che ti hanno già spifferato tutto, aggiunge piuttosto infastidito.

Non sono qui per bruciare il tuo lavoro. Mi chiedo solo come mai la versione ufficiale abbia subito detto che sia stata la mafia. Quali indizi ci sono per dire che sia stata Cosa nostra?

Ma quale Cosa nostra? Questa roba puzza di Casa nostra.

Cosa intendi dire?

Mi hai capito benissimo. Però io adesso devo chiederti di uscire dal mio ufficio. Se qualcuno ci vedesse insieme, mi metteresti in imbarazzo con i miei superiori. Non posso parlare con nessuno. Mi capisci? Almeno fino a quando questa storia non sarà finita.

Ti capisco, scusami. Ci rivediamo quando questa storia sarà finita.

Lui riabbassa la testa sulle sue carte. Richiudo la porta. È stata Casa nostra. Un suggerimento. Una frase buttata lì. Un messaggio in bottiglia lanciato affinché qualcuno lo raccolga. Oppure lo sfogo sfuggito alla sua bocca. L’impressione libera e onesta di un funzionario di polizia poco più che ragazzo. Un bravo investigatore, senza consuetudini né cordate da servire. Il tono di disappunto nella sua voce. La rabbia. Perché in nome della stessa bandiera e della stessa Costituzione qualcuno da due anni sta liquidando la Prima Repubblica a colpi di pistola. E cariche di esplosivo. Sostenere che gli attentati destabilizzino un Paese è una menzogna inventata per il pubblico dei telegiornali. Le stragi stabilizzano. Eccome, stabilizzano. E il giovane dottore dopo appena trentatré ore, meno del numero dei suoi anni, ha già respirato la pista da seguire. Casa nostra. Ci rivedremo quando questa storia sarà finita.

Ma sarà mai finita?

Dieci giorni dopo la notte delle bombe, la sera tardi un uomo esce dal portone principale della questura. La camicia azzurra. Il nodo della cravatta allentato. Un elegante completo grigio sciupato dalle ore di lavoro. In fondo alla via, sulla facciata del Palazzo dei giornali, il 6 agosto continua a lampeggiare al centro del calendario digitale con l’ora e la temperatura. Fa caldo. L’uomo ha il grado di vicequestore. Un buon contatto nella squadra che sta indagando sull’attentato a Milano. Cammina fino al primo semaforo. Gira a destra nella via alberata e buia. È il luogo dell’appuntamento. Via dei Giardini.

Sono dietro di te.

Lui si volta di scatto. Sorride un po’ impacciato, per essere stato sorpreso alle spalle.

Dove andiamo?

Hai la macchina?

Sì, qui vicino.

Allora andiamo via di qua, dice il vicequestore. Nessuno ci deve vedere insieme.

Si gira un po’ a caso nelle strade vuote. La metropoli spolpata dalle vacanze. Anche se è venerdì. Il traffico il venerdì sera è una fila di fanali rossi e di piedi costantemente appoggiati sul pedale del freno. Stasera no. Semaforo verde e via. Si trova perfino da parcheggiare davanti alle cinque porte e le cinque finestre della stazione di Porta Genova. Una piccola stazione di paese in mezzo alla città. E pochi passi in silenzio. Il Naviglio Pavese esce lento dalla Darsena in questo scorcio di riflessi e vecchi lampioni. L’unica immagine in cui Milano si riconcilia con l’acqua. Anche la pizzeria, una delle prime affacciate sull’alzaia, a quest’ora è deserta. Prendiamo un trancio che trasuda mozzarella. E una birra media. Finiamo a sederci in un angolo. Dentro. Anche se fuori fa meno caldo. Lui con le spalle rigorosamente rivolte al muro.

Scusami se ci mettiamo qui, ma se mi vedono fuori insieme con te passo dei guai, avverte il vicequestore.

Sopporteremo anche il caldo della pizzeria.

Un’estate calda, sì.

Lui calma la fame tagliando grossi pezzi di pizza. Divora il trancio in meno di cinque minuti. Butta giù un sorso di birra ghiacciata che subito gli riempie la fronte di goccioline. Adesso è abbastanza rilassato perché possa interrogarlo. Ma la prima domanda è sua.

Da voi come va?

Avrai letto quello che si pubblica.

Non leggo un giornale dalla notte del 27 luglio.

Immagino.

Stai scrivendo tu sull’inchiesta?

No, sai come funziona in un grande quotidiano. Prima ci sono i grandi inviati. Sui grossi fatti, non c’è molto spazio.

Lui mi guarda e sorride. I muscoli gonfi da palestra sotto le maniche della camicia azzurra. I capelli folti. Le basette ordinate. La faccia simpatica. Non te lo immagini un poliziotto. Piuttosto uno dei tanti manager di banca che affollano i bar del centro all’ora di pranzo.

Sorseggia ancora un po’ di birra. E domanda a bruciapelo: se non devi scrivere, perché mi hai chiesto di incontrarti?

Ti ho cercato perché ti conosco. Perché su questi attentati si gioca il nostro futuro. Perché anche se non mi fanno scrivere sul caso, sto comunque indagando per conto mio.

Allora chiedimi.

Dimmi tu.

Lui sorride. Lo sai che non funziona così, dice. Non ti posso raccontare a che punto siamo con le indagini. Se solo ci vedessero insieme, mi toglierebbero dalla squadra.

Allora ti dico io. Tu ci credi all’ipotesi del ministro dell’Interno?

Quale ipotesi?

Ti leggo il ritaglio di giornale che ho in tasca. È del 30 luglio, richiamo in prima pagina. Il ministro dell’Interno afferma che gli attentati di martedì notte potrebbero venire da oltre frontiera. Una rappresaglia dei narcotrafficanti contro le iniziative antidroga del governo italiano che hanno portato alla cattura di molti boss. Il ministro lo dice proprio il giorno dei funerali dei cinque morti di Milano.

E tu, domanda lui, cosa ne pensi?

Mi sta studiando. Sicuramente vuole capire se può ancora fidarsi. Come si è già fidato molte volte in passato. Oppure se il mio è un tranello. Questa non è una normale indagine per omicidio o per rapina, su cui ci si può lasciare andare con le ultime novità dell’inchiesta. Il nostro incontro è a un bivio. Se sbaglio risposta, lui si chiude. E addio contatto con il cuore dell’indagine. Mi guarda dritto negli occhi mentre gira il cucchiaino nella tazzina di caffè che gli hanno appena portato.

Cosa ne penso io? Posso parlare liberamente con te, no?

Certo, risponde lui.

Pur premettendo che questa è un’indagine difficile e che tutti possono sbagliare ipotesi. Ministro compreso.

Che sia un’indagine difficile lo diamo per scontato, aggiunge lui.

Penso che quella del ministro dell’Interno sia la boiata di chi non sa cosa dire. Oppure non vuole dire cosa sa.

Perché?

Come perché? Perché secondo te con tutto quello che sta succedendo dall’anno scorso, le stragi di Palermo, gli arresti di Mani pulite, la cattura di Totò Riina, gli attentati a Roma e Firenze, gli equilibri di potere che cambiano, secondo te la notte delle bombe l’ha organizzata una banda di trafficanti di eroina? Se mi dici di sì, allora cambiamo argomento e domani andiamocene tutti in vacanza. Invece ti faccio una domanda precisa. Perché qualcuno di voi pensa che le bombe non siano roba di Cosa nostra, ma di Casa nostra?

Lui butta giù il caffè. Si rilassa sullo schienale della sedia. Non mi stai registrando di nascosto, vero?

Ma per chi mi hai preso? Se pensi questo, ti lascio andare subito a dormire che siamo stanchi tutti e due.

Io sto rischiando il mio posto per incontrare te. È giusto che ti chieda questo.

Allora se lo sospetti, perquisiscimi. Sei un poliziotto.

Lui ride. Poi si incuriosisce: chi dice che sia stata Casa nostra?

Come tu hai i tuoi segreti, anch’io ho i miei. Ovviamente Casa nostra non è una sigla depositata con marchio registrato. È un modo di dire per capirci.

Sì, per capirci, chiaro, commenta lui.

Si sta sicuramente chiedendo chi sia il mio contatto. Forse è un’espressione che hanno usato loro nelle riunioni in questura. Nella squadra ristretta che sta indagando. Per questo non ha lasciato cadere l’argomento. Ora però non aggiunge nient’altro.

Scusami, ma ho ancora una domanda. Il 28 luglio, cioè la mattina dopo l’attentato, il prefetto di Milano dice esattamente questa frase. Te la riporto così come è stata scritta sui giornali l’indomani. Il prefetto dice che a Milano l’attentato non doveva fare vittime, doveva soltanto essere dimostrativo, come quelli di Roma. La domanda è questa: come fa il prefetto a sapere, soltanto dodici ore dopo l’attentato, che l’autobomba che ha ucciso cinque persone in realtà non doveva fare vittime? Chi gliel’ha detto, secondo te?

Al vicequestore scappa un sorriso. Non proprio un sorriso. Sarebbe meglio parlare di una smorfia.

Ascoltami, dice lui all’improvviso, non ti posso rivelare i nomi di chi abbia parcheggiato la Uno grigia in via Palestro.

Intendi l’autobomba?

Sì, l’autobomba. Anche perché i nomi ancora non li conosciamo. Ma qualcosa, più di qualcosa, sappiamo sul contesto. Quello che sto per dirti, serve a te. Tienitelo per te, per tua informazione. Così potrai capire da solo in quale direzione andranno le indagini. Ovviamente tutto questo è aggiornato a oggi. Che giorno è oggi?

Sei davvero messo male. È venerdì. Venerdì 6 agosto 1993.

Già, sono messo male… Queste cose che ti dico le conosciamo in base alla testimonianza di due pentiti, rivela il vicequestore. Non mi chiedere chi sono, perché nemmeno io li conosco. Allora… Il 17 febbraio 1992 con l’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano comincia l’inchiesta Mani pulite.

Mario Chiesa, il presidente socialista dell’ospizio comunale? Ma cosa c’entra il suo arresto con l’autobomba?

Niente c’entra. Bisogna però cominciare dal contesto in cui tutto questo avviene. Dalle indagini sui partiti coinvolti in Tangentopoli. Dalla rottura degli equilibri segreti che hanno retto la Prima Repubblica durante tutta la Guerra fredda. I due pentiti raccontano che un mese dopo l’arresto di Mario Chiesa, nel marzo 1992 a Palermo ambienti mafiosi e agenti segreti in contatto con i servizi militari decidono di avviare anche lì il cambiamento. Lo fanno con l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano che in Sicilia rappresenta la corrente di Giulio Andreotti. Ricordati che quando uccidono Lima, Andreotti è il presidente del Consiglio, cioè il capo del governo.

Quindi, secondo te, con l’ondata di arresti da Mario Chiesa in poi si taglia a Milano il legame tra imprenditori e politica. E con l’omicidio di Salvo Lima a Palermo si rompe la pace tra mafia e politica. È questo che vuoi dire?

Meglio spiegarla così. A Milano si taglia il legame tra il sistema di corruzione negli appalti e il Partito socialista di Bettino Craxi. A Palermo si colpisce l’equilibrio tra il sistema mafioso degli appalti e la corrente della Democrazia cristiana di Giulio Andreotti. Con Craxi e Andreotti cadono i due veri registi della politica italiana. Il resto conta poco. Ma non devi mai perdere di vista gli appalti pubblici. Quello che preoccupa i mafiosi è che per la mafia oggi non sia più garantito il controllo sugli appalti, cioè sulla spesa pubblica. Quindi sui soldi dello Stato. Ti dico degli appalti, perché sono il nocciolo della questione. Ciò che spaventa la mafia non è solo la conferma in Cassazione delle sentenze del maxiprocesso di Palermo, come si legge sui giornali. È vero che Lima sarebbe stato ucciso come vendetta alla decisione della Corte di cassazione, che il 30 gennaio ’92 ha mandato il vertice di Cosa nostra all’ergastolo. Ma la preoccupazione per i boss ora è soprattutto il rischio che con il carcere a vita perdano il controllo sui soldi pubblici. Non pensare soltanto al guadagno con il trucco dei costi gonfiati. Gli appalti danno posti di lavoro. Ed elargire posti di lavoro restituisce consenso popolare alla mafia. E voti alla politica.

Non ho capito. L’omicidio di Salvo Lima sarebbe dunque un’azione criminale contro la mafia e a favore dello Stato? Un piano dei servizi segreti per fare pulizia? È un controsenso.

Lui sorride ancora. Non lo sappiamo, risponde. Potrebbe essere invece un’azione della mafia per archiviare il rapporto con la Democrazia cristiana. E accelerare la sua sostituzione con nuove forze politiche. Lo capiremo da chi e da cosa riempiranno il vuoto che la Dc e il Psi stanno lasciando. La Dc sicuramente è stata punita per non aver saputo, o voluto, pilotare la Cassazione sul maxiprocesso di Palermo. Ma in questa storia i servizi segreti hanno tante facce. Te ne renderai conto anche tu, dal resto che sto per raccontarti.

Il vicequestore insiste ancora sul fatto che la mafia abbia come principale interesse proprio l’affare degli appalti pubblici. Il traffico di droga è un commercio gestito sì dalla mafia, dice, ma a suo rischio e pericolo. Una specializzazione che rispetto agli appalti è comunque secondaria.

Eliminare Lima, aggiunge, significa colpire il potere locale della Democrazia cristiana che dal patto con la mafia otteneva voti in Sicilia. E in cambio garantiva stabilità all’accordo tra mafia e politica. In questo patto, in questo accordo, c’era anche la rinuncia alla caccia ai latitanti che contano.

In che senso?

Nel senso di quello che ho appena detto: rinunciare alla caccia ai capimafia latitanti. Secondo te è possibile che la polizia, i carabinieri, la guardia di finanza, i servizi segreti, cioè lo Stato, vengano fatti fessi per decenni e non riescano a trovare una persona che ha nome, cognome, un volto, una famiglia? Cioè tutti noi messi insieme, un apparato di polizia tra i più costosi in Europa, non siamo in grado di rintracciare un criminale italiano che vive tranquillamente in Italia?

Ciò che è evidente è che i ministri dell’Interno, dal 1946 a oggi, siano sempre stati democristiani. Nei decenni la Dc ha ceduto ad altri partiti la presidenza del Consiglio, il ministero della Difesa, quello della Giustizia. Ma mai, proprio mai, il ministero dell’Interno. Quindi, secondo te, tutti i ministri dell’Interno hanno garantito questo patto?

No, non penso a questo. Alcuni si sono anche distinti contro la mafia, ammette il vicequestore. Però non devi cercare troppo in alto. Guarda al mio livello. In una struttura complessa e di potere si creano delle consuetudini. Delle correnti, delle cordate. Sono regole tacite. Una sorta di quieto vivere. Se lavori in certi luoghi e non accetti le consuetudini, la mafia ti uccide. Molti miei colleghi non le hanno accettate. Sono stati uccisi. Ti faccio un esempio sulla rinuncia alla caccia ai latitanti. Nelle questure per anni non sono mai state esposte pubblicamente le foto segnaletiche dei boss da rintracciare. Tu le hai mai viste? A parte quelle di qualche rapinatore o di qualche terrorista.

Francamente no.

Ucciso Salvo Lima, indebolita la Dc alle elezioni politiche del 5 aprile 1992, la mafia ha cercato un nuovo contatto con il mondo politico. Ma non l’ha trovato, spiega il vicequestore. Anche perché con quello che sta accadendo, la politica ha paura a esporsi. Il mondo politico è ormai condizionato dall’opinione pubblica, mobilitata dagli arresti di Mani pulite contro la corruzione. A questo punto vengono decisi gli attentati. Prima Capaci, con la strage che ha ucciso Giovanni Falcone e la sua scorta. Poi via D’Amelio con Paolo Borsellino e la sua scorta. Di risposta il ministero dell’Interno scatena la caccia ai latitanti. L’arresto di Totò Riina nel gennaio di quest’anno dà il colpo di grazia all’assetto della mafia. E una volta persa la protezione politica, la mafia non ha più null’altro da perdere. Così veniamo a quanto sta succedendo oggi.

Si accende una sigaretta.

Quest’anno a gennaio, rivela, in una riunione segreta viene decisa la strategia del terrore. Da attuare in tre fasi. Attentati senza vittime. Attentati a obiettivi militari e diplomatici, contro italiani all’estero e americani in Italia per internazionalizzare la questione. E come terza fase, stragi e attacchi a impianti e dighe. Il terrore ovunque, un po’ come sta accadendo con la guerra scatenata dai narcos in Colombia. La colombizzazione.

Che tipo di impianti?

Nel rapporto che ci è stato trasmesso non è meglio specificato. Potrebbero essere stazioni, stadi, impianti industriali. Nel frattempo, ascolta bene questo passaggio che è il più importante, il governo deve decidere: se trattare con la mafia oppure no.

Come trattare?

Trattare. Scendere a patti. Per fermare gli attentati. Un’ipotesi di soluzione che si sta studiando è la promessa che tra tre, quattro anni vengano rilasciati i collaboratori di giustizia, cioè i pentiti, e chi ha già trascorso un certo periodo in carcere.

Nel momento in cui stiamo vincendo la guerra alla mafia, lo Stato dovrebbe trattare? Trattare con la mafia significa arrendersi alla mafia.

Il vicequestore mi guarda senza rispondere.

Scusami, ma così usano la legge sui pentiti al contrario. Se si promette a priori, senza alcuna valutazione delle dichiarazioni rese, che un collaboratore di giustizia è automaticamente libero dopo tre, quattro anni, tutti i mafiosi diventeranno collaboratori di giustizia. E automaticamente saranno liberi.

È possibile, replica lui.

Rendi una collaborazione di comodo e dopo quattro anni sei libero per sempre.

A meno che non vieni scoperto a commettere altri reati, precisa il vicequestore.

Significa annacquare uno strumento straordinario per colpire la mafia dal di dentro. Magari Totò Riina non si pentirà. Ma i suoi colonnelli potrebbero farlo con dichiarazioni strumentali su fatti vecchi. Per tornare liberi e continuare a essere mafiosi. Piegati giunco che passa la piena.

Ti ho detto che è un’ipotesi. Chi vivrà vedrà.

Posso chiederti di non parlare così sottovoce? Faccio fatica a sentirti.

Lui muove il suo sguardo nella sala deserta. Si avvicina e appoggia i gomiti sul tavolo.

Veniamo agli attentati di quest’anno. La loro esecuzione, aggiunge il vicequestore, sarebbe stata affidata a gruppi esterni alla mafia per aumentare il senso di confusione. Sappiamo che a Milano sono stati contattati gruppi croati ai quali la mafia fornisce sostegno finanziario per la guerra civile nella ex Iugoslavia, armi e droga. I rapporti vengono gestiti da un certo Enea, un mafioso che da anni ha la sua base a Milano. Un ambasciatore al Nord. In un primo tempo, erano stati decisi obiettivi casuali, che comunque avessero un significato simbolico. Come nell’attentato in via Fauro a Roma contro il giornalista Maurizio Costanzo. Soltanto dopo la strage di Firenze, sull’onda dell’allarme scatenato dai giornali per i monumenti, è stato deciso di prendere di mira questo tipo di obiettivi. Mi segui?

Sì.

A Milano la bomba sarebbe dovuta scoppiare pochi giorni, al massimo qualche settimana dopo l’attentato di Firenze. L’esplosivo dovevano metterlo su una Fiat Ritmo 60. Un uomo fino a quel momento sconosciuto era stato incaricato di contattare un certo Carletto, un boss di piazzale Selinunte.

Piazzale Selinunte a Milano?

A Milano, dalle parti dello stadio di San Siro. Carletto si sarebbe dovuto rivolgere ad alcuni slavi con cui era in contatto, probabilmente criminali comuni serbi o croati, perché rubassero l’auto e procurassero l’esplosivo. Con la guerra civile in corso, in Iugoslavia non è difficile trovare esplosivo, no?

Certo.

C’è però una fuga di notizie. Una ragazza va a letto con il figlio di Carletto. E quello, per farsi bello, le racconta una parte della storia. Non pensiamo che a quel livello sapessero dell’attentato. Nemmeno il boss di piazzale Selinunte, secondo noi, sapeva dove e come avrebbero usato la Ritmo che doveva procurare. Ma di questi tempi, parlare di auto e di esplosivo, fa subito immaginare certi scenari. Così la ragazza…

Quella andata a letto con il figlio di Carletto?

Sì, lei. La ragazza, spaventata, si rivolge alla polizia. Vengono arrestate due persone. Una l’abbiamo presa con assegni rubati. L’altra per furto d’auto. Ma non mi chiedere chi sono, perché questo non te lo posso dire. E perché oggi non siamo più sicuri che c’entrino con l’attentato. Il nostro è un tentativo disperato di sventare il piano. In quei giorni si teme che l’autobomba vogliano farla esplodere al Palatrussardi, in occasione del concerto di Bob Dylan. Perché noi sappiamo che i due avrebbero dovuto piazzare l’autobomba al Palatrussardi in occasione del concerto.

Bob Dylan ha suonato a Milano a fine giugno.

Il 27 giugno, per la precisione, dice lui. Domenica 27 giugno. Per tutti noi è una brutta domenica di tensione. Ma non succede nulla. Soltanto qualche giorno dopo veniamo a sapere che al concerto non doveva esserci nessun attentato. Capiamo che parlavano del Palatrussardi perché volevano approfittare del concerto per rubare l’auto dal parcheggio. Solo per questo. E adesso c’è la parte che scotta di più, avverte.

Ti ascolto.

Il servizio segreto militare è stato incaricato di allacciare le trattative con la mafia…

Il vicequestore si ferma qualche istante, come se non sapesse se continuare o no. Mi guarda negli occhi.

In realtà, continua, alcuni agenti segreti in contatto con i mafiosi stanno facendo il doppio gioco.

In che senso, stanno facendo il doppio gioco?

Nel senso che non fermano gli attentati. Perché questo può accelerare gli interessi dei militari o di qualcuno che ancora non conosciamo, spiega. E usa proprio il verbo accelerare.

Magari in funzione di un nuovo assetto tra politica e mafia.

Magari è così, replica lui, ma ancora non lo conosciamo questo nuovo assetto. Un ufficiale del servizio segreto sarebbe stato sul luogo della strage di Capaci e in via D’Amelio a Palermo. Poi in via Fauro a Roma. E non mi meraviglierei se trovassimo le sue tracce anche a Firenze e a Milano. La scoperta è stata fatta con una verifica incrociata tra le telefonate dei cellulari che hanno agganciato le antenne nella zona all’ora degli attentati. Uno era il telefono dell’ufficiale. L’altro di un boss mafioso. Lo Sco, il Servizio centrale operativo della polizia, sta per presentare alla Procura di Roma un rapporto contro questo ufficiale.

A quale servizio segreto appartiene?

Ai militari credo, per quanto ne sappia. Ma a quei livelli, servizio militare o servizio civile non fa nessuna differenza.

Ci ha pensato troppo prima di rispondere. Ha puntato altrove i suoi occhi. Segno che ha censurato quello che stava per dire. Allora è più probabile che l’ufficiale lavori per il servizio segreto civile. O addirittura per la polizia, il suo stesso corpo di appartenenza. Forse il vicequestore mi sta dando apposta qualche dettaglio sbagliato. Vuole proteggersi.

Deduco che i militari, cioè i carabinieri o una parte di loro, stiano conducendo la trattativa con la mafia. E i civili, cioè la polizia, siano contrari.

Lui torna a fissarmi negli occhi. E risponde con una impercettibile alzata di spalle. Forse, dice, è una deduzione un po’ troppo semplicistica. Comunque sono agenti militari a cercare la trattativa. Quindi mettici anche i carabinieri. O meglio, qualche loro reparto. Non certo tutti i carabinieri d’Italia. E siamo alla strage a Milano. In via Palestro l’autobomba è stata portata sul posto già carica di esplosivo. Probabilmente da via Marina, la strada perpendicolare. Tra i testimoni che abbiamo rintracciato, c’è un ragazzo controllato un po’ prima in auto con una ragazza. Avevano dell’hashish. Lui dice che alle 22 e 30 ha notato la donna bionda dell’identikit pubblicato sui giornali.

Quella che secondo i vigili ha segnalato il fumo che usciva dalla Uno?

Sì, proprio lei. La stessa descritta dai vigili che l’hanno vista fuggire a piedi con un uomo. Ma il testimone, il ragazzo, ci dice anche che alle 22 e 30 in via Palestro non c’era nessuna Uno grigia parcheggiata. L’avrebbero portata dopo. L’amica che era con lui però sostiene di non aver visto nessuna donna bionda

È normale che ci siano testimonianze contraddittorie.

Sì, è normale, ammette il vicequestore.

Ma esiste davvero questa donna bionda?

No, risponde lui a sorpresa. Ai giornali è stata data un’indicazione falsa. La donna vista dai vigili ha i capelli più scuri. La loro testimonianza è attendibile e sufficiente. Per questo abbiamo camuffato l’identikit. Riceviamo centinaia di telefonate inutili di persone convinte di aver notato la donna bionda. Ma se qualcuno ci chiama e ci dice che la donna che ha visto non era bionda, allora sappiamo che quell’indicazione è buona.

Io so che i vigili testimoni in realtà sono una sola persona, la vigilessa sopravvissuta. Il suo collega è morto. O c’erano altri vigili sul posto?

No, conferma il vicequestore. A parte i pompieri, c’era soltanto lei. Come vigili, intendo. Perché poi c’era altra gente che passava di lì. Molti sono rimasti feriti. Una notte di luglio vicino al parco di via Palestro, puoi immaginare quante persone fossero in giro a quell’ora a prendere fresco.

E Carletto di piazzale Selinunte in tutta questa storia cosa c’entra?

Carletto esce dalla storia dell’attentato. Perché alla vecchia Ritmo si preferisce la Uno grigia. E anche perché la Uno imbottita di esplosivo viene rubata alla Bovisa che è dalla parte opposta della città rispetto a piazzale Selinunte, o almeno è lì che abita il proprietario.

Quando viene rubata?

Non lo sappiamo ancora con precisione. In questo periodo la gente è in vacanza e magari non si accorge nemmeno che gli hanno rubato l’auto sotto casa. Ma non ce ne stiamo occupando noi.

Non è detto che il ladro l’auto la debba rubare nel quartiere sotto casa.

No, non è detto. Però su Carletto si sta muovendo un altro capitolo molto delicato delle indagini. E di mezzo ci sono sempre i servizi. Scopriamo, aggiunge il vicequestore e si ferma per bere l’ultimo sorso di birra rimasto nella sua caraffa. Scopriamo che l’uomo che avvicina Carletto nelle scorse settimane, prima dell’attentato, chiedendogli di rubare un’auto al concerto di Bob Dylan, è in realtà un uomo del servizio segreto civile. Un nostro informatore lo ha visto arrivare su un’auto scura. È lo stesso informatore che, sentendo parlare del concerto, pensa a un attentato proprio lì. Dalla targa dell’auto scura siamo risaliti ai servizi.

L’informatore è sempre la ragazza che era andata a letto con il figlio di Carletto?

Questo non me lo chiedere, dai. Non te lo posso dire. Ti dico però che dagli stessi ambienti veniamo a sapere che l’autobomba doveva esplodere nel centro di Milano. Poi, forse per un imprevisto, l’uomo e la donna visti fuggire a piedi dai vigili urbani…

Ma chi sono quei due, secondo te?

Gli autori dell’attentato, risponde gelido il vicequestore. Per qualche imprevisto che non conosciamo, quell’uomo e quella donna, che bionda non è, hanno dovuto lasciare la Uno carica di esplosivo in via Palestro. Sono loro che dobbiamo prendere.

Quando dici che l’attentato doveva avvenire nel centro di Milano, ti riferisci al Palazzo Reale in piazza del Duomo invece della Villa Reale? In fondo a via Palestro, nella stessa direzione in cui stava andando la Uno, c’è anche il Palazzo dei giornali.

Lui ci pensa un po’ su. Risponde con un accenno di sorriso. Penso anche all’ufficio di copertura del Sisde, il servizio segreto civile, che guarda caso era proprio da quelle parti.

Il servizio segreto? E perché mai avrebbero dovuto mettere un’autobomba davanti al servizio civile?

È quello che vorremmo sapere. Forse non tutti la pensavano o la pensano allo stesso modo nella trattativa con la mafia, suggerisce lui. Capisci anche tu che la Villa Reale di via Palestro, la sede del Comune dove si celebrano i matrimoni, non è poi questo grande simbolo artistico monumentale, tra i tanti altri che avrebbero potuto scegliere.

Hai ragione. Non lo è.

E poi mi devono spiegare perché, dopo l’attentato in via Palestro, l’ufficio di copertura del Sisde a Milano è stato chiuso e trasferito in fretta e furia. Così come sono stati trasferiti i suoi vertici. Prendi nota. Questo è il loro vecchio numero: 026880206, dice ripetendolo a memoria. Vedi a chi è collegato adesso.

Dopo l’attentato, significa in questi giorni?

Sì.

Tu come te lo spieghi?

Vorrei spiegarmelo con le prove. Non con congetture da fantascienza. L’idea che mi sono fatto è… Ma lascia perdere, dice e interrompe la frase.

L’idea che ti sei fatto?

Lui fissa la tazzina del caffè e la caraffa, vuote davanti ai suoi occhi.

L’idea, non solo mia, è che stiamo parlando di due attentati. O meglio, di un attentato in due tempi. L’avevano organizzato per il 27 giugno o addirittura subito dopo Firenze. Ed è l’operazione che coinvolgeva Carletto e gli slavi. Poi per qualche motivo che ancora non conosciamo, hanno dovuto sospenderlo e rinviarlo di un mese.

Se è andata davvero così… con le segnalazioni e le voci che avevate raccolto, c’era tutto il tempo per sventarlo, l’attentato. E per salvare la vita a quei cinque poveretti.

Il vicequestore non risponde. Forse l’osservazione l’ha urtato. Ci guardiamo per qualche secondo in silenzio.

Dove trovo documenti?

Lui sembra stupito. In che senso, chiede, documenti?

Documenti scritti per provare quello che mi hai detto.

Sono documenti interni al ministero che non arrivano nemmeno alle Procure.

Tu non puoi darmi qualcosa?

No, risponde. È una risposta secca. Si guarda intorno. Stanno mettendo le sedie sui tavoli. Ci stanno buttando fuori, andiamo a dormire, dice e si alza.

Fuori non si parla più di lavoro. Tanto meno in macchina. Il vicequestore si fa portare a un isolato dalla questura.

Lasciami qui, la sua mano destra indica il marciapiede. Apre la portiera e scende con un rapido saluto. Buonanotte.

Se ne va verso via Montebello, l’entrata secondaria al quartier generale della polizia in città. Giacca buttata sulla spalla come uno straccio. Lo sguardo dritto davanti ai suoi passi. Un uomo solo illuminato dalla luce pallida dei lampioni. Solo. Come chi, indossando la stessa divisa e giurando sulla stessa bandiera, ha scoperto che il nemico non è soltanto Cosa nostra. Il nemico è soprattutto Casa nostra.

La notte finisce davanti al computer in redazione. Il colloquio va trascritto punto per punto. Una storia agghiacciante. La nascita della Seconda Repubblica italiana è un compromesso. Una trattativa su cui costruiranno il nostro futuro. Stanotte, la notte tra il 6 e il 7 agosto, un vicequestore in carriera, un giovane funzionario e sicuramente altri loro colleghi hanno già intuito cosa si muova dietro le bombe e gli omicidi di questi due anni. E non è detto che sia finita. Bisogna far uscire la storia. È quasi chiaro nelle grandi finestre che circondano la stanza. Le facciate grigie dei palazzi di fronte prendono lentamente forma. Da qualche parte, il sole sta sorgendo. Dentro, le luci al neon sono tutte accese sulle poltrone deserte. Il ragazzo egiziano che guida la squadra delle pulizie anticipa il nuovo giorno con i suoi passi negli scarponi pesanti. Spinge il carrello e lo riempie con i giornali di ieri abbandonati sulle scrivanie. Nel giro di una notte i titoli sulle indagini e la strage sono carta da spedire al macero. Restano al massimo due ore di sonno. Buonanotte. Buongiorno, risponde il ragazzo egiziano.

Il capo arriva al suo posto nella tarda mattinata. Non è il capo vero. È un suo sostituto. Il terzo o quarto vice. Risponde a tutte le telefonate. Dice che non ha molto tempo. Tra uno squillo e l’altro, ascolta la storia.

Aspetta, interrompe lui alla fine, anche se non è ancora la fine del racconto. Se non abbiamo un pezzo di carta, come facciamo a scrivere?

Bisogna cercarli i pezzi di carta. Questa è la traccia. Per indagare serve tempo. Bisognerà andare a Roma. È lì lo snodo.

Lui ci pensa. Senti, dice, ne riparliamo dopo la riunione.

