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La peste è la nostra salvezza

Minchia. E che sistema è?

Prenda le sue cose, andiamo.

Ma stavo dormendo.

Per questo abbiamo acceso la luce. Faccia la borsa.

Un momento. Mica potete svegliarmi così e pretendere che ci veda subito.

Si riprenda, si rivesta e andiamo.

Potevano essere i Compari e adesso sarei bello che morto. Minchia, Rocco, ti sei fatto fregare come un pischello. Non si dorme così. Non si dorme senza nessuna misura di sicurezza. È colpa del Valium. Un flacone di Valium in un giorno è troppo. Che schifo. Impasta la bocca come fosse olio.

Forza, Rocco, si muova.

La faccia barbuta della guardia mi aspetta sotto il letto a castello. Ha i gradi sulle spalline. Ma sono così fatto che non riesco a vedere se sia un assistente, un sovrintendente, un ispettore, un maresciallo o un cavolo di generale. Un generale per me non si muoverebbe mai. Minchia, come mi gira la testa. Lo sbirro non è solo. Ce ne sono altri due davanti al cancello aperto della cella.

Un momento, scendo, scendo. Cosa volete?

Raduni le sue cose che facciamo un controllo, dice l’agente con i gradi, metta tutto sul tavolo, forza.

Posso sapere perché mi fate una perquisizione in piena notte?

Normali procedure, risponde quello.

Normali procedure. In piena notte la gente perbene dorme.

La gente perbene appunto, ripete il graduato.

Si sente là fuori che gli altri due sbirri ridono. Che minchia hanno da ridere? Entra uno dei due con un paio di guanti in lattice. Se li infila. E comincia a mettere le mani dentro le mie cose. Apre le magliette che avevo piegato. Le mutande. L’asciugamano. La tuta di ricambio. Strano che non mi abbiano contato. Uno. Da quando tuo padre è uscito, Luca, sono sempre rimasto solo. Uno. Mi viene da ridere. Uno. Il graduato se ne accorge.

Che cosa c’è da ridere?

Niente c’è. Ridevate voi.

Niente c’è, continua lui. Bene. E ancora non si è messo i pantaloni?

Da quando bisogna vestirsi per la perquisizione?

Da quando dopo la perquisizione c’è il trasferimento.

Trasferimento? E dove?

Proteggimi, Luca, proteggimi. Mi trasferiscono in piena notte. Senza preavviso. Senza che io abbia commesso nulla. Luca, questa è un’imboscata. Questo è un brutto scherzo dei Compari.

Infermeria, dice il graduato.

Infermeria? E chi vi ha detto che sto male?

Adesso a ridere è lo sbirro con i gradi. È la prima volta che un detenuto rifiuta il trasferimento in infermeria, dice. Lei fa sempre casino per andare in infermeria. E adesso che la portiamo noi, non vuole andare.

Voglio capire.

Metta le sue cose nella borsa e capirà, insiste quello.

Minchia, gira tutto. Meno male che ieri sera non ho mangiato niente. Altrimenti sulla vostra divisa blu piazzavo un bel vomito. Non riesco nemmeno a vedere se ho preso tutto. E che minchia avete da sorridere? Sbirri maledetti, vi va bene che le penso le cose. E non le dico. Madonna, che sonno. Usciamo dalla cella. Lo sbirro con i guanti in lattice mi porta addirittura il borsone. Uno sbirro che mi fa da facchino. Le lampade sul soffitto girano dentro gli occhi. Faccio fatica a mettere a fuoco. Ho un sonno mortale. Come se fossi stato sveglio una vita. Aprono il cancello. Richiudono il cancello. Si passa dalla rotonda. Il centro su cui convergono tutti i raggi. Si gira verso l’infermeria. Mi portano davvero in infermeria. Rocco, stai attento. Se vogliono farmi un’imboscata, questa è l’occasione. Tre sbirri. Tutti d’accordo. Nessun testimone. Ti lasciano in infermeria. Solo. Entrano gli sgherri dei Compari e sei morto. Nessun testimone. Nessuno vede. Nessuno sente. Nessuno parla. Passiamo dalla sala medica. Al muro sopra il lettino, hanno appeso il crocefisso. Non l’avevo mai notato. Il crocefisso e più sotto il calendario. Uno di quelli con le pagine da strappare ogni giorno. Gli sbirri dicono che dobbiamo aspettare l’infermiere. Deve fare le pratiche di accettazione. Il capo delle guardie, quello con la barba, strappa la pagina del calendario. L’appallottola nelle mani. Prende la mira come se fosse un giocatore di pallacanestro. Il cestino dei rifiuti è all’angolo opposto della stanza. Tira la palla di carta. Fuori. Gli altri due sbirri sghignazzano. Uno va a raccogliere la palla. La mette nel cestino. Il capo, quello con i gradi, dice che la mezzanotte è passata. Che ormai non è più il 25 novembre. Che un altro giorno è andato affanculo. E che se non gli faranno scherzi, sabato, cioè dopodomani, cioè no, domani, insomma sabato 27 novembre se ne va una settimana in licenza giù. È normale che sia di giù. Tutti gli sbirri sono di giù. Soprattutto quelli che lavorano nelle galere vengono da giù. Lui dall’accento è sicuramente di giù. Napoletano. E quale uomo del Nord farebbe un mestiere come il vostro? Gesù, stai fermo. Madonna quanto gira il crocefisso. Quanto mi gira la testa. Mi sembra di cadere. Arriva l’infermiere. Chiede di me, vuol sapere che cos’ho.

Va in isolamento, dice il capo degli sbirri.

Un infettivo, sbuffa l’infermiere e si siede alla scrivania.

Più o meno, continua il capo, è quello in trasferimento domani mattina.

Che ha fatto?

Trasferimento per ragioni di sicurezza, spiega lo sbirro.

Ho capito, un infettivo appunto, commenta l’infermiere e si fanno tutti una risata.

Mi chiudono in una cella dell’infermeria. Il borsone a terra davanti alla porta blