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Le caramelle di Nonna ’Ndrangheta

Chi l’ha detto che viviamo in tempo di pace? Non c’è differenza tra i bambini di questa scuola e i loro coetanei in una città sotto assedio. Guardano dalle finestre e vedono noi. Carabinieri in tuta d’assalto e le mitragliette M12 appese al collo. Pistole nelle fondine dei poliziotti. Furgoni blindati con i vetri oscurati. Parenti in lacrime e un giornalista in fila con loro, spalla a spalla, per sottoporsi alle perquisizioni personali. L’aula bunker a Milano è proprio accanto alla scuola elementare del quartiere. Via Ucelli di Nemi 54. Periferia piatta su una terra gravida di acqua, tra la tangenziale Est e l’aeroporto di Linate. La chiamano così perché è l’aula giudiziaria di massima sicurezza. Il luogo protetto dove la Repubblica processa ora gli imputati per mafia. Un’occupazione temporanea, si diceva. Dai tempi del terrorismo rosso e nero. Il vecchio Palazzo di giustizia non aveva e non ha spazio. Una soluzione provvisoria, sì. Tanto provvisoria che dura da una ventina d’anni. Gli scolari, generazioni di scolari di questo quartiere, crescono in mezzo all’andirivieni di armi e detenuti in manette. Immagini che, se trasmesse in tv, qualsiasi genitore interromperebbe cambiando canale. È come se i bambini di questa fetta di città vivessero ogni giorno con il bollino rosso in basso a destra. E non sono i soli.

L’aula bunker è una grande palestra. I muri altissimi sotto le finestre lunghe e strette. L’intonaco ingiallito. Gli estintori appesi all’ossatura dei pilastri in cemento armato. I carabinieri e gli agenti di polizia penitenziaria fanno entrare gli imputati. Appaiono uno alla volta da cinque porte ritagliate lungo le pareti laterali. Una per ciascuna gabbia. Nella prima a sinistra, la più vicina ai giudici, entrano otto uomini. Nella seconda, due donne. Nella prima a destra, contando dal banco del pubblico ministero, si siedono tre donne. Nella seconda, otto uomini. Nella terza, un solo uomo. Corporatura grossa, sguardo da pugile, mani grandi. È un poliziotto. Anzi, lo era. Uno dei due arrestati che lavoravano nel commissariato vicino al Fortino. Il Calabria, il boss con gli occhi verdi come l’acquamarina, quello che mi voleva spezzare le gambe, si avvicina alle sbarre della sua gabbia, quella di mezzo a destra. Con lo sguardo e le dita manda saluti e messaggi a un gruppo di amici seduti tra il pubblico. Mi vede. Non mi riconosce, non mi ha mai incontrato. Ha fatto strada. Era un capobanda. Ora torna a sedersi sulla panca, in mezzo ai vertici della ’ndrangheta. Ci sono quasi tutti. Anche gli assassini di Luca. Manca il boss numero uno. Non viene mai. E manca il numero due, il Calabrese. Perché, si dice, si è infettato pure lui. Ha la peste. Sì, insomma, si è appena pentito.

Uno stormo di toghe nere prende posto tra i banchi davanti alla Corte d’Assise. I più anziani fra gli avvocati, ma soltanto loro, decorano l’uniforme con il bianco della pazienza ben legata sotto il mento. Un brusio accompagna l’arrivo di un fagotto sdraiato sotto la lana marrone di una coperta militare e il lenzuolo celeste risvoltato. La sagoma umana scorre su un lettino montato sopra quattro rotelle. Un agente lo spinge. Tre lo scortano. Si fermano oltre la prima gabbia di destra. Dalla coperta esce un volto magro adagiato sul cotone candido di un cuscino. I capelli grigi scarmigliati come un groviglio di ragnatele. I suoi occhi non si staccano dal soffitto. Il fagotto è una donna. Un’imputata. È lei. La numero uno delle donne di ’ndrangheta. Non perde un’udienza, Nonna ’Ndrangheta. Ogni volta la trasferiscono dal carcere, dall’infermeria o dall’ospedale. Come nonna è comunque giovane. Ha sessantasei anni. Il vertice della piramide. L’imperatrice della cosca perdente. Perdente per modo di dire. Quella che ha riempito il caveau della banca di Zurigo con oro e dollari, come fossero balle di fieno. Il clan che aveva incaricato l’ispettore di polizia loro amico, secondo il suo racconto, di trovare il mio indirizzo di casa e seguire i miei spostamenti. Il maggiore dei figli di Nonna ’Ndrangheta, e anche il più famoso, è evaso lo stesso giorno della prima operazione di polizia nel Fortino. La volta che agenti e carabinieri perquisiscono con i cani le cantine allagate dalla fogna, senza trovare nulla. La stessa in cui i tre fratelli, Luca, Ghiaccio e Blues, scampano all’arresto perché non c’è una sola prova per ammanettarli. La mattina che Rocco esce tardi di casa, impastato dal pieno notturno di cocaina. E risponde alla mia domanda biascicando un eloquente mavaffanculo. Quella stessa mattina, il 21 giugno di cinque anni fa, mentre tutta la polizia e tutta l’arma dei carabinieri sono impegnate al Fortino, il figlio maggiore di Nonna ’Ndrangheta riesce a farsi trasferire dal carcere di San Vittore all’ospedale Fatebenefratelli. Da tempo gli fa male una gamba, sostiene lui. Il medico di San Vittore gli crede e gli concede una visita specialistica. Lo scortano nel sotterraneo dell’ospedale davanti all’ambulatorio di angiologia. Il boss è in corridoio che aspetta e arrivano gli infermieri. Tre infermieri. E tre poliziotti. O forse sono soltanto tre uomini vestiti da infermieri. E gli altri non sono affatto poliziotti. I carabinieri di scorta cadono tramortiti. Uno dopo l’altro. I pazienti gridano terrorizzati. Quelle che sembrano pistole sono storditori elettrici. Li usano nei macelli per guidare il bestiame. Nelle mani dei falsi infermieri bastano per liberare il loro capo. Riempiono l’aria di spray irritante. Escono nel giardino dell’ospedale. Si arrampicano su un cancello che non vuole saperne di aprirsi. Un fottuto cancello elettrico non può mandare all’aria un’evasione. Bisogna scavalcarlo. Qualcuno finalmente lo apre. C’è sempre un basista in queste operazioni da 007. Il boss, con le gambe immediatamente guarite, e i suoi complici fanno un quarto di giro aggrappati alle sbarre. Sono in cima al cancello, oramai. Verrebbe da ridere a vederli. Saltano sul marciapiede. Sono fuori. Impugnano le pistole, quelle vere adesso. Fermano una macchina. Tirano giù un uomo e sua moglie. Rapinano pure l’auto che segue. Il figlio di Nonna ’Ndrangheta lo riprenderanno un anno e un mese dopo a Faro, in Portogallo. Per portarlo via dall’Italia hanno noleggiato e riempito un pullman con amici, parenti, complici. Vengono arrestati il boss, che ha quarantatré anni, il fratello, ventisette, quattro calabresi, due milanesi, sei inglesi. Un clan mafioso transnazionale che, secondo le notizie di quei giorni, in tre anni ha mosso tre milioni di chili di hashish in giro per l’Europa. Ma anche armi di ogni tipo, grazie ai rapporti con un finanziere-trafficante olandese legato ai servizi d’intelligence dell’Aia. Una ricchezza coronata da omicidi e riciclata in ville, ristoranti e alberghi. In Italia, Spagna, Portogallo. E a Londra. Nonna ’Ndrangheta spende un milione di dollari per liberare il suo figliolo prodigio dal carcere portoghese. È sempre il trafficante d’armi olandese a occuparsene. Gli prepara un elicottero e un commando di mercenari reduci della guerra civile in Angola. Il piano prevede la demolizione del muro del carcere con qualche chilo di esplosivo al plastico. Poi l’assalto armato. La polizia risponde al fuoco. Un mercenario muore. Il piano fallisce. Il boss resta in Portogallo.

Raccontano che i picciotti di Nonna ’Ndrangheta abbiano nascosto trenta bazooka usa e getta e migliaia di mitra. Una fonte rivela che non serviranno soltanto nella guerra contro i clan in Calabria. Dice che almeno tre li terranno da parte per i magistrati antimafia. Lei la arrestano nelle stesse ore in cui bloccano i suoi due figli a Faro. La prendono a Milano. A casa sua. A pochi isolati dal Fortino. Ecco perché Nonna ’Ndrangheta è nell’aula bunker adesso. La beffa è che deve starsene sdraiata proprio accanto alla gabbia in cui hanno infilato i Compari. I suoi nemici. Ma almeno qui, davanti ai carabinieri e ai poliziotti di rinforzo, cane non morde cane.

Senza la scelta di Rocco, quest’aula oggi non avrebbe imputati. Lui Nonna ’Ndrangheta la incontra una volta. Anni fa, quando è ancora minorenne, durante una festa da lei. È scritto nei verbali depositati agli atti del processo. Rocco sale nel covo. Un appartamento elegante. Lo porta un amico. Un ragazzino, come lui. C’è una donna anziana, racconta Rocco in uno dei suoi interrogatori. E alcuni dei figli grandi, i fratelli del boss. La nonna, come tutte le nonne, è piena di affetto verso i rampolli. Vede Rocco e il suo amico. Li chiama vicino. Va soltanto l’amico. Rocco resta a guardare dalla porta della stanza. Lei, Nonna ’Ndrangheta, scherza nel suo dialetto stretto di Reggio Calabria. E infila una mano nella tasca del grembiule da cucina che tiene appeso al collo. Tira fuori una caramella. Come spesso fanno le nonne con i nipoti, sorride mentre la consegna all’amico di Rocco. L’amico la tiene tra le dita. Non la scarta subito. La mostra a Rocco. Non è proprio una caramella. Insomma, non è di quelle confezionate. Sembrano piccole zollette di zucchero. Rocco le osserva da vicino. Pietre bianche. Sono almeno dieci grammi di cocaina purissima.

La Corte, grida all’improvviso una voce. E tutti scattano in piedi. Perfino gli imputati si devono alzare. Solo Nonna ’Ndrangheta resta nel fagotto immobile a fissare il soffitto. I giudici entrano nell’aula bunker e sfilano fino ai loro banchi. Ci si risiede subito. Il pubblico ministero, il magistrato con la pelle rasata di fresco, chiede al presidente di convocare il primo testimone. Un ufficiale della guardia di finanza. Poi chiamano a deporre il nuovo capo del commissariato di zona, l’ufficio di polizia nel quartiere del Fortino. Un bravo vicequestore. Lui però non ha vissuto la storia di persona. Testimonia in base ai verbali che ha letto. Quello che dirigeva l’ufficio prima di lui l’hanno trasferito lontano. Cinque anni fa, hanno rimosso anche il questore e il prefetto. Li hanno sostituiti dopo quasi due mesi di inchiesta giornalistica. Ogni giorno, tutti i giorni, almeno due articoli sulla ’ndrangheta, il Fortino, il quartiere senza Stato e i suoi abitanti in ostaggio. È stata la mia prima inchiesta da infiltrato. Rocco e Luca li ho conosciuti così. Ci guardavamo da lontano. Io a fingere di controllare i contatori del gas. Loro due a sorvegliare il traffico di bustine. Francamente non ho capito perché una volta che si sono sentiti soli e spacciati, si siano rivolti proprio a me.

Esistevano minacce, domanda il pubblico ministero, contro il capo della squadra investigativa, il sovrintendente…?

C’è un voluminoso fascicolo, risponde il nuovo dirigente del commissariato. Nel corso degli anni il questore aveva ritenuto di allontanare il sovrintendente per le minacce ricevute. E l’aveva assegnato ad altri uffici.

Il pubblico ministero vuole che siano acquisite le lettere minatorie. Vengono lette una per una. L’avvocato del Calabria si oppone. Dalle gabbie sale un mormorio. Bastardo pagherai, sei morto, legge il pubblico ministero. La talpa è con noi, stronzo lecchino del magistrato, sei una merda, neanche lo sbirro sai fare. Questo messaggio l’hanno addirittura scritto con lo spray nero sul muro lungo la strada che porta al Fortino. La difesa del Calabria si oppone ancora. Salve maresciallo, sono la tua fine, addio, lettera accompagnata da un ritaglio di giornale con la foto di un killer incappucciato che spara con la pistola ad altezza d’uomo. Mittente: ti ammazzo presto. E ancora: ultimo avvertimento, ti facciamo saltare. Altra minaccia con la vernice nera, sul muro davanti al commissariato. Ti saluto, hanno scritto beffando la sorveglianza. Ora si oppongono le difese di tutti gli imputati. Il presidente sospende l’udienza per decidere.

L’ex poliziotto si avvicina alle sbarre della sua gabbia. Fa davvero impressione vederlo lì dentro. Ci conosciamo. Vuole parlare. E un detenuto, che sia condannato o semplicemente imputato, merita sempre ascolto.

Come va?

Sono dentro da venti mesi per dei sentito dire, si lamenta lui, ma alla fine la verità verrà fuori.

Un agente della polizia penitenziaria impedisce che il colloquio prosegua. Lui, grosso e pesante, torna a sedersi sulla panca. La Corte d’Assise rientra in aula. Tutti in piedi. Opposizione delle difese respinta. Tutti seduti. Il vicequestore, a questo punto, racconta che il commissariato aveva ricevuto una delega di indagine. C’erano almeno duemila pratiche di polizia da verificare. Si trattava, spiega, di procedimenti per il rinnovo di passaporti, certificati di nascita per i minori, accertamenti vari. In particolare era emerso l’interessamento dei due agenti ora detenuti nei confronti dei familiari di Nonna ’Ndrangheta. Il dirigente del commissariato non la chiama così. Pronuncia il cognome del marito. Un totale di 191 pratiche firmate da uno dei poliziotti sospesi. E 192 firmate dall’altro.

Il pubblico ministero chiede ora al presidente che sia chiamato il prossimo testimone. Scandisce nome e cognome del sovrintendente. Il fagotto di lana sul lettino si muove. Nonna ’Ndrangheta smette di fissare il soffitto. Si volta. Richiama con lo sguardo l’agente di guardia dietro di lei. Vuole che le rialzi lo schienale. Lui gira una piccola manovella. Le sistema il cuscino. Lei si sfila di un poco da quel bozzolo e appoggia le braccia sopra la coperta militare. Sembra in camicia da notte e vestaglia. Guarda il poliziotto passarle davanti. I detenuti nelle gabbie si alzano in piedi per vederlo meglio. Qualcuno deve allungare il collo. Il Calabria esprime tutto il suo disprezzo. Cornuto, dicono nettamente le sue labbra anche se la voce arriva a malapena. Il testimone indossa la divisa blu della polizia. Il berretto stretto sotto l’ascella sinistra. Impeccabile. Solo i bottoni dorati della giacca gli tirano un po’. È leggermente ingrassato dai giorni in cui da solo, con appena cinque ragazzi accanto, doveva difendersi da Luca, da Rocco, da Ghiaccio, dai loro sgherri, dai Compari. E addirittura da alcuni suoi colleghi. Il sovrintendente si sistema sulla sedia davanti ai giudici. Porta il microfono vicino alla bocca. Saluta. Ripete la formula di rito. Aggiunge luogo e data di nascita. Ha trentasette anni. L’orologio al polso segna l’una e zero quattro del pomeriggio. La sorella di un detenuto, una giovane donna seduta sulle panche del pubblico, stropiccia nelle mani un mazzetto di mimosa. Fuori la vita continua. Oggi è la Festa della donna.