Ha ragione il capo. Senza pezzi di carta non si può scrivere. E anche cercando documenti e testimonianze, non significa che si riesca a dimostrare l’esistenza di trattative e incontri segreti. Il vicequestore si è guardato bene dal consegnare prove su quanto ha raccontato. Non l’avrebbe mai fatto. Su una storia del genere rischierebbe l’incriminazione per violazione del segreto d’ufficio. E rischierebbe pure la pelle.

Il capo torna al suo posto dopo un’ora e mezzo di riunione.

Allora?

Allora cosa?

La storia dell’attentato.

Senza prove non facciamo nulla, dice mentre entra nella sua stanza. Per adesso hai soltanto la testimonianza di una tua fonte, che non potrai nemmeno citare.

Allora mettiamoci a cercare le carte.

No, rischiamo di perdere troppo tempo. Come puoi pensare che noi si riesca a dimostrare ciò che sfugge perfino alla magistratura? Prima di muoverci, vediamo almeno se ci sono altre conferme, conclude lui. Si siede alla sua scrivania. Appoggia gli appunti della giornata su una stratificazione di fogli, fotografie in bianco e nero e riviste datate. Risponde al telefono.

La sera stessa l’Ansa, l’agenzia di stampa nazionale, trasmette alle redazioni di tutta Italia una notizia a sorpresa. Il lancio è delle 18.41. Sabato 7 agosto 1993.

Credo che occorra chiudere al più presto le carceri di San Vittore e Regina Coeli, ha detto il ministro di Grazia e giustizia, rispondendo alle domande dei giornalisti, stasera a Volterra in Toscana, dopo avere assistito all’interno del carcere allo spettacolo Marat Sade realizzato da un gruppo di detenuti. Secondo il ministro, in tempi brevi dovrebbero essere costruite carceri prefabbricate che consentano di superare i problemi di sovraffollamento. Non possiamo attendere ancora molto, ha aggiunto. Il ministro, continua il lancio Ansa, ha riferito che verranno completati i lavori per la costruzione delle carceri dell’Aquila, di Verona, di Castrovillari e di Palermo. E ha anche messo in evidenza che occorre un impegno finanziario per migliorare il trattamento all’interno degli istituti penitenziari.

Le carceri sono la faccia civile o incivile di uno Stato. San Vittore e Regina Coeli sono le prigioni più importanti di Milano e Roma. Ma perché parlarne proprio adesso? Perché questa priorità? Soltanto dieci giorni fa Cosa nostra e Casa nostra, ancora una volta, hanno colpito l’Italia. E il ministro, oggi che è sabato, si preoccupa di come saranno trattati i detenuti.

Meno di quarantotto ore dopo, alle 17.42 di lunedì 9 agosto, l’agenzia Ansa torna sull’argomento. È una dichiarazione del vicedirettore del Dap, il Dipartimento affari penitenziari del ministero di Grazia e giustizia, un ex magistrato antimafia a Milano, Francesco Di Maggio.

San Vittore e Regina Coeli vanno chiusi, annuncia. Il sovraffollamento nelle carceri non è dovuto a un momento particolare ma è ormai una tendenza stabilizzata e dobbiamo organizzarci per affrontare il problema in maniera altrettanto stabile. I detenuti in Italia sono a oggi 50.518 a fronte di una ricettività ordinaria di 35.283 detenuti… In particolare San Vittore ha 1855 detenuti con una ricettività di 1188 posti. Mentre il carcere romano di Regina Coeli ospita 1269 detenuti a fronte di una tolleranza di 871 persone… Inoltre, il ministero in questi giorni ha chiesto una deroga al blocco di spesa. E con questa deroga dovrebbero essere completati gli edifici penitenziari in costruzione.

È curioso. Roma e Milano insanguinate dagli attentati. Il Paese terrorizzato. Andrebbero potenziati gli uffici giudiziari. Servirebbero uomini e mezzi moderni per le indagini. E il ministero di Grazia e giustizia cosa fa? Si occupa dei ritardi nella costruzione di nuove carceri. Per un problema che non è nemmeno dovuto a un momento particolare. Ma, come dicono loro, a una tendenza stabile. Perché dunque proprio adesso? In piena estate, in mezzo alla stagione delle ferie e delle bombe. E con tutta questa fretta. Non possiamo attendere ancora molto, ha detto il ministro della Giustizia due giorni fa. Altrimenti, cosa succede?

Il ministro è Giovanni Conso. Un giurista celebrato. È presidente della Corte costituzionale tra il 1990 e il 1991. È il candidato alla presidenza della Repubblica proposto al Parlamento, nelle elezioni del 1992, dal Partito democratico della sinistra, nuova sigla dell’ex Partito comunista italiano. Conso dà anche il nome al provvedimento con cui il governo del presidente del Consiglio, Giuliano Amato, socialista, prova a neutralizzare le indagini di Mani pulite. Il decreto, varato il 5 marzo 1993, depenalizza il finanziamento illecito ai partiti. E nel decreto, passa un articolo che lo rende retroattivo. È il colpo di spugna. Cioè tutti i politici, i faccendieri, i manager, gli imprenditori arrestati o messi sotto inchiesta dalla Procura di Milano possono stare tranquilli. Il 7 marzo il presidente della Repubblica si rifiuta di firmare. Il capo dello Stato è Oscar Luigi Scalfaro, eletto dal Parlamento due giorni dopo la strage di Capaci. Lo stesso mandato al quale era candidato anche Giovanni Conso. Secondo il presidente della Repubblica, che accoglie la protesta dei magistrati di Milano e l’opinione di milioni di cittadini, quel decreto è incostituzionale. Mani pulite è salva. E con il rifiuto del capo dello Stato, la Prima Repubblica è definitivamente morta. Giuliano Amato si dimette il 22 aprile 1993. Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del Consiglio non eletto in Parlamento, assume l’incarico il 28 aprile. Conso viene confermato. Ministro della Giustizia è ancora lui. Anche il ministro dell’Interno non cambia. Resta Nicola Mancino, un esponente di lungo corso della Democrazia cristiana.

Da una parte le pressioni dei partiti e dei capitani d’industria coinvolti in Tangentopoli. Dall’altra gli attentati della mafia e la sospetta complicità di apparati dello Stato. In mezzo il governo con i suoi ministri. Sicuramente il vicequestore non ha mentito. Ci conosciamo da anni. Non ne avrebbe motivo. Lui però si rifiuta anche solo di mostrare i rapporti riservati che ha letto. Ripete il suo no fermo in un secondo incontro, il tardo pomeriggio di lunedì 9 agosto, nel suo ufficio, pochi minuti dopo l’annuncio del vicedirettore del Dipartimento affari penitenziari sulla chiusura delle carceri di San Vittore e Regina Coeli. È infastidito dalla mia visita improvvisa. Dice che non ne vuole più parlare. Sa bene che quello che ha già raccontato non basta per scrivere. Non si può fondare una notizia così grave sulla sua unica testimonianza, che per di più deve rimanere anonima. Ma i due annunci a sorpresa sono una dichiarazione politica. Una singolare coincidenza. Lo stesso annuncio ripetuto due volte in due giorni.

Ce n’è abbastanza per non lasciar cadere la storia. Abbastanza per lavorarci. E alla fine, se si trovano conferme, pubblicare i retroscena dell’attentato. Quelli tenuti nascosti nelle versioni ufficiali. La speranza di farcela però dura meno di un mattino. La mattina di martedì 10 agosto. Anche risalendo la gerarchia dei capi, loro sono convinti che avviare un’inchiesta su un tema così complesso non porti a nulla. Che le prove siano introvabili. Che sarà tutto vero, ma è una ricostruzione impossibile da dimostrare se nessuno tira fuori le carte. E con i servizi segreti di mezzo, nessuno le tirerà fuori. I capi non la pensano tutti allo stesso modo. Ma le obiezioni sono condivisibili. Inutile insistere.

Non resta che seguire la cronaca di tutti i giorni. La retata di prostitute nigeriane. La rapina a villa Fracastoro. La retata di prostitute tedesche. I dodici spacciatori del quartiere Stadera ora accusati di associazione a delinquere. Il racket delle estorsioni contro bar e pizzerie. I resti della messa nera al cimitero di Greco. I ladri albanesi che rubano cibo sui treni. Lo sgombero del campo nomadi korakané. Il vigile urbano sorpreso a giocare alla bisca clandestina. Il gruppo cittadino anti barboni. Le due ragazze scappate di casa. Il borseggiatore caduto dal treno. La rapina al bar in autostrada. L’intervista al vigile mago. I burloni esibizionisti che camminano nudi per la città.

Rimangono due occasioni. Due piccole rivincite. La mattina del 15 agosto il ministro dell’Interno è in visita a Milano. Una domenica. Un Ferragosto di sole saturo di umidità. Le foglie immobili. Ultima tappa del cerimoniale, le macerie del Padiglione d’arte contemporanea, il settore della Villa Reale di via Palestro distrutto dall’attentato. Conclusa la cerimonia di Stato, il ministro, il capo della polizia, il questore, funzionari e decine di uomini di scorta salgono su un lungo pullman preso a noleggio. Per tutto il tempo della commemorazione è rimasto parcheggiato all’angolo con via Marina. Proprio l’incrocio attraversato dall’uomo e dalla donna che hanno abbandonato la Uno grigia carica di esplosivo. Sono tutti a bordo, adesso. Il soffio del compressore annuncia che le porte stanno per chiudersi. È il momento buono per salire. Da dietro. Quelli della scorta in piedi tra i sedili sono davanti. E sono distratti. Un salto. Le porte colpiscono le spalle. Se scatta il blocco di sicurezza e si riaprono, l’autista se ne accorge. Invece no. Porte chiuse. È fatta. Il pullman fa manovra. Nei finestrini scivolano gli ippocastani dei giardini di via Palestro grandi come mongolfiere. Si gira in corso Venezia. Un funzionario seduto e sudato in un elegante completo grigio si volta a guardare nel pozzetto dei gradini. È così che scopre il passeggero clandestino.

Buongiorno.

Buongiorno, risponde il funzionario, e lei chi è?

Dai sedili davanti accorrono due gorilla della scorta con l’auricolare all’orecchio. Si volta e si alza anche il questore.

Lo conosco purtroppo, dice per fermare le due guardie del corpo. Benvenuto a bordo, aggiunge il questore. Si accomodi, non rimanga in piedi che è pericoloso.

Neanche a farlo apposta, il sedile libero più vicino è proprio quello accanto al ministro dell’Interno. Si è seduto al finestrino. Lato sinistro. Più o meno a metà del pullman. Guarda la città che gli scorre davanti. C’è tempo fino all’aeroporto. Fino a Linate.

Buongiorno, signor ministro.

Lui si volta appena. Come fosse una smorfia. Buongiorno, risponde sottovoce Nicola Mancino. Su quel posto stretto, nei suoi sessantadue anni sembra ancor più corpulento. Giacca blu elettrico. Camicia a righe azzurre e bianche. Cravatta regimental perfettamente annodata. Faccia squadrata. Capelli neri ben pettinati che il sudore gli ha appiccicato alla fronte. E proprio davanti a noi ciondola sui sobbalzi la nuca rasata e accaldata del capo della polizia.

Ora, non è che puoi prendere il ministro dell’Interno e dirgli a bruciapelo, senza una prova: guardi, l’altra sera ho mangiato una pizza con un vicequestore e mi ha detto che lo Stato sta trattando con la mafia, che ci sono agenti segreti che fanno il doppio gioco, che stanno svendendo l’Italia a Cosa nostra e, anzi, che gli attentati li ha organizzati Casa nostra. Come minimo si fa una risata. Magari poi il capo della polizia seduto qui di fronte sente e si mette personalmente a dare la caccia al vicequestore. Non solo per quello che ha detto. Ma anche per il fatto che ha rivelato segreti d’ufficio a un giornalista. No, non si fa così. Bisogna prenderla alla lontana. E stringere il discorso prima che il pullman arrivi in aeroporto. Un modo indiretto c’è. Perché qualcuno le stesse cose le ha già riferite pubblicamente, accusando il ministro e il presidente del Consiglio. Gli mancava poco per dire che le bombe le avessero messe loro. È un politico. Uno cha sta guadagnando consenso settimana dopo settimana. Si chiama Umberto Bossi, ha quasi cinquantadue anni. A capo della sua Lega Nord promette di ripulire la politica da mafia, corruzione e tangenti. E il ministro poco fa ha incontrato il primo sindaco della Lega Nord eletto a Milano. Ovviamente una persona dice quello che sa. O quello che vuole dire. Non puoi fare la radiografia ai suoi pensieri. Non ci sono alternative. L’unica arma davanti al potere è la curiosità. È chiedere. Il ministro ascolta la domanda. E non risponde con la flemma di un rappresentante del governo. Si scalda. Gli scappa un insulto. Tanto basta perché la sua reazione si possa raccontare. La mattina presto di martedì 17 agosto è già nel resoconto in edicola. A pagina 8:

In una pausa durante la visita, il ministro si lascia andare a una battuta che richiama un’occhiataccia del suo segretario personale. Ogni tanto Bossi dice cazzate, risponde, perché è la gente che gliele fa dire. Ma non mischiamo le rivalità tra partiti e i compiti istituzionali. Una cosa è quello che dice Bossi, un’altra è incontrare il sindaco di Milano. Il sindaco è una figura istituzionale… Quando ci siamo incontrati in via Palestro ero commosso, non ho pensato a questi particolari. Quando si fanno certe visite dopo le bombe, be’, sarebbe meglio che non ci fosse la necessità di fare queste visite.

Il segretario personale, almeno così si è presentato il funzionario che lancia l’occhiataccia, rischia di cadere a ogni curva. In piedi in mezzo al corridoio, si tiene in equilibrio come può. La mano destra stretta al bordo del sedile su cui è seduto il capo della polizia. La sinistra che ondeggia nell’aria per bilanciarsi. La domanda successiva è più diretta. Forse il rumore del motore ha coperto la frase. Forse non ha sentito. Bisogna ripeterla.

Ministro, allora le voci su una trattativa tra Stato e mafia secondo lei sono una cazzata?

Il ministro dell’Interno guarda fuori. Rimane zitto. Non si gira nemmeno. Il suo volto di profilo. I capelli in ordine. Un leggero, unico sbuffo di grigio sulla basetta. Gli occhi fissi sullo spartitraffico della superstrada che porta all’aeroporto. La spalla sinistra e la fronte appoggiate al finestrino. La sua immagine sottilmente riflessa nel vetro. Basta, il ministro le ha già risposto, dice per lui il segretario personale in piedi tra i sedili. Forse non c’è niente da dire. Forse non sanno nulla della trattativa. I politici non sempre conoscono cosa accade davvero. Forse si sono offesi. L’arrivo in aeroporto, forse, è per loro un piacevole sollievo.

La seconda occasione, trentuno giorni dopo la strage di via Palestro. C’è da scrivere un breve riassunto su un mese di indagini. Un pastone, come si chiama in gergo. È l’ultima possibilità per fissare con una data il racconto del vicequestore. Servirà in futuro. Chissà. Ovviamente senza prove non si può parlare del coinvolgimento dei servizi segreti. Sarebbe un suicidio professionale. Senza le prove, vincerebbero le prevedibili smentite. Bastano poche righe, nel mio breve articolo senza firma. Venerdì 27 agosto, pagina 32:

Accanto agli esperti della scientifica, continua il lavoro dei reparti investigativi di polizia e carabinieri. Le indagini si stanno muovendo su orizzonti un po’ più chiari. Gli investigatori della Dia, la Direzione investigativa antimafia, ritengono che dietro alla nuova strategia del terrore ci siano i boss di Cosa nostra. Lo dicono alcuni pentiti, che parlano di un piano della mafia suddiviso in tre fasi: la prima, quella attuale, con autobombe che dovrebbero esplodere senza far vittime; poi dovrebbe essere la volta di attentati contro caserme di polizia e carabinieri; infine una vera e propria colombizzazione, con il rischio di stragi per distogliere l’attenzione delle inchieste dagli interessi illeciti. I recenti attentati sarebbero stati affidati a frange esterne. A Milano potrebbero essere entrati in azione gruppi di slavi che, grazie ai loro contatti con serbi e croati, non hanno difficoltà a procurarsi l’esplosivo.

I pentiti. Il piano in tre fasi. La colombizzazione con gli attacchi a stazioni, stadi, impianti e dighe, come nelle guerre di mafia che hanno insanguinato la Colombia. Le stesse parole di quella notte. Il resto del colloquio, i sospetti su Casa nostra, il doppio gioco degli agenti segreti, le trattative tra Stato e mafia. Voci senza pezzi di carta. Di quei retroscena sia il dottore, sia il vicequestore non ne vogliono più parlare. E non ne parleranno più. Nemmeno il vecchio numero dei servizi segreti è di aiuto. Agli elenchi della compagnia telefonica, come prevedibile, lo 026880206 risulta inattivo. Eppure è collegato. Basta chiamare. Ma sono tentativi inutili. Suona sempre a vuoto.

Anche Palermo è una città mutilata. Tre mesi dopo gli attentati a Roma e a Milano, la capitale storica della Sicilia vive in stato di assedio. Posti di blocco ovunque. Sirene e auto blindate si fanno pericolosamente largo nel traffico. Soldati armati vigilano davanti ai palazzi e sui pianerottoli dove abitano i magistrati che indagano su Cosa nostra. E su Casa nostra. È il 4 novembre, un giovedì, festa dell’Unità d’Italia. Nove uomini devono incontrarsi a pochi isolati dallo stadio di calcio. L’appuntamento è alle undici. L’hanno fissato da dodici giorni. I nove parcheggiano dove trovano posto. Non hanno a che fare con gli attentati. Nemmeno con le indagini. Lasciano alle spalle l’ippodromo e il parco della Favorita. E si addentrano a piedi nel quartiere più elegante della città. Attraversano piazza Leoni. Risalgono sul marciapiede. La brezza del mare scavalca il monte Pellegrino e soffia poche nuvole bianche sopra le loro teste. Il grande obelisco di piazza Vittorio Veneto li aspetta, in fondo a due filari di aranci pieni di frutti quasi maturi che colorano la via. Ma i nove uomini si fermano prima. All’inizio di via dell’Artigliere, giusto all’angolo con via del Bersagliere. L’appuntamento è davanti a un gigantesco condominio già costruito fino al tetto e da poco completato. E a una schiera di antiche case disabitate, in parte demolite. Soffitti bassi, davanzali stretti. Due piani di storia rurale dove un tempo era estrema periferia. Via del Bersagliere numero 77 è l’indirizzo preciso. L’ingegnere del Genio civile e la sua collega, un architetto, hanno ricevuto una delega dal Tribunale amministrativo regionale. Devono verificare che la costruzione del nuovo palazzo abbia rispettato le distanze minime dalle case accanto.

Subito dietro l’ingegnere e l’architetto del Genio, arriva l’avvocato inviato dal Comune. E dopo di lui, tre funzionari municipali della ripartizione Edilizia privata. Un architetto e due geometri. C’è anche l’ingegnere che ha diretto i lavori nel cantiere sotto verifica. E accanto a lui, il costruttore.

Funzionari e tecnici si muovono avanti e indietro. Stendono a mezz’aria il nastro numerato di un doppio decametro. Tra il muro perimetrale del nuovo palazzo e la facciata di una vecchia casa a due piani. Prendono e riprendono misure. Su un verbale, riportano ogni loro decisione. Dopo una preliminare discussione necessaria a stabilire le modalità e il numero di misurazioni occorrenti, scrivono, sono cominciate le operazioni di verifica. Dal loro abbigliamento autunnale, si capisce l’estrazione sociale. Il lavoro che fanno. Quanto guadagnano. Sui sei funzionari del Comune e del Genio civile non c’è altro da aggiungere. Quello che merita più attenzione è sicuramente il costruttore. Si chiama Lo Sicco. Pietro Lo Sicco. Non è tra gli imprenditori più in vista, in città. Il 4 novembre 1993 la sua vita personale è un segreto ancora ben custodito.