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Hai mai ammazzato qualcuno?

Ma tu se sai una cosa, sei obbligato a scriverla?

No, non necessariamente.

Però devi riferirla alla polizia o ai magistrati.

No, no. Un giornalista non è obbligato a scrivere. E nemmeno a riferire quello che sa. Esiste il segreto professionale. A meno che non si venga a sapere che qualcuno sta per commettere un attentato, una strage o un omicidio. A quel punto è dovere di ogni cittadino denunciare quello che sa.

E tu, da giornalista, hai mai ammazzato qualcuno?

Come? Perché me lo chiedi?

Non lo so, con il tuo lavoro non si sa mai.

Sono un uomo fortunato, non ho mai ammazzato nessuno.

Ho bisogno di parlarti. Ma non devi raccontare a nessuno quello che ti dirò. Nemmeno scriverlo.

Dimmi pure.

No, non qui. Mio padre ha troppi amici qui dentro.

Va bene, come vuoi tu. Vediamoci da qualche parte, dimmi tu dove.

Se mi paghi una pizza, stasera in pizzeria.

Se preferisci così, stasera in pizzeria.

Lia è una ragazzina. Magra. Le mani sottili. Dita lunghe. Le unghie smaltate di rosa. Capelli neri raccolti in una treccia. La pelle abbronzata del Sud. Ma gli occhi chiarissimi, luminosi. Verdi come l’acquamarina. Così chiari, così belli hanno una sola origine. La Calabria. Lo so da quando un giovane capobanda della ’ndrangheta mi ha mandato a dire che mi avrebbe spezzato le gambe. Comandava una piazza vicino al Fortino della droga a Milano. Lo chiamavano il Calabria, appunto. Aveva gli stessi occhi. Tenendo all’integrità delle mie gambe, imparai a riconoscerli da lontano. Un giorno suonai a una porta. Cercavo un balcone da dove poter osservare dall’alto un gruppo di spacciatori di eroina. Aprì una ragazza. Anche lei aveva gli stessi occhi. Solo a quel punto guardai il cognome sul campanello. Era lo stesso del capobanda. Era sua sorella. Era il loro appartamento. Il Calabria era in casa. Sentii la sua voce chiedere malamente alla sorella: cu è? Dissi con molto garbo che avevo sbagliato indirizzo. E tornai in strada con le gambe integre.

Lia fa la cameriera in un albergo vicino a Sanremo, in Liguria. È la capitale dei fiori. La città del casinò. Lo scenario del festival della musica italiana. È qui che Lia è nata e cresciuta.

L’appuntamento è vicino alla scogliera deserta. Il mare la sera d’inverno è come se non esistesse. Nessuno lo frequenta, così nero che nemmeno si vede. È già buio. D’inverno fa buio presto. Le onde entrano nel golfo in file di cinque. Poi si calmano. Poi riprendono. Lo schianto contro la costa è un’esplosione di schiuma e salsedine. Ogni tanto qualche piccolo pesce viene sorpreso dalla fine brusca dell’acqua. Si ritrovano nudi sul rosso della roccia ferrosa. Brillano d’argento sotto la luce dei lampioni. E a fatica devono riprendersi la salvezza. Sbattono la coda. Saltellano fessura dopo fessura. Cresta dopo cresta. Fin dove lo scoglio si reimmerge nell’acqua.

Senza grembiule azzurro, senza la sua divisa di lavoro, Lia è ancora più ragazzina. Un viso da teenager. Un leggero tocco di lucidalabbra e mascara. Su un corpo di giovane donna.

Scusami Lia, non te l’ho ancora chiesto. Quanti anni hai?

Quasi diciannove, sussurra, diciannove non li ho ancora compiuti. E sorride.

Possiamo fare una passeggiata prima di andare a cena.

No, andiamo subito, dice lei. Qui dietro c’è una pizzeria, l’unica aperta in questa stagione. È meglio che non mi vedano in giro con te.

Ma chi non ti deve vedere?

Gli amici di mio padre.

Cammina veloce Lia. Evita di dover rispondere ad altre domande. Si infila in un viottolo pedonale dietro l’albergo dove lavora. E si ritrova davanti un uomo vestito tutto di bianco. Si scrutano senza nemmeno salutarsi. Lui resta sulla porta della cucina a guardarci. È ancora lì quando Lia gira a sinistra sulla statale. In piedi come un palo, una sentinella. Il suo camice risalta nella mancanza di luce.

Scimunito, mormora Lia.

Chi?

Quello, il capocuoco.

È il capocuoco del tuo albergo?

Capocuoco e scimunito. Non ci doveva vedere. Ma guarda ’sto scimunito, ripete senza voltarsi, adesso sa che ci siamo incontrati.

Lia continua a camminare. I suoi occhi sembrano concentrati sull’asfalto liscio del marciapiede. La pizzeria è a poche centinaia di metri. Due vetrine piene di luce lungo la statale. La porta pesante, in legno e ferro battuto. Dall’occhio fresco del pesce esposto, sembra anche un buon ristorante. Lia si siede con le spalle al muro. Nemmeno apre il menù. Vuole mangiare pizza. Ordina una prosciutto e funghi. La sua preferita, rivela. E una birra piccola. Parla di tutto. Chiede cosa sta succedendo da trattenere in albergo un giornalista per così lungo tempo. Proprio nell’hotel dove lei lavora. Fuori stagione, racconta, ci sono soltanto pensionati e noia. Ascolta la risposta. Sorride. Poi resta in silenzio. Fino all’ultimo taglio di pizza. Fino all’ultimo sorso di birra. È il momento adesso di affrontare la ragione di questo incontro.

Perché mi hai chiesto se ho mai ammazzato qualcuno?

Curiosità, risponde e mi fissa negli occhi.

Non è una cosa normale ammazzare qualcuno. Insomma, non capita tutti i giorni, a tutte le persone. Per fortuna.

A mio padre sì.

Lia continua a puntare i suoi occhi splendidi. Ora non sembra più una ragazzina. Ha perso quelle due curve di sorriso accanto alla bocca piccola. Il suo sguardo adesso è addirittura feroce.

Mio padre è uno che ha fatto ammazzare un po’ di persone. E ne farà ammazzare altre.

Tuo padre è un…

Uno che conta.

In che senso, uno che conta?

Conosci la parola ’ndrangheta?

Purtroppo sì.

Ecco, lui è uno della ’ndrangheta.

Con che grado?

Alto, ma non importa il grado. Se sanno che sono a cena con te, passo un guaio.

Quel tale ci ha visti insieme.

Chi, il capocuoco? Quello è solo uno scimunito.

Allora dimmi cosa mi volevi dire.

Ma davvero tu non sei obbligato a scrivere quello che ti racconto, o a denunciarmi agli sbirri?

Non sono obbligato, tutto quello che mi racconti resta tra noi due. A meno che tu non abbia intenzione di ammazzarmi. Oppure se hai cambiato idea…

Non ho cambiato idea. Il problema è proprio mio padre. Lui è venuto in Liguria dalla Calabria con il compito di curare gli affari qui, puoi capire. E da quando avevo dodici, tredici anni mi ha promessa in sposa al figlio di un boss di giù.

Della Calabria?

Sì di giù, della Calabria. Adesso che sono maggiorenne lo devo sposare. Fosse stato per mio padre lo avrei dovuto sposare a diciassette anni.

E tu che intenzioni hai, Lia?

Ovviamente non lo voglio sposare. Non me ne frega niente. Io voglio fare la mia vita, voglio essere una ragazza onesta, voglio essere libera. Non voglio avere a che fare con queste cose di mio padre.

E ne hai parlato con tuo padre?

Tu credi che mio padre sia uno con cui si possa parlare?

Magari provaci.

Tu allora non conosci come funziona da noi in Calabria.

E come funziona da voi? Se uno è calabrese non significa che faccia parte della ’ndrangheta. La maggior parte dei calabresi vive in ostaggio della ’ndrangheta.

Mio padre non è un ostaggio. Lui sta dalla parte della ’ndrangheta. Sono regole antiche. Si perdono nei secoli dei secoli, non le può cambiare una ragazza come me.

Qualcuno deve pur cominciare.

Sì, così mi mettono sottoterra, dice Lia e per un istante le torna il sorriso.

Allora cosa intendi fare?

È quello che voglio chiedere a te. Tu ne avrai viste di storie come la mia.

Per la verità no. Una figlia data in pasto a un clan della ’ndrangheta no, non mi era ancora capitata.

Che possibilità ho di salvarmi?

Solo a questo punto la determinazione nello sguardo di Lia sembra vacillare. La sua voce, quando pronuncia il verbo salvarmi, non è più limpida. Per un attimo si incrina come se le si fermasse in gola.

Ne hai mai parlato con qualcuno? Fuori dal giro di tuo padre, con i tuoi amici, intendo.

Sono obbligata a frequentare il giro degli amici di mio padre, dei loro figli. Praticamente ho sempre addosso gli sgherri di mio padre. Fuori dal suo giro, non ho altri amici.

Hai già detto loro come la pensi?

No, mai, il solo fatto di prendere tempo con il matrimonio per i miei è già una scelta fuori del normale. Mi tengono sotto pressione. Io non so più cosa inventarmi per rinviare.

Quindi io sono la prima persona con cui parli di questo.

Sì.

E tua mamma non ti può aiutare?

No. Lia pronuncia un accentato, secco. Mia madre, aggiunge, è completamente succube di mio padre. È una donna sottomessa. I miei sono all’antica. Riferirebbe tutto a mio padre. Mia madre non ha coraggio.

Restiamo a lungo in silenzio. Ci guardiamo.

Mi sembra tu abbia di fronte tre sole possibilità. La prima: accetti il matrimonio.

Questo è da escludere. Piuttosto mi ammazzo. Ma mi piace troppo vivere, ammette Lia. Quali sono le altre possibilità?

La seconda è scappare il più lontano possibile.

Non conosci mio padre. Mi farebbe cercare dai suoi. No, non saprei proprio dove andare.

All’estero. Ti trovi un lavoro e cominci un’altra vita lontano da qui. Posso aiutarti a cercare una rete di assistenza…

Gli uomini di mio padre sono ovunque, anche all’estero. No, vivrei sempre nel terrore.

L’ultima possibilità è rivolgerti alla polizia o ai carabinieri.

E cosa succede?

Ti danno un programma di protezione, un’identità di copertura.

In che senso?

Un nome nuovo. Prima però ti chiederanno di raccontare tutto quello che sai su tuo padre e il suo clan.

Dovrò farli arrestare?

Dovrai farli arrestare.

Non c’è modo di chiedere aiuto alla polizia e non dire nulla?

Non credo proprio, Lia. È un contratto. Lo Stato ti aiuta nel proteggerti, ma tu devi dare qualcosa in cambio.

Come faccio a farlo arrestare? Mio padre è sempre mio padre.

Hai ragione. Ma non vedo altre possibilità. Se vuoi provo a contattare qualche bravo prete antimafia. Hanno modo di ospitare…

No, lascia perdere. Ho capito.

Non è una decisione che devi prendere stanotte. Ma se non vuoi far arrestare i tuoi e non vuoi sposare quello di giù, c’è solo quest’altra possibilità.

Lia si intristisce di nuovo. Scuote la testa.

No, lascia stare, dice, ho capito, ho capito. Devi pagare tu, a me non lasciano soldi in tasca. Andiamo, per favore.

La porta in legno e ferro battuto si apre sul sottofondo del mare in burrasca. Nel buio là in basso sulla scogliera, onde invisibili continuano a schiantarsi. Lia non parla più. Camminiamo in silenzio sulla statale. Verso il vicolo dove ha lasciato il suo motorino. Qualche centinaio di metri di strada deserta. A sinistra vetrine sbarrate dalle saracinesche. A destra un distributore di benzina, a quest’ora chiuso. Il marciapiede è troppo stretto. Non si può camminare affiancati. È in questo momento che si ferma un’auto. Arriva alle nostre spalle. Inchioda facendo stridere le gomme. È una macchina grigia, una marca comune. Ma l’hanno così truccata e rielaborata che è impossibile riconoscerla. L’assetto abbassato. L’alettone sul cofano dietro. Le ruote larghe da corsa. Finestrini un poco oscurati. Quattro ragazzi dentro. Lia sembra averli riconosciuti. Perché si irrigidisce come una statua.

Adesso siamo davvero nei casini, esclama spaventata.

Il ragazzo al volante abbassa il finestrino. Quello seduto accanto, per affacciarsi, si china sulle sue gambe.

E brava la nostra bambina, dice subito. Così ti sei messa a fare l’infamona.

Lia ascolta. Stringe le braccia al seno, come per proteggersi.

Ce la facciamo con i giornalisti, continua quello, adesso vai a spifferare tutto agli sbirri. Brava, farai i conti con tuo padre.

L’auto sgomma con un gran frastuono e si allontana di fronte a noi.

Stronza. Che stronza, ripete Lia, ha fatto la spia con gli sgherri di mio padre.

Chi ha fatto la spia? Il cuoco?

Ma no, non quello scimunito. La mia amica.

La tua amica?

Le avevo detto che ti vedevo stasera.

Ma stai scherzando? Tu chiedi a me il massimo della riservatezza e avverti la tua amica che ci vediamo. Tu…

È la mia amica del cuore. Non potevo non dirglielo.

Come non potevi non dirglielo? Non ci siamo visti per parlare di musica, mi pare.

Adesso cosa facciamo?

Ma questi chi erano?

Gli sgherri di mio padre. Quello che ci ha parlato dal finestrino è il mio ex. Mio padre non sa nulla ma abbiamo avuto una storia.

Ah, che meraviglia.

Dimmi cosa facciamo adesso, insiste Lia.

Non c’è più tempo per decidere cosa fare adesso. L’auto è di ritorno. Scende proprio l’ex fidanzato. Jeans scuri. Giubbotto arancione largo. Gambe lunghe. Ci viene incontro. Ci stavano aspettando. Ci stavano pedinando.

Ascolta, fermati e ti spiego.

Non sei tu che mi devi spiegare, risponde lui, è quella infame che mi deve dire cosa ha intenzione di fare.

Ha la voce impastata. È pieno di alcol. O di cocaina. Di male in peggio. Lia lo aspetta qualche passo più indietro. Se è una questione tra ex fidanzati, se la vedano da soli. A meno che lui non usi le mani.

Sei un’infame. Adesso ci mettiamo a parlare con i giornalisti, la rimprovera il ragazzo dritto davanti a lei.

Lia risponde qualcosa sottovoce. Non si riesce a sentire. Gli occhi, i suoi occhi color acquamarina, non smettono mai di guardare. Sfidano il suo ex dritto nel suo sguardo. Lui continua a voce alta. È un monologo.

Cosa devo dire a tuo padre? Che vai a spifferare le cose agli sbirri? Così mi fai proprio incazzare. Non va proprio bene come ti stai comportando…

Non passa nessuno. La statale, l’Aurelia che dal confine con la Francia scende a Roma, è deserta. Ce ne stiamo tutti e tre in mezzo alla strada. Con quegli altri tre sgherri dietro di noi. Loro continuano a osservarci dalla macchina rimasta lì, dove si è fermata, con la portiera aperta. Arrivasse almeno un’auto, una bici, qualcuno a piedi, ci sarebbe quell’istante di distrazione che potrebbe convincere l’ex a lasciar perdere. E ad andarsene. Invece gli abitanti di questa città sono tutti chiusi in casa. Qualche luce filtra dalle tapparelle abbassate. Sono le dieci e mezzo di sera di un mercoledì. E gli italiani sono davanti alla tv a guardarsi le partite delle coppe europee. Il calcio è il calcio. Dovessimo scappare, non ci sarebbe nemmeno una via di fuga. La fila di negozi con le saracinesche abbassate dalla nostra parte. Il distributore chiuso e un lungo muro senza sbocchi sul lato opposto della strada. Volessi afferrare Lia per un braccio e portarla lontano, non troveremmo scampo. Bisogna aspettare che lo sgherro finisca di far bollire tutto il suo ego. È a questo punto che risuona la frase. La sento perfettamente.

Perché io da due settimane mi sono comprato il ferro e non vedo l’ora di usarlo.

Lui è sempre di spalle. La corporatura massiccia ora nasconde completamente la figura minuta di Lia. Cerco di decifrare ogni movimento. Vedo la mano affondare nella tasca destra del giubbotto arancione. Capisco che ha afferrato qualcosa. Estrae la mano. Distende il braccio destro. E con il sinistro fa un gesto che provoca un rumore metallico. Un ca-clac netto, veloce, nel silenzio totale della strada deserta. Ha scarrellato. Ha messo il colpo in canna. Quando si gira, la pistola è puntata all’altezza della mia testa. Adesso ce l’ho proprio di fronte. Una calibro 7.65 sembra. Nera, nerissima. Lo sgherro che custodisce il futuro di Lia si avvicina. Gli bastano tre, quattro passi lunghi. Il ferro si ferma a una spanna dai miei occhi. Allargo subito le braccia. Apro le mani. Fisso la piccola bocca di buio al centro di quel tubo dove è pronta a esplodere la sua dose di odio. Gli trema la mano. Riesco a vedergli bene la faccia. I capelli biondi. Corti. Rasati sulle orecchie. E forse anche dietro la nuca. Un volto arrossato dall’euforia della cocaina. Magro, spigoloso. Come se fosse stato scolpito senza grazia. No, non ho il tempo di avere paura. La mia mente è troppo impegnata a decifrare ogni segno, ogni movimento dei suoi occhi, delle dita, delle gambe. Ora impugna la pistola con entrambe le mani. Penso a come evitare tutto ciò che potrebbe spaventarlo. E provocare la contrazione dell’indice sul grilletto. Preparo mentalmente le parole giuste per disarmare la sua follia. Poi le sue mani. E quel proiettile che ha messo in canna per uccidermi. Intorno non esiste più nulla. Non c’è più Lia. Non ci sono più i palazzi. Nemmeno le luci alle finestre dietro le quali la gente sonnecchia sul secondo tempo delle partite in tv. Inutile mettersi a urlare, chiedere aiuto. Inutile e pericoloso. Il suono sguaiato di un grido scatena l’istinto. Potrebbe far detonare l’irrazionale voglia di inaugurare il ferro comprato da due settimane. C’è bisogno di razionalità. E tanta tranquillità. Rallento il ritmo del mio respiro. Spero che, percependo il movimento calmo del mio petto, lui possa fare altrettanto. Una sorta di telepatia. Allargo ancora di più le braccia. Apro più che posso le mani. In modo che lui veda che sono vuote, indifese. Non esistono che i nostri occhi. I miei dentro i suoi. E i suoi fissi sul mirino della pistola. Continua a tremare.

Ma cosa stai facendo? Guarda le mie mani, vedi? Sono disarmato.

Lui sembra stringere ancora più forte l’impugnatura. Sembra aggrapparsi a quel prolungamento delle sue mani, del suo corpo, che forse spera lo faccia diventare uomo agli occhi del boss, il padre di Lia.

Metti via la pistola. Stai facendo casino sul niente. Metti via la pistola e parliamo. Non hai capito nulla. Parliamoci e vedrai che non serve la pistola.

Non serve nemmeno parlargli, a quanto pare. Lui resta immobile. Le gambe leggermente allargate. Le braccia tese davanti ai suoi occhi. Il ferro sempre puntato. Dritto contro la mia faccia. Respira troppo in fretta, ancora. Lo vedo nell’impercettibile movimento ritmico della canna della pistola. È tesissimo. Corrugo la fronte in modo da aprire di più i miei occhi.

Guardami le mani. Io non ho niente, guardale. Metti via la pistola. Tu stai sparando a uno che non ti sta facendo niente. Stai sparando a uno disarmato. Ma ti prendi l’ergastolo per sparare a uno disarmato? Metti via la pistola. Potrebbero vederti dalle finestre. Vedi che le luci sono accese?

Per la prima volta distoglie lo sguardo dal mirino. Per la prima volta guarda a sinistra, poco sopra la mia testa. Spero che dietro di me, dietro le tapparelle, le luci siano ancora accese. Lui fa una smorfia con la bocca. Una smorfia di sufficienza. Di disprezzo. Mi accorgo in questo momento che è talmente giovane che non ha nemmeno la barba sulle guance. Avrà la stessa età di Lia.

Mi guarda ancora negli occhi. Forse è un cagasotto. Rifà quella smorfia di disprezzo. Mette via la pistola affondando la mano nella tasca destra del suo giubbotto arancione. E si muove. Un passo e mi è quasi addosso. Mi scanso. Lui cammina verso l’auto grigia. Verso i suoi tre complici che ci guardano e aspettano. Sbatte la portiera. Sì, per mia fortuna è un vigliacco cagasotto. Uno ancora incapace di sparare dentro due occhi spalancati che lo guardano. Il motore sale di giri. Il finestrino resta alzato. Meglio. Significa che per ora non ha intenzione di inaugurare il ferro. Una sgommata e l’auto grigia con il grande alettone si allontana verso il centro.

Lia resta in piedi, sul margine della strada. Le unghie in bocca. Le mani che tremano. Siamo soli ora. Soli con il rumore del motore truccato che si libera al massimo dei giri. Scarica tutte le marce lungo la statale illuminata dai lampioni gialli. Seconda. Terza. Doppietta. Quarta. Quinta.

Lia, andiamo via di qui.

Scusami, scusami, sussurra. Adesso hai visto in che mondo devo vivere?

Lia non si muove. È paralizzata dalla paura. Parla e non si muove. La devo trascinare per un braccio.

Dobbiamo andare via subito di qui. Se quelli tornano, ci sparano dal finestrino.

Lei non sembra capire. Cammina invece di correre.

Lia, adesso devi correre più forte che puoi. E non devi cadere.

Proprio in questo momento si sente lo stridore gelido di una frenata. Sicuro che hanno girato la macchina tirando il freno a mano. Ci hanno ripensato. Stanno tornando indietro. Prima. Doppietta. Seconda. Doppietta. Terza. Lia finalmente corre. La trascino nella direzione opposta a quella da dove arriva il rombo rabbioso del motore. Quarta. Quinta. Ai lati della strada ancora nessuna via di fuga. Saracinesche abbassate a sinistra. E un lungo muro a destra. Ma a poco più di cento metri si spegne l’insegna di un hotel. Se si è spenta, qualcuno l’avrà spenta. Lia incespica. Si volta. Non cadere. Non devi cadere.

Lia, andiamo, non ti voltare più. Dobbiamo arrivare dove si è spenta quella luce, l’hai vista? Quasi ci siamo, forza, corri, corri più forte.

Sotto l’insegna spenta, un cancello chiuso interrompe il muro che costeggia la strada e il marciapiede a destra. Se si apre siamo salvi. Se è chiuso a chiave, siamo fottuti. Il motore è sempre più vicino. Adesso scende di giri. Scala una marcia. Quinta. Quarta. È la curva prima del ponte sul torrente. Poi è tutto un rettilineo.

Il cancello è solo socchiuso. Si apre su un breve viale di ghiaia appena illuminata dalla strada. Pochi passi e si arriva a una porta di vetro. L’ingresso di una piccola pensione. Dentro è tutto spento.

Aprite. Aprite. Aprite…

I colpi delle mani sul vetro rimbombano lungo la facciata buia ricoperta da un groviglio di edera. Si accende una luce. Un uomo alto, corpulento, scende i gradini della reception. Gira la chiave. E quasi viene travolto.

Chiuda immediatamente a chiave.

Lui ci guarda sorpreso. Esegue l’ordine senza parlare. E mentre la porta di vetro si richiude, proprio negli ultimi centimetri di apertura, filtra il suono rauco del motore. L’auto grigia la vediamo sfrecciare davanti al cancello. Forse rallenta. Forse è soltanto l’effetto Doppler. La porta chiusa spegne completamente l’audio di quanto sta succedendo là fuori.

Lia non parla. Tiene lo sguardo basso. Si è immobilizzata dando le spalle all’ingresso. La reception si allunga in un locale accanto. E subito oltre, una rampa di scale porta ai piani di sopra.

Riparati qui, dietro a questo muro.

Lia si sposta dall’ingresso e si siede su una sedia.

Per favore, devo fare una telefonata. Ho bisogno dell’elenco telefonico.

Glielo prendo subito, dice l’uomo che ha aperto.

Dalle foto con i clienti appese alle pareti si intuisce che sia il proprietario della pensione. Non chiede nemmeno chi siamo, cosa sia successo, se abbiamo bisogno di aiuto. Come se fosse tutto normale.

Lia sussurra una frase. Parla così piano che non riesco a sentirla. Ripete un po’ più forte: cosa facciamo adesso?

Cosa facciamo? Abbiamo due possibilità, Lia: o chiamiamo la polizia o chiamo un amico che ci venga a prendere.

Ti prego, supplica lei sottovoce mentre il padrone cerca l’elenco dentro i cassetti di una scrivania, ti prego, se chiami la polizia quelli mi ammazzano.

Ecco l’elenco, dice finalmente l’uomo e lo posa sulla scrivania. Può usare il nostro telefono, se vuole.

Grazie.

Lia continua a mordersi le unghie. Seduta sulla sedia, guarda un punto indefinito tra il pavimento e il soffitto. Come se noi non ci fossimo.

Ricevimento, buonasera.

Buonasera, la stanza 325.

Prego.

Gaetano risponde al quarto squillo.

Scusami Gaetano, stavi già dormendo?

Ciao, no, sto guardando i risultati delle partite in tv.

Sono già finite?

Certo, sono appena finite.

Scusami se ti disturbo a quest’ora, ho bisogno di una cortesia.

Dimmi tutto.

Sei già in pigiama?

A quest’ora sì.

Mettiti qualcosa sopra. Se non ti chiedo troppo, dovresti prendere la macchina. Esci dal parcheggio del tuo albergo. Giri a sinistra e ti metti sulla statale. Un po’ prima del torrente, sempre sulla tua sinistra, c’è una pensione. È l’unica lì, troverai un’insegna accesa.

Lia, dov’è andato il proprietario?

Lei non fa in tempo a rispondere. Il proprietario appare da dietro una tenda scura.

Mi dica.

Può riaccendere l’insegna fuori, per favore?

Lo faccio subito, risponde il proprietario.

Gaetano?

Sono qui.

Allora sì, vedrai un’insegna accesa. C’è un cancello, è solo socchiuso. Guarda che non ci sia nessuno lungo la strada ed entra nel cancello in macchina. Dentro trovi un piccolo giardino. Ti fermi lì.

Va bene.

Sono con un’altra persona. Ci riporti al mio albergo.

Ah, ho capito…

No, non è come hai capito.

Allora non è come ho capito.

Ascoltami Gaetano, è molto importante. Se vicino al cancello vedi della gente a piedi o una Fiat grigia con un grosso alettone dietro, non entrare: torni in albergo e aspetti la mia telefonata in camera. Tutto chiaro?

Torno in albergo e aspetto la tua telefonata. Ma cosa sta succedendo?

Lascia perdere, puoi venire subito?

Il tempo di vestirmi. Ma è lontana questa pensione?

Non più di tre minuti di macchina.

Arrivo.

Lia, dov’è il proprietario?

Lei, senza dire parola, indica con un cenno del mento la vetrata all’ingresso. Lui riappare subito dopo.

Ho acceso l’insegna e spalancato il cancello, dice. Così il suo amico ci trova subito.

Grazie, mi spiace averla disturbata a quest’ora.

Non importa, ero ancora alzato.

Ha visto se c’è qualcuno in strada?

No, non mi sembra.

Il crepitio delle gomme sulla ghiaia annuncia l’arrivo di Gaetano. L’auto si ferma a pochi metri dalla porta di vetro. Lia si alza dalla sedia e non esce subito, come se volesse farsi proteggere. Gaetano apre la portiera dietro e la fa accomodare. Il proprietario della pensione spegne ora l’insegna. Poi accompagna la grossa auto blu metallizzato, camminandole accanto fino al cancello. Guarda a destra e a sinistra. Con un gesto della mano avverte che non c’è nessuno. E sempre con la mano ricambia la buonanotte.

Non ti chiedo nulla.

Grazie Gaetano, non chiedermi nulla.

Non oso immaginare cos’abbia combinato, aggiunge subito dopo sottovoce.

Non lo devi proprio immaginare.

Non lo immagino, dice e sorride.

Domani ti spiego. Gira qui dentro e fermati, il mio albergo è questo.

Lia aspetta un po’ prima di scendere. Gaetano le ha aperto la portiera. Poi si allontana di pochi passi e si accende una sigaretta.

Lia, andiamo.

Sì, dice semplicemente lei. Sospira e scende.

Senti Lia, se proprio doveva esserci un momento per scegliere, questo può essere il momento.

E cosa dovrei fare?

Andiamo in questura. Telefono a un amico della squadra mobile. Gli dico di correre in ufficio e raccontiamo tutto. Quello che è successo stasera e tutto il resto.

No, no, non posso.

Ma Lia, mi hai cercato tu. Volevi parlarmi. E se volevi parlarmi c’è una ragione. Non ne puoi più della tua vita, del matrimonio che ti hanno combinato, degli sgherri che ti spiano. Sei una ragazzina, hai il mondo davanti. Perché devi rinunciare alla tua libertà?

No, no, non insistere. Non posso.

Non insisto ma, te lo ripeto, mi hai cercato tu.

Sì, ma ho cambiato idea. Hai visto come sono quelli? Non me la sento, non vedrei più mia madre, i miei fratelli. Sarebbe come se fossero morti. No, non posso decidere stasera di rinunciare per sempre a mia madre.

Non pensi che un giorno te ne pentirai?

Il mio destino è questo. Sono nata calabrese, morirò calabrese.

Lia, non insultare la tua terra. Non tutti i calabresi sono mafiosi.

Infatti ci sono i mafiosi. E le vittime dei mafiosi. Io mi trovo da una parte e dall’altra. E pure calabrese sono.

Una calabrese con tutta la vita davanti. La tua vita non la devono costruire gli altri. Non devi lasciare che gli altri se ne impossessino. Ma se è questo che preferisci…

Non è che lo preferisco. È così perché non ho altra scelta. Io non potrò mai avere una vita al di fuori della vita di mio padre.

Sei sicura che dopo stasera non ti succeda niente di brutto?

Sono sicura, sono sicura.

E come vai a casa?

In motorino. Come sono venuta.

Ma se ti aspettano quei quattro balordi? Perché non dormi in albergo, te la prendo io la stanza.

Lia sorride. Sì, dice, secondo te posso stare fuori a dormire?

Ma è l’albergo dove lavori, può capitare che…

Non è mai capitato. No, dopo quello che è successo stasera devo per forza tornare a casa. Devo parlare con mio padre. Sarà ancora sveglio ad aspettarmi. Devo parlargli prima che gli parli quel ’mbraschatu.

Quel cosa?

Quello sporco che ti ha puntato il ferro.

Avrà già parlato con tuo padre.

No, è troppo fatto di coca stasera per parlare con mio padre. Verrà a parlargli domani mattina… Scusami per quello che ti ho fatto passare. Io non pensavo di coinvolgerti fino a questo punto…

Senti Lia, da qui dobbiamo andarcene. Se ripassano e ci vedono, finisce male davvero.

Hai ragione.

Lia spinge il motorino giù dal cavalletto. La domanda successiva la sussurra appena: pensi che ci avrebbero sparato dalla macchina?

Tu li conosci meglio di me. Secondo te?

Secondo me sì, risponde gelida come la paura.

Accende il motorino.

Scusami, scusami, ripete.

Non ti scusare, non hai nessuna colpa.

Tu però mi devi promettere che non farai nessuna denuncia. Se tu li denunci, loro mi rovinano.

Faccio finta che non sia successo nulla. Ma te lo dico ancora, non pensi sia meglio fermarsi a dormire fuori?

No, vedrai, non succederà niente.

Domani però ti voglio vedere. Così sono sicuro che…

Mi rivedrai, non ti preoccupare. Adesso vado. Grazie di tutto, sorride forzatamente. Accelera, gira a destra. E scompare lungo il rettilineo dell’Aurelia che stava per diventare il nostro patibolo.

Gaetano è ancora in piedi accanto alla sua macchina parcheggiata lungo la statale. Ha quasi finito la sigaretta. Fa un cenno con la mano che, tra indice e medio, stringe il filtro. Sbuffa una nuvola di fumo grigio. Corruga la fronte. Si aspetta che io gli spieghi, gli racconti.

Gaetano, vai pure a dormire.

Ma sei sicuro?

Sicuro di cosa?

Sicuro nel senso… posso lasciarti solo?

Sì, sì, vai pure, ti racconto domani. Grazie per l’aiuto.

Vado, sai dove sono.

Gaetano torna al suo albergo. E lungo la costa risuona soltanto il rombo umido del mare. Le onde continuano a picchiare duro. Sul promontorio i lampioni gialli illuminano la statale deserta. L’orizzonte è completamente nero. Non ci sono navi in transito. La mafia, la nostra mafia quotidiana, ha vinto anche stanotte.

Lia sarà già a casa. A quest’ora saprà cosa la attende. Lo sa da quando ha cominciato a capire. Lo sa da sempre. Vive da ostaggio. I suoi occhi, la sua voglia di riscatto, la sua mente immersa nei pensieri liberi. E il suo corpo prigioniero, ostaggio della sua famiglia, del loro mondo chiuso. Un mondo di paura, paranoie, minacce. Di silenzi che valgono più della voce. Di sottomissione e rispetto. Di sudditanza e meschinità. Di morti. E di vivi che credono di essere vivi ma altro non sono che corpi con la data di scadenza. Corpi temporanei. Bersagli in movimento. Potenti, arroganti, invincibili. Fino al prossimo regolamento di conti.

Lia il giorno dopo non si presenta al lavoro.

Una sua collega dice che non l’ha vista. Alle cinque del pomeriggio è meglio cercare la proprietaria dell’albergo. Dall’ufficio della direzione, alle spalle della reception, esce una signora sui cinquant’anni. Elegante, ricca. Si vede dalla fascia d’oro che porta stretta al polso destro.

Eccomi, mi hanno detto che vuole parlare direttamente con me, si presenta la proprietaria.

Sì, grazie, riguarda Lia.

Lia, la nostra dipendente?

Avrei bisogno di parlare con lei, ma oggi non l’ho vista.

È in malattia oggi.

Mi scusi, so che vi sto chiedendo cose che di solito non riguardano un cliente. Ma posso sapere se ha chiamato Lia personalmente, per avvisare?

Non saprei, non ho preso io la telefonata stamattina.

Guardi, non voglio sapere di che malattia si tratta. Vorrei soltanto sapere se qualcuno ha parlato con Lia stamattina.

Non so, devo chiedere alle sue colleghe.

La signora si lascia scappare una smorfia di sconcerto all’angolo destro della bocca. Gonna blu, maglioncino beige, capelli biondi tinti. Oltre al bracciale, un bell’anello d’argento all’anulare sinistro. Prende il telefono dal banco della reception e compone un numero di poche cifre. Un numero interno. Parla sottovoce. Tre domande, poi mette giù.

Mi dicono che ha telefonato la madre dicendo che Lia non stava bene. Ma posso domandarle come mai mi chiede questo? C’è qualche problema con Lia, con il servizio?

No, nessun problema con il servizio. Lei conosce i genitori di Lia?

La proprietaria sgrana gli occhi. Cerca con lo sguardo la giovane addetta alla reception. La ragazza è abbastanza distratta perché non senta. Non risponde. L’elegante signora non risponde. Su certi argomenti il silenzio è più chiaro delle parole.

Ho capito.

Ma Lia è una bravissima ragazza, dice la proprietaria.

Lo so, è per questo che la sto disturbando. Le chiedo un favore. La chiami a casa e se la faccia passare. È importante che lei senta la voce di Lia. La chiami con una scusa, le chieda come sta.

Ma è successo qualcosa?

No, sicuramente no. Però chiami e si faccia passare Lia.

Lo faccio subito, vado a chiamare di là. Mi aspetti qui.

Riappare qualche minuto dopo dalla porta dell’ufficio.

Ha risposto Lia, rivela, sta meglio. Dice che domani torna al lavoro.

Da quel pomeriggio la proprietaria si comporta in modo meno formale. Ormai lei sa che io so. E viceversa. È come se condividessimo un segreto. Solo che io non so nulla di cosa e quanto lei sappia. Lei non sa nulla di cosa e quanto sappia io. Comunque, non ci diciamo altro.

La mattina dopo Lia è al lavoro già alle sette. Attraversa il corridoio del terzo piano. Spinge un carrello carico di asciugamani puliti. Ci ritroviamo per caso sugli stessi passi.

Ciao Lia.

Ciao, dice sottovoce. Abbassa lo sguardo.

Lia.

Lei spalanca gli occhi. Brillano come sempre. È il loro contorno che è cambiato. È come se la loro espressione si fosse spenta. Sarà la penombra. Saranno le troppe lacrime che sicuramente ha pianto o trattenuto.

Come va?

Va, sussurra Lia.

Posso chiederti cos’è successo a casa?

Niente è successo.

Stai bene? Posso guardarti in volto, ti hanno picchiata?

No, no, non mi hanno picchiata.

Ci sono tue colleghe sul piano? Vuoi che…

No, sono sola.

Allora mi puoi parlare, ero preoccupato ieri. Con una scusa ho chiesto che ti cercassero a casa.

L’avevo capito. Lia fa l’unica smorfia di sorriso.

Ma poi hai avuto problemi con tuo padre?

No, è tutto a posto.

Ha parlato con il tuo ex?

Ti ho detto che è tutto a posto.

Anche adesso, nella penombra fredda del corridoio, parla di più il silenzio. Lia si è chiusa nel camice azzurro che stringe la sua giovane età. Quasi le rallenta il respiro. I suoi occhi parlano. Hanno voglia di liberarsi. Di fuggire. Di rinascere. Ma nella sua mente, appena dietro le due gocce di acquamarina, ha vinto la paura.

Mi spiace Lia, mi spiace davvero di non riuscire a convincerti.

Non ce n’è bisogno.

Come vuoi tu.

Se ho bisogno, so dove trovarti. Adesso devo continuare a lavorare.

Ciao Lia.

Non ha più avuto bisogno. Non è più venuta a cercarmi. Qualche settimana dopo, riappare lo sgherro che non vedeva l’ora di provare il ferro sulla mia fronte. Riemerge per caso tra la folla che sul lungomare la domenica mattina passeggia al sole invernale. È proprio lui, non c’è il minimo dubbio. I capelli biondi, la camminata arrogante. Il volto arrossato, magro, spigoloso. Indossa la tuta fosforescente da lettighiere di un’associazione locale che gestisce assistenza pubblica e ambulanze. È con un altro lettighiere. Mi fermo davanti a lui. Lo guardo negli occhi. Lui non mi riconosce. Tira dritto. Si allontana zigzagando tra teste e cappotti, seguito dal suo collega. Curioso il suo rapporto con le persone. La sera le ammazza. La mattina le soccorre.