All’epoca dei fatti, esordisce il sovrintendente, ero il capo della sezione investigativa.

Un certo gruppo criminale aveva in animo di ammazzare il testimone qui presente, avverte subito dopo il pubblico ministero in piedi al suo scranno. Dico questo per rilevare lo spessore dell’organizzazione.

Sotto la voce del magistrato non si sente altro che il fruscio del vecchio sistema di amplificazione. Il silenzio è totale. Il presidente chiede in quale ufficio sia ora in servizio. Il sovrintendente, con l’assenso del pubblico ministero, prega che non sia rivelato in aula. Per ragioni di sicurezza. Il suo ex collega, chiuso in gabbia, si avvicina alle sbarre per sentirlo meglio.

Prima non c’era la squadra investigativa, risponde ora il sovrintendente. Le indagini venivano fatte alla carlona. Voglio dire, con difficoltà. Poi è stato creato il nostro gruppo, con buoni risultati sui tre punti nevralgici: il Fortino, la piazza controllata dai Compari e tutto il quartiere.

Nelle mani di alcuni detenuti sono comparse carta e penna. Prendono appunti.

In seguito al buon rapporto con l’autorità giudiziaria, continua il poliziotto, abbiamo ottenuto buoni risultati. Abbiamo sequestrato stupefacente a fiumi.

Il Calabria ride. Questo è pazzo, mormora. Il vicino lo zittisce, per continuare a sentire.

Abbiamo fatto una miriade di proposte di misure di prevenzione, spiega il sovrintendente.

E le misure vennero adottate, chiede conferma il pubblico ministero.

Sì, le misure hanno avuto il loro effetto con i decreti per l’avviso orale. Fino ai provvedimenti di sorveglianza speciale.

Le domando, lo interrompe il pubblico ministero, in quel periodo avevate il supporto dei collaboratori di giustizia?

No, nessuno. Era un lavoro sul territorio. Pedinamenti. Interventi. Intercettazioni telefoniche, elenca il testimone.

Ha mai ricevuto minacce di morte, continua il magistrato dell’accusa, e le ha mai scoperte lei?

Brusio nelle gabbie.

A seguito dei primi sequestri di stupefacente nel Fortino sono cominciate queste tristi cose, risponde il sovrintendente. Stavamo operando nella zona quando arriva una telefonata al 113 che segnala il ritrovamento di un’arma. Andiamo sul posto e non c’era la pistola, ma le scritte sui muri. Contro di me, contro di noi.

C’è un legame tra le minacce e il suo trasferimento?

Per quanto riguarda Milano, non posso che ringraziare i miei superiori. Il questore mi aveva già invitato ad andare altrove visto che l’aria si era fatta pesante. Gli ho scritto che non intendevo andare via e sono rimasto in commissariato. Il questore allora mi esonerò dal servizio per un mese e mi trasferì a lavorare in un altro ufficio. In quel mese, in cui ho visto il questore due o tre volte, ho ribadito il desiderio di tornare in commissariato, dove riprendere le indagini a pieno ritmo. E sono tornato. I fatti però stavano diventando sempre più cruenti. L’aria era sensibilmente pesante. Si ammazzavano continuamente tra clan. Le minacce continuavano. Alla fine vengo convinto a fare domanda di trasferimento in un’altra città. E vengo accontentato. Dopo essere stato a Milano diciassette anni.

La sua squadra investigativa, domanda il pubblico ministero, venne formata con quali difficoltà?

Bisogna vedere le energie umane a disposizione, risponde il sovrintendente. Il clima era quello che era. La diffidenza nell’ambito del commissariato si sentiva. C’erano evidenze lampanti. È il caso di quando raccogliamo una confidenza su un affiliato che vendeva droga dal suo appartamento. Chiedo supporto a un bravo collega anziano. Siamo sei persone in tutto. Ci infiliamo nella scala del palazzo dove abita l’affiliato. Saliamo all’ultimo pianerottolo che porta al solaio e aspettiamo l’arrivo del primo cliente. Nessuno ci aveva visti. Dopo mezz’ora che eravamo lì, lo spacciatore apre la porta di casa, sale sul pianerottolo dove siamo nascosti e con un bel sorriso in faccia ci chiede: state cercando qualcosa? Non poteva averci sentito. Fatti come questo hanno creato un senso di diffidenza. All’inizio con noi usciva anche uno dei due colleghi poi arrestati. Ho dovuto stringere la cerchia dei collaboratori. Lo spacciatore, invece di riderci in faccia, poteva essere armato. Avrebbe potuto spararci addosso. È chiaro che non ci si sentiva più sicuri.

Un suo collega ora detenuto è qui presente in aula. Risulta che lei abbia litigato con lui, può ricordare l’episodio?

La discussione avviene una mattina presto, risponde il sovrintendente. Il collega mi dice: tu non mi devi rompere i cosiddetti. Urlava. Perdonatemi il linguaggio, ma la frase era: mi hai rotto il cazzo. Dice che con un tizio, che io ho controllato, avrei fatto allusioni su di lui. Gli spiego che si sta sbagliando, che non è vero. Dopo un po’ mi dice di chi si trattava. Era un pluripregiudicato. Io quello l’ho denunciato per droga, per falso. Gli ho arrestato il figlio. Era chiaro che stava cercando di mettere zizzania tra di noi e che in ufficio qualcuno gli dava ascolto. La mia diffidenza dopo quella storia era verso tutti.

Contro entrambi i colleghi, chiede il pubblico ministero, i due ora detenuti?

Purtroppo sì. Sono storie che lasciano il segno.

Lei ha scritto uno dei rapporti più importanti e documentati sulla ’ndrangheta al Nord: ha raccolto le informazioni grazie ai collaboratori o attraverso indagini?

Solo con indagini, le ho riassunte in una informativa di trentasei pagine. Allora non avevamo collaboratori di giustizia. Si sono fatti avanti soltanto dopo. Anche perché erano stati messi alle strette dalle indagini e dagli eventi.

Buongiorno sovrintendente, prende la parola un avvocato della difesa, può spiegare meglio il perché della sua diffidenza?

L’ex poliziotto in gabbia mette in bocca una sigaretta spenta.

Perché loro non erano tra le persone di cui mi fidavo, butta lì il sovrintendente e scatena la contestazione dell’avvocato.

Mi perdoni presidente, ribatte il testimone in divisa con il tono della voce ancor più severo. Mi perdoni, ma cosa dovrebbe fare un dipendente della polizia di Stato quando comincia a raccogliere segnali come questi? Non avevamo di fronte una banda di ladruncoli. Avevamo a che fare con i clan più sanguinari della criminalità organizzata. Quando devi uscire per un’operazione, non puoi pensare che qualcuno dei tuoi colleghi l’abbia già spifferata all’altra parte della barricata. In queste indagini si rischia la vita.

Le chiedo allora, lo interrompe l’avvocato della difesa, chi sono gli altri colleghi di cui diffidava?

Il sovrintendente ha sempre risposto guardando il presidente della Corte d’Assise. Adesso si volta verso l’avvocato. Sa di essersi infilato in un vicolo cieco. Saper ascoltare le sensazioni è indispensabile. È l’unico modo per sopravvivere in un ambiente corrotto e vendicativo. Ma davanti ai giudici non bastano le sensazioni. Occorrono le prove. È chiaro che le persone di cui non si fidava erano un po’ di più di quei due disperati che si sono fatti arrestare. Una mano indegna, mai identificata, arrivò addirittura a infilargli una bustina sotto la porta chiusa a chiave del suo ufficio. Giusto per fargli capire: guarda che siamo qui dentro. Una mano e una mente molto audaci. Ma fare i nomi davanti ai giudici senza prove è reato. È calunnia. Il sovrintendente lo sa bene. Anche la sua mente è molto raffinata. L’ex collega in gabbia toglie le mani dalle tasche. Le stringe alle sbarre per alzarsi sulle punte dei piedi. La sua visuale è coperta dalle teste dei difensori. Anche lui aspetta con curiosità la risposta.

Avvocato, risponde subito il sovrintendente, non mi fidavo di nessuno. In quella situazione, con gli omicidi, le lettere, le minacce, io diffidavo di tutto. E di tutti.

L’avvocato si siede sbuffando. L’ex poliziotto in gabbia si appoggia nuovamente su tutta la suola dei suoi mocassini. Il presidente congeda il testimone. Giusto uno sguardo mentre passa tra i banchi. Un saluto con gli occhi. Oggi è una triste giornata. È una sofferenza riaprire certe pagine. È doloroso accusare ex colleghi.

Le indagini, gli arresti, il processo sono la dimostrazione che la mafia, la ’ndrangheta, la camorra possono essere combattute. I boss sono in carcere. Le udienze dureranno mesi. E già si prevede una valanga di ergastoli. La caduta del Fortino è un modello da ripetere. Il modello di una vittoria. La società civile sui poteri armati. L’intervento coordinato di polizia, magistratura, prefettura, Comune, Istituto case popolari ha restituito dignità agli abitanti del quartiere. I mafiosi non sono samurai invincibili. Le città possono essere liberate. Pezzo dopo pezzo. Bisogna procedere a piccoli passi. Ma bisogna anche essere determinati. Costanti. Uniti. Sempre.

A questo discorso il sovrintendente scuote la testa. Ci vediamo la sera stessa dell’udienza, in un posto sicuro. Lontano. Era letteralmente sparito da Milano. Trasferito in silenzio. Per avere salvezza. Per un milione e trecentomila lire al mese.

Stammi a sentire, s’intromette lui, seduto a capotavola, al posto del padrone di casa suo amico. Stammi a sentire bene. Il modello del Fortino, come lo chiami tu, resterà un modello irripetibile. L’aria è cambiata. Da qualche anno purtroppo è cambiata. E la mia storia lo dimostra. Tu non immagini quanto lavoro ci sia ancora da fare. Eppure nessuno lo farà. Tra qualche anno, amico mio, torneremo da capo. Magari non nello stesso posto. Magari ci saranno altri fortini. Ma bisogna convincerci che la mafia non va combattuta. La mafia va sconfitta. Oggi ho detto poco di questo ai magistrati, perché non volevo e non voglio criticare la divisa che indosso davanti a quei criminali in gabbia. Ma ne avrei avute di cose da dire. Lo sai che lavoro sto facendo nella nuova sede dove mi hanno trasferito? Io che sono stato addestrato, con grande impiego di soldi pubblici, alle indagini antimafia, alla ricerca dei sequestrati, alle operazioni antidroga, lo sai che cosa faccio adesso?

Nessuno a Milano sembra sapere dove sei stato trasferito e cosa fai.

Restituisco ombrelli e portafogli smarriti. Ma ti sembra possibile che uno che ha fatto quello che ho fatto io, sia stato messo a restituire ombrelli?

Il padrone di casa scoppia a ridere e lo prende in giro. Il sovrintendente non ha voglia di scherzare. Lo guarda male.

Queste cose, tu che fai il giornalista, le devi sapere. In questi sei anni ho testimoniato a tutti i processi sui tragici fatti che hanno insanguinato il Fortino. Questo grazie, o sarebbe meglio dire a causa del rapporto sulla ’ndrangheta che ho scritto senza la collaborazione di un solo pentito. E sai come l’ho cominciato quel rapporto? Scrivendo l’immenso archivio di nomi, cognomi, precedenti penali dentro la misera memoria di un Commodore 64, te lo ricordi?

Il primo computer da casa, quello che ha diffuso i videogiochi in tutto il mondo.

Proprio quello. Ce lo siamo comprati usato, facendo una colletta tra i colleghi della mia sezione. Il commissariato non aveva nemmeno i soldi per comprare la carta delle denunce. E quell’archivio immenso è il frutto del lavoro mio e dei miei ragazzi di notte, nascosti sui tetti o nelle cantine. Lavoro per il quale il ministero non ti paga nemmeno gli straordinari. Eppure, dopo tutto questo, sono stato lasciato solo. Addirittura oggi che la magistratura mi ha convocato per l’ennesimo processo, la cancelleria del Tribunale ha indicato negli atti di citazione la nuova sede dove presto servizio. Un indirizzo che doveva rimanere segreto per evitare pericoli a me e alla mia famiglia. Cosa dovrei fare? Finché non finiscono i processi, passo la vita a cambiare casa? E con quali soldi? La lotta alla mafia è un atto di buona volontà. Ma anche se hai la volontà di fare qualcosa non basta. Ti chiudono in un ufficio oggetti smarriti.

E tu, interviene il padrone di casa mentre prepara il caffè, come te lo spieghi?

Si rifugiano dietro la solita, vergognosa logica ministeriale, risponde spietato il sovrintendente. Mettiamolo in un angolo, se poi domani lo ammazzano possiamo sempre dire che avevamo fatto di tutto, infatti lo avevamo perfino messo in ufficio. Questa è la logica del ministero.

Un soffio di gelo ferma l’aria, il respiro, il tempo. Anche se la lancetta rossa dei secondi nell’orologio appeso alla parete continua a girare. E sono quasi le dieci di sera.

Ma davvero nella questura dove lavori ora, ti hanno mandato all’ufficio oggetti smarriti? Non ci posso credere.

Sì, ufficio restituzione oggetti smarriti.

Forse fanno così per proteggerti. Perché come ha detto questo pomeriggio il pubblico ministero, il pericolo di un attentato è reale.

No, questi sono sistemi da Prima Repubblica, dice il sovrintendente.

Non mi meraviglio. La Seconda Repubblica è quasi peggio della Prima.

Avrebbero potuto mandarmi in un ufficio investigativo per sfruttare il mio bagaglio di conoscenze, continua lui. Invece no. Per capire, devi sapere cosa mi è successo in questi anni in cui ci siamo persi di vista. Con l’aumentare delle minacce, nell’agosto 1993…

L’estate delle bombe…

Sì, in quell’estate terribile sono stato in un certo senso indirizzato a scegliere un’altra sede di servizio. Anche per le pressioni dei miei dirigenti. Non perché fossero sensibili. Solo perché nessuno sembrava volesse più prendersi responsabilità. Arrivo nella nuova sede e scopro che nessuno dei miei nuovi capi era stato informato di niente. Le minacce continuavano. Dopo alcuni mesi, anche per meglio chiarire e sollecitare l’opportuno aiuto, chiesi un colloquio con il direttore centrale del personale, al ministero dell’Interno.

Il sovrintendente racconta però che a fine gennaio 1994 dal ministero gli rispondono che non è possibile incontrare il direttore centrale del personale. Nemmeno per uno come lui che sta rischiando la vita per fare bene il suo lavoro. Gli dicono che, se proprio vuole, può inoltrare un plico chiuso nel quale spiegare la ragione del colloquio. Usa proprio queste parole il sovrintendente, così come le ha lette nella lettera che gli hanno mandato da Roma. Sempre a fine gennaio 1994, manco a farlo apposta, da Milano arrivano ancora notizie che riguardano nuove minacce. Una funzionaria della direzione del personale, alla quale il poliziotto ha inviato la sua richiesta di colloquio, gli fa capire che sono bene informati sui pericoli che sta correndo. E gli propongono un nuovo trasferimento. Immediato. Il mese dopo è in un’altra sede. Altro trasloco, altri colleghi.

Nel settembre 1994, continua il sovrintendente, invio al ministero, come richiesto, un nuovo plico chiuso. Racconto quanto è accaduto e chiedo di poter essere messo in condizione di lavorare in un ambito investigativo. Dal ministero, come immaginavo, non arriva nessuna risposta. Non mi arrendo, però. Un anno dopo, il 5 settembre 1995, visto che il direttore centrale non mi aveva ricevuto e non era giunta nessuna risposta al plico chiuso, chiedo un colloquio con il capo della polizia.

Il sovrintendente a questo punto aspetta la nostra reazione. Sa raccontare bene le storie che ha vissuto. Ci mette passione e rabbia. Storie che il suo accento campano rende ancor più vive.

Allora, si intromette il padrone di casa mentre serve un secondo giro di caffè, hai incontrato o no il capo della polizia?

Il sovrintendente sorride. Si appoggia allo schienale della sedia. Passa una mano sulla stempiatura e sui capelli rasati. Gli viene da ridere.

Due mesi dopo la mia richiesta, spiega, dall’ufficio del capo della polizia mi rispondono che non era possibile incontrare il capo e che comunque, se proprio volevo, potevo produrre un plico chiuso. Inutile ogni commento.

Arrivano altre minacce della ’ndrangheta, rivela subito dopo. Ma nella questura dove presto servizio, quando la direzione centrale li aggiorna sugli eventi, sembrano tutti cascare dal cielo. Nessuno sa niente. Capisco così che anche nelle altre sedi dove ero stato, nessuno sapeva di quanto mi era accaduto. Da Roma nessuno aveva dato le opportune notizie sui fatti e anche sforzandomi di raccontarli, sia oralmente sia per iscritto, tutti i miei dirigenti se ne sono disinteressati.

Alla fine però qualcosa succede. Viene concesso il trasferimento. Il terzo in pochi mesi. Il questore della nuova città convoca il sovrintendente. Si mostra disponibile ad aiutarlo. Gli chiede un rapporto da trasmettere a Roma su quanto gli è successo. Dice che è in contatto con il direttore centrale. E gli promette che troverà un’opportuna e giusta collocazione.

Opportuna e giusta collocazione, ripete il sovrintendente per sottolineare la promessa. E sapete che cosa è successo poi? Proprio mentre accade tutto questo, cambia il questore. Ne arriva uno che nulla sa e nulla gli interessa. Nel frattempo da Roma inviano alcune disposizioni riservate che mi riguardano. Ordinano di assicurare la sicurezza al dipendente e di evitare di farmi fare servizi operativi. Ancora una volta la scelta del ministero è furbesca e pronta a scaricare ogni responsabilità, con il pieno assenso del nuovo questore che si vede coperto da disposizioni che vengono dall’alto. Così l’attuale compito assegnato al brillante investigatore di ieri, che ha firmato uno dei rapporti più completi sulla ’ndrangheta in Italia, è quello di restituire oggetti e documenti smarriti.

Ma davvero non pensi che tutto questo accada perché ti vogliono proteggere?

Ti rispondo di no e te lo dimostro subito. Per quanto riguarda la mia sicurezza, da quel poco che riesco a vedere, sia i carabinieri sia i miei stessi colleghi in questura nulla di preciso e di ufficiale sanno dei pericoli che corro. Tempo fa, mio figlio comincia ad andare alla scuola materna. Preoccupato che nemmeno le maestre fossero informate dei rischi ai quali tutta la mia famiglia è esposta, ho pregato il questore di informare la direzione didattica per sollecitare i docenti a una maggiore attenzione. Inutile che vi dica quanto ho dovuto lottare per ottenere una comunicazione scritta da parte del questore. Lui e il suo staff hanno fatto di tutto per evitarla. Fregandosene, questo purtroppo è il termine più appropriato, dell’eventuale pericolo. Sono arrivato al punto di prepararla personalmente e portarla alla firma del questore. Gli ho dovuto velatamente far intendere mie drastiche decisioni se non l’avesse fatta partire. Questa, signori miei, è la lotta alla mafia.

Pazzesco.

Credetemi, il vento è cambiato. Lo Stato a parole promette una cosa ma nella pratica sta facendo tutt’altro. Non bastano gli arresti che abbiamo fatto. Bisogna andare a prendere le immense ricchezze che i clan hanno messo da parte in questi anni. Vi faccio un esempio. Se giochiamo a poker e uno dei quattro si assenta per due minuti per andare in bagno, quando ritorna la partita continua. Se invece va via definitivamente, la partita finisce. Se nel frattempo qualcuno sequestra le carte, il banco, i soldi, anche se quello ritorna, la partita non ricomincerà più. Significa che le stesse pene per associazione mafiosa devono essere più severe. Pochi anni in carcere non spaventano quei pezzi di fango. Tanto che se non ci sono altri reati come l’omicidio, il traffico di droga, i ricercati soltanto per associazione mafiosa si costituiscono. Lo sapevate questo?

Hai ragione. L’associazione mafiosa dovrebbe essere equiparata ai reati di terrorismo. In fondo la mafia ha dimostrato di essere un’organizzazione terroristica. Ma secondo voi il Parlamento potrebbe mai votare una proposta del genere? Il partito principale nato dalla caduta della Prima Repubblica l’ha fondato un manager in contatto con i boss di Cosa nostra.

Ti riferisci a Forza Italia, chiede conferma il padrone di casa, e al governo di centrodestra?

Sì.

Guarda che non è questione di destra o sinistra, risponde il sovrintendente. Io faccio il poliziotto e non ho colori addosso. Quello di adesso è un governo di sinistra. Ve lo dico io. Finita questa ondata di arresti e di processi, gli italiani dimenticheranno presto. Resteranno soltanto pochi magistrati a continuare a fare quello che abbiamo fatto noi. Questa sarà la Seconda Repubblica. Quello che mi fa rabbia è che gli italiani non si possono permettere di dimenticare. Con tutti i morti che abbiamo avuto, i colleghi uccisi, non dobbiamo mai dimenticare.

La lancetta rossa nell’orologio appeso continua a girare. È passata la mezzanotte.

Devo andare, scusatemi.

Ti accompagno alla macchina, dice il sovrintendente.

Li senti ancora, gli domando in ascensore, i ragazzi della tua squadra?

Sì, certo. Quando ho dovuto lasciare Milano, hanno chiesto tutti trasferimento. Chi è andato in Puglia, chi a Napoli, chi in Piemonte, chi si è addirittura congedato. Quell’epoca, amico mio, è davvero finita. Potevamo vincere contro quei pezzi di fango. Quella volta eravamo davvero vicini a vincerla la guerra alla mafia. Ma lo Stato sembra avere rinviato ancora una volta l’appuntamento.

Sai cosa penso? Penso che abbiamo vinto la guerra al terrorismo perché i terroristi erano fuori da questo Stato. Ma abbiamo perso la guerra alla mafia perché molti mafiosi sono dentro lo Stato. E noi continuiamo a lasciarli dentro.

La mafia non va combattuta, va sconfitta, ripete lui.

Sai con chi sono in contatto? Mi ha telefonato una sera e adesso mi chiama quasi tutte le sere. Rocco.

I ricordi per qualche istante gli oscurano lo sguardo. Ci fermiamo al cancelletto, in fondo al piccolo giardino che circonda il condominio. Lui in jeans e maglione grigio, anche se la serata è fredda e la primavera sembra ancora lontana.

Stai attento, dice. Cosa vuole quello da te?

Parlare. Ha deciso di collaborare.

Lo so. Ma stai attento. Chi cresce in certi ambienti, non cambia. La testa resta sempre la stessa quando hai respirato una certa aria.

Guarda, non lo so. Mi chiama perché l’hanno lasciato completamente solo. Ha bisogno di un sostegno psicologico, oltre che di amici, di una famiglia. E lui non ne ha. Rischiamo di far fallire la legge sui pentiti perché lo Stato non prevede un supporto psicologico a quanti stanno cambiando vita.

Vi siete incontrati?

No, non credo sia possibile. Mi chiama al telefono. Cerca semplicemente qualcuno con cui parlare. Di tutto. Del tempo, della ragazza che non ha, anche delle vecchie storie.

Ecco, te lo dico da amico, se un giorno vi incontrate fai sempre attenzione. Non si sa mai che…

Mi ha detto che gli piacerebbe vederti e stringerti la mano.

Il sovrintendente alza lo sguardo e mi fissa in silenzio.

No, no, questo non è possibile, dice dopo un po’. Io sono il poliziotto che lo ha arrestato.

Gliel’ho spiegato che non è possibile. Ma lui ha detto che voleva semplicemente farti arrivare i suoi saluti. E credo fosse sincero.

Mah, e tu cosa gli hai detto?

Che nessuno sa dove tu sia ora.

Non dirgli che ci siamo incontrati stasera.

Non ci penso nemmeno. Comunque, tra i tanti collaboratori di cui ho scritto, credo che il suo sia un pentimento autentico. E lo sta pagando pesantemente sul piano personale. Non ha più nessuno. Bisogna dargli fiducia.

Secondo me, riflette il sovrintendente, si è pentito perché sapeva che fuori l’avrebbero ammazzato. Quelli, i Compari e tutti gli altri, non dimenticano.

Ma cosa importa se la sua è una scelta opportunistica? L’importante è che uno come lui abbia fornito, dal di dentro, le conferme al tuo straordinario lavoro. L’importante è che ci sia in giro un mafioso in meno. L’importante è che altri boss siano in galera. L’importante…

Io non so quanto durerà tutto questo, dice il poliziotto. Ci stanno prendendo per i fondelli. A tutti i livelli e da tutti i livelli.

Io guardo la persona e penso davvero che la scelta di Rocco sia autentica. Non ha ricchezze da proteggere. Non ha segreti da contrattare con lo Stato. Credo invece che le operazioni antimafia di questi anni, le migliaia di persone arrestate portino con loro un problema sociale che tutti dobbiamo affrontare. È bene che i mafiosi stiano in carcere il più a lungo possibile. È bene che le loro ricchezze siano confiscate. Ma lo Stato non può lasciare i loro familiari senza risorse. Altrimenti quelli per vivere continuano a spacciare, a fare estorsioni, rapine. E siamo daccapo. In più hanno anche gli avvocati da pagare.

E cosa dovrebbe fare lo Stato?

Non lo so. Potrebbe inventare una norma che, in cambio di qualche beneficio, obblighi i familiari a frequentare corsi di formazione e di avviamento al lavoro organizzandoli, che so, in cooperative o altre iniziative del genere. La mafia è un sistema di mutuo soccorso antico che, dal loro punto di vista, funziona perfettamente. Se non riempi, se non governi il vuoto che gli arresti creano, il vuoto sarà sostituito da altre forme di mafia, da altri clan. Perché il modello del Fortino secondo te ha funzionato?

Perché il tuo giornale ha messo il Fortino sotto gli occhi di tutti. E perché noi li abbiamo arrestati, risponde il poliziotto.

Ma anche perché il Comune, le scuole della zona, la polizia, i carabinieri, la prefettura, l’Istituto case popolari, gli abitanti si sono ripresi il quartiere e hanno riempito il vuoto.

Finché dura, sbotta lui. Il problema è che se non continua la pressione da parte nostra, quelli tra un po’ sono fuori e il quartiere ritorna come prima.

Nulla è definitivo. La libertà, anche quella in un quartiere, va conquistata giorno dopo giorno.

E lo vieni a dire a me che nulla è definitivo. Dall’arresto di pericolosi mafiosi all’ufficio oggetti smarriti. Non ti nascondo che devo sforzarmi a pensare che sia solo un modo per scaricare la responsabilità nel caso che qualcuno mi ammazzi. Perché l’indifferenza palese del ministero mi ha anche fatto pensare a qualche oscuro piano per impedirmi di portare avanti certe iniziative investigative di cui non ti posso parlare.

Mi stai dicendo le stesse cose che mi ha detto Rocco. Da quando ha concluso le verbalizzazioni in Procura, ha la sensazione che la commissione centrale, quella che stabilisce i programmi di protezione, abbia cominciato a scaricarlo. Questo può essere inevitabile. Dato l’alto numero di pentiti in circolazione, non possono garantire a tutti la stessa attenzione. Però quanto costa assumere qualche psicologo? Un collaboratore deve ricostruirsi la vita, ha bisogno di un sostegno. Se fallisce il loro reinserimento, torneranno a fare quello che facevano prima. E avremo buttato via tempo, risorse, vite umane.

È quello che succederà, amico mio.

Succede perché lo vogliamo noi. Alla tv sembra che la parola mafia sia scomparsa. È diventata una parola da non pronunciare. Sai come chiamerebbero ora i colleghi della tv un’inchiesta come quella sul Fortino? Una mafiosata. L’ho sentito a una conferenza stampa, un collega di un telegiornale nazionale. Queste sono le solite mafiosate, ha detto.

Il sovrintendente scuote la testa.

Purtroppo Rocco non solo l’hanno lasciato solo. Da qualche settimana la commissione centrale gli ha mandato a vivere insieme la madre che, come ben ricordi…

Buona quella, sorride lui.

Sì, come prima ha grossi problemi con l’alcol. Anche lei ora è sotto protezione. Ma Rocco è il primo ad ammettere che non può occuparsi di sua madre. È perfino un pericolo per lui, perché lei quando è ubriaca dice a tutti chi è suo figlio. Pensa che la scorsa settimana mi ha raccontato che sua madre ha fatto casino nell’unico bar del paese dove li hanno nascosti. Era ubriaca e ha avuto un malore. Sono andati a chiamarlo a casa la sera tardi. Tua madre sta male, gli hanno detto. Adesso ovviamente tutti sanno dove abita il pentito. Lui la sera non può uscire di casa perché è un sorvegliato speciale. Sai cosa ha fatto? Ha chiamato la polizia, ha detto chi era. E ha avvertito che sarebbe uscito per andare a soccorrere la mamma ubriaca al bar. Una volta Rocco non avrebbe mai chiamato la polizia. Per questo ti dico che è sincero nella sua scelta. È un’altra persona, credimi. Parliamo due ore al telefono quasi tutte le sere. Ha un’intelligenza e una sensibilità che spesso mi sorprendono. Deve solo conquistare una tranquillità interiore, che forse in vita sua non ha mai avuto. La prima volta che mi ha telefonato, l’ha fatto perché aveva tentato il suicidio. Si è piantato un paio di forbici nella pancia, era convinto di morire.

Ma è conosciuta questa cosa? Intendo, chiede il sovrintendente, i miei colleghi di Milano lo sanno?

Ho telefonato a casa a un funzionario della squadra mobile perché gli mandassero i soccorsi. Credo che altrimenti sarebbe morto dissanguato. Il giorno dopo mi hanno telefonato dalla Procura pregando che non sia bruciato il luogo dove Rocco è nascosto. Ovviamente non l’avrei mai rivelato. Ma lui non mi ha mai detto il nome del paese dove abita ora. Con me, lo chiama il buco del mondo.

Se mai lo incontrerai un giorno, fai sempre attenzione. A lui e a quelli che magari potrebbero seguire te per arrivare a lui. Fa freddo, torno dentro. All’occhio, amico mio.

Anche tu stai attento.

Il cancelletto si richiude con un colpo metallico. L’investigatore antimafia, il super testimone nei processi contro la ’ndrangheta, il nuovo addetto alla restituzione di ombrelli e portafogli smarriti accosta piano la porta in vetro e alluminio all’ingresso. Lo immagini mentre con la stessa cautela mette sul cavalletto la sua moto davanti alla sorpresa degli spacciatori. E avvicina Luca, diretto come nessun poliziotto ha mai osato, per proporgli una partita a calcio. Il commissariato contro il Fortino. Oppure te lo figuri sdraiato sul tetto, dall’alba quando tutti ancora dormono fino alla sera, per segnalare via radio ai colleghi a terra il trafficante che ha appena nascosto il carico di eroina in macchina. E quello poi in manette a chiedersi come abbiano fatto a fregarlo. Oppure mentre chiude i suoi ragazzi nei bagagliai di due o tre auto e vanno a parcheggiarle sotto i palazzi dove abitavano il Calabria e Faccia d’Angelo. E lui, sempre sdraiato da ore sul tetto, con il binocolo e la radio a dire: ragazzi, adesso, fuori, è vicino a voi, ha la droga. Lo spacciatore di turno vedeva l’intera squadra investigativa del commissariato sbocciare davanti a lui, direttamente dai cofani delle macchine. La riconquista del Fortino è cominciata così. A piccoli passi. Senza leggi speciali. Senza sparatorie. Senza super commissari antimafia. Quei ragazzi non erano eroi. Non erano esaltati. Non avevano la presunzione di ripulire il mondo. Avevano visto come la ’ndrangheta aveva conquistato una parte della città. Come boss, affiliati, spacciatori e tossicomani calpestavano ogni giorno la libertà e i diritti di migliaia di cittadini onesti. Quei ragazzi avevano semplicemente un lavoro. E quel lavoro cercavano di farlo nel migliore dei modi.

Il vetro smerigliato dell’ascensore zittisce il saluto del sovrintendente. Il suo corpo viene improvvisamente rapito verso l’alto. Le ultime a sparire sono le sue gambe. Chissà come sarebbe andata la storia se Luca non si fosse spaventato delle scintille e avesse accettato la sfida a calcio.

Pronto, cronaca.

Ciao, sono io.

Ciao Rocco, come mai mi telefoni di giorno?

Perché quei figli di puttana mi vogliono fregare.

Chi?

I miei referenti. Non proprio loro, il funzionario dei miei referenti.

Calmati. Fammi capire cosa è successo.

Ti ricordi quando ti ho detto che mia madre si è sentita male al bar?

Certo.

Io ho chiamato il numero dei miei referenti. Ma loro quella sera non c’erano.

È comprensibile, avranno anche una famiglia.

Allora io ho parlato con il 113. Ho spiegato chi ero, che dovevo soccorrere mia mamma al bar. E ho anche detto che sarei subito rientrato a casa. Dalla questura hanno mandato altri agenti che non conosco. E con gli agenti, è arrivato quel figlio di puttana.

Smettila di insultarlo. Io non ho ancora capito cosa è successo.

È successo che il funzionario ha scritto alla commissione centrale che io sono evaso per andare al bar. E adesso ho saputo che la commissione vuole togliermi il programma di protezione. Io non sono evaso. Io sono uscito a soccorrere mia madre e per fare questo ho chiamato la polizia. Secondo te, uno che evade avverte la polizia? Se mi tolgono il programma di protezione, è come se mi ammazzassero. Perché quelli che tu sai mi ammazzeranno di sicuro.

Stai calmo, Rocco. Se qualcuno ti ha detto che vogliono toglierti il programma, non è detto che questo succeda davvero. Tu hai spiegato al funzionario perché eri uscito di casa?

È la prima cosa che ho fatto. Io te lo giuro su Luca e sai quanto Luca sia importante per me. Io ti giuro che non mi tiro indietro. I miei impegni li mantengo. Ma anche lo Stato deve mantenere gli impegni che ha preso con me.

Quando è la tua udienza contro i boss della ’ndrangheta, Rocco?

Tra poco più di un mese. Hai capito cosa fanno? Un mese prima dell’udienza ti tolgono la protezione. Vogliono farmi stare zitto, hai capito? Pronto? Pronto?

Sono qui, Rocco. Quello che posso fare è andare subito a parlare con i magistrati. Loro lo sanno?

Sì, lo sanno. Loro sono due persone straordinarie. So che hanno protestato con la commissione centrale. Se io cambio idea e me ne sto zitto, ne va del loro lavoro. Immagina cosa succede se io vado in aula e mi rimangio tutto. Fa’ un po’ te.

Adesso stai calmo, Rocco. Forse si può ancora fare qualcosa. Tua madre è con te?

No, dopo il casino che ha fatto, le ho spiegato che non posso prendermi cura di lei. Allora è tornata a Milano. Da una parente, credo. Non so dove sia. A me spiace, puoi capire come voglia bene a mia madre. Ma ho già i miei problemi, non posso prendermi cura di lei. Mia madre è ingestibile.

Ha il viso gentile, la dottoressa che come sostituto procuratore ha raccolto la collaborazione di Rocco. I capelli castani dritti sulle spalle. La pelle chiara di chi trascorre troppe ore al chiuso a lavorare. Il computer alla sua sinistra. I codici ordinati nella libreria alle sue spalle. Le foto di due bambini splendidi appese alla parete dietro di lei. La sua firma, accanto a quella del collega con la barba sempre rasata di fresco, chiude una delle due inchieste più importanti contro la ’ndrangheta in Italia e in Europa.

Prego s’accomodi, mi dica tutto, esordisce con un sorriso.

Rocco mi ha detto che c’è una proposta affinché gli venga revocato il programma di protezione. Credo sappia che lui mi telefona tutte le sere.

Sì, il collega mi ha informato e ho apprezzato che lei non abbia scritto di questo sul suo giornale.

Se resto ad ascoltare Rocco, non è per lavoro. Non sarò io a danneggiare il suo nuovo percorso di vita. Purtroppo rischia di farlo la commissione centrale. Sono qui per chiederle cosa possiamo fare, cosa posso fare per scongiurare un provvedimento che rovinerebbe Rocco ma anche le vostre inchieste.

Lei fa un sospiro. Mi conferma che non è un’intervista questa?

Non la sto intervistando.

Io e il mio collega abbiamo scritto alla commissione centrale. Abbiamo ribadito l’importanza della testimonianza di Rocco e la delicatezza della sua posizione personale.

Rocco non ha una famiglia accanto, non ha affetti. Per lui è molto più difficile ricominciare una nuova vita. Ma ci sta sinceramente provando.

Appunto, replica il magistrato. E io non ho dubbi sulla sua sincerità. Lei saprà che la commissione dipende dal ministero dell’Interno e non dal ministero di Grazia e giustizia.

Sì, certo.

Quindi la valutazione dei commissari esula dalle esigenze investigative. Nel senso che un testimone è sempre obbligato a dire quello che sa. Il programma di protezione è qualcosa in più che la legge 82 del 1991 offre per tutelare i testimoni che collaborano con la Giustizia. E la valutazione è data da una serie di aspetti, non da ultimo il rispetto delle norme date ai collaboratori, come gli orari di rientro, la condotta personale…

Ma Rocco non è evaso, se è questo che intende dire. È uscito di casa per soccorrere sua madre. Ha perfino annunciato la sua uscita alla questura. Lei ha mai sentito di un evaso che prima di scappare chiama la polizia e rivela dov’è? Sarebbe il primo caso al mondo. Non è uscito di casa per commettere reati. Cosa avrebbe dovuto fare? Abbandonare sua madre nonostante il malore? Cosa avremmo fatto noi?

È quello che io e il mio collega abbiamo scritto, avverte il sostituto procuratore. Però, le ripeto, la commissione agisce secondo logiche diverse da quelle dettate dalle esigenze investigative. E in questo la Procura della Repubblica non può interferire. Lei se sente Rocco gli dica di stare tranquillo. E soprattutto di evitare comportamenti che possano disturbare la commissione. I suoi tanti atti autolesionistici non ci hanno aiutati, purtroppo. Evidentemente a monte c’è una richiesta di ridurre il numero di collaboratori, ma questa è solo una mia impressione personale…

Una maggiore assistenza psicologica lo avrebbe aiutato. Rocco si è disintossicato da solo. E da solo si è messo contro l’intera mafia calabrese.

Lo so bene. Ma l’assistenza psicologica non è prevista dalla legge. Noi magistrati non abbiamo altra scelta se non quella di affidarci alle decisioni della commissione centrale.

La dottoressa saluta con la freddezza di chi, nel suo animo, sa già come andrà a finire. Come un oncologo che, di fronte all’esito già scritto della malattia, congeda in fretta il suo paziente sconfitto. E dice con rassegnazione: avanti il prossimo. Il corridoio della Direzione distrettuale antimafia di pomeriggio è sempre in penombra. Il sole è da tutt’altra parte.

Ciao, sono io.

Ciao Rocco.

Cosa ha detto la dottoressa?

Ti saluta, Rocco.

Sì, ma cosa stanno facendo per fermare la commissione centrale?

Stanno facendo l’impossibile, Rocco. Hanno scritto alla commissione spiegando l’importanza della tua collaborazione.

Già, hanno scritto, sbuffa Rocco soffiando nella cornetta del telefono il suono di una raffica di vento. Non mi prendere per il culo, almeno tu.

Rocco, non possono fare altro che scrivere. Sono magistrati, non possono incatenarsi in piazza per protestare. Possono solo scrivere le loro ragioni.

E se io ti rilasciassi un’intervista e pubblichiamo tutto?

No Rocco, temo che sarebbe una mossa pericolosa. Se mai la commissione volesse accogliere la richiesta dei magistrati, un’intervista ora provocherebbe la revoca immediata del programma. Daremmo loro un’occasione in più per toglierti la protezione. Adesso possiamo soltanto aspettare.

Guarda, che finisse così me la sentivo. Il programma di protezione viene rinnovato di anno in anno. La prima volta mi hanno dato dodici mesi. La seconda soltanto sei mesi. E non c’era nessun motivo per accorciare il programma. La storia di mia madre è una scusa. Avevano già deciso che una volta spremuti come limoni nelle indagini, andavamo abbandonati. Non sanno cosa rischiano. Soltanto con il nostro aiuto possono sconfiggere la mafia.

Forse è proprio questo il problema.

Cosa hai detto? Non ho capito.

Lascia perdere Rocco quello che ho detto. Dobbiamo aspettare.

Fanculo, aspettiamo.

I giornali oggi raccontano dell’ultimo colpo di scena alla Bicamerale. È il nome della commissione parlamentare che vorrebbe riformare la Costituzione. Presidente è il segretario del Partito democratico della sinistra, Massimo D’Alema, eletto anche con i voti del centrodestra. Ieri, 4 giugno, il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi ha apparentemente tradito gli accordi con D’Alema votando a favore del semi presidenzialismo. È uno dei capitoli più tristi di quello che molti commentatori chiamano inciucio, l’accordo sotto banco tra destra e sinistra. Berlusconi aiuta D’Alema, titola un quotidiano. In Francia nasce il governo Jospin. Il papa in Polonia incontra Walesa e rilancia contro l’aborto. Il presidente della Fiat, Giovanni Agnelli, avverte: la Cina va coinvolta, non deve essere isolata. L’Algeria alle urne, contro il terrorismo e la guerra civile. Il ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, prepara l’Italia all’ingresso nell’euro: mancano quattromila miliardi, ma il prodotto interno lordo crescerà del 2 per cento. L’articolo per domani è già pronto. Storie di bassezze metropolitane. Un viceprefetto era passato con il rosso. Il prefetto gli ha accolto il ricorso e cancellato la multa. Squilla il telefono.

Ciao, sono io.

Ciao Rocco.

Fabri, la commissione centrale mi ha tolto la protezione… Pronto? Mi senti?

Ti sento.

Me l’hanno comunicato poco fa. È ufficiale. Hanno preso per buona la relazione del funzionario e se ne sono fottuti delle lettere dei magistrati. Ho telefonato alla dottoressa, non c’era. Ho parlato con la segretaria. Mi hanno revocato il programma, le ho detto, ma le dica di non preoccuparsi. Perché terrò fede al mio impegno. E sai perché? Pronto?

Sono qui, Rocco.

Perché ho deciso di cambiare vita e non sarà la commissione centrale a farmi tornare indietro. Due giorni fa ho scritto alla dottoressa una lettera, ma non l’ho ancora spedita. Anzi, ho bisogno di stamparla al computer. Mi puoi aiutare?

Certo.

Non adesso però. Sono troppo scosso. Mi hanno tradito quei pezzenti dei Compari, di Faccia d’Angelo. Non pensavo, proprio non pensavo, che lo Stato facesse lo stesso. La commissione sa che togliendomi la protezione può provocare la mia morte. Eppure l’hanno fatto. È come se mi ammazzassero loro. Questo ricordatelo, se dovrai scrivere di me.

Cosa farai adesso?

Resto nella casa, qui nel buco del mondo, finché non mi cacciano. Poi tornerò a Milano. Tornerò ad abitare nel Fortino.

Lì è pericoloso, Rocco.

Non ho un’altra casa. Ma anche se non mi accompagna la scorta, io al processo tra un mese ci vado lo stesso. A costo di andarci in taxi o in autobus. Non mi tiro indietro, io.

Rocco, vienimi a cercare non appena arrivi a Milano. Sai dove sono.

C’è un’altra persona che deve sapere. Uno che a modo suo è dentro a questa storia. Risponde al cellulare, dopo qualche squillo. Un pronto secco, quasi rabbioso. Il suo modo di rispondere al telefono.

Come ti va?

Si capisce che ne parla di malavoglia. Forse perché è in ufficio. Bisogna insistere con la domanda. E lui racconta che, per i fatti che lo riguardano, ha denunciato la cosa pubblicamente con l’aiuto del sindacato. Soltanto allora lo hanno finalmente convocato a Roma.

Mi hanno chiamato al ministero, sì, racconta il sovrintendente a voce bassa. Un ufficio lungo il corridoio dove, più avanti, c’è anche la stanza del capo della polizia. Mezz’ora di anticamera, sentivo la bocca dello stomaco che si stringeva, aspettando… Aspettando di dire la mia.

Resta ancora un po’ in silenzio.

Quando sono entrato nell’ufficio, riprende, ho subito avvertito una sensazione spiacevole. Era un ampio locale. Le sedie sembravano di pelle umana. Il direttore seduto dietro la sua scrivania mi guarda con disprezzo. E la prima cosa che mi dice, è che devo stare attento quando comunico con il centro. Devo cioè usare i canali tradizionali. La mia risposta è immediata. Apro una borsa che avevo con me, con tutte le mie carte. Gliele scarico sul tavolo con rabbia. Erano tutte le carte che avevo scritto da quando ero stato trasferito. Scritto per riavere indietro il mio diritto al dovere. Quel diritto di cui ero stato privato. Nell’ufficio cala il silenzio, continua il sovrintendente precedendo la mia domanda. Lo sguardo del direttore si volge severamente verso il funzionario che era in stanza con noi. Facile intuire che era lo stesso funzionario che aveva trattato tutta la questione e la corrispondenza con me. Sono rientrato e dopo appena due giorni mi hanno assegnato alla squadra mobile. Due giorni, capisci? Ho perso anni di lavoro e in due giorni hanno sistemato tutto. Mi occupo di rubagalline, purtroppo. Ma almeno faccio ancora indagini. Dimmi tu ora, come vanno le cose a Milano?

Hanno tolto la protezione a Rocco. A un mese dalla sua testimonianza al processo, la commissione centrale gli ha revocato il programma.

Lui reagisce con una sonora bestemmia. Dice che se lo sentiva. Che allora il vento è davvero cambiato. Che bisogna tenere gli occhi aperti, adesso più di prima.

È un giovedì quando Rocco, il primo pentito tradito dallo Stato, viene depennato dall’elenco dei cittadini da proteggere. Giovedì 5 giugno 1997. La primavera è ormai alla fine. L’Italia è governata dal centrosinistra. Presidente del Consiglio il leader dell’Ulivo, Romano Prodi. Ministro dell’Interno un ex comunista, Giorgio Napolitano. Sono le sei del pomeriggio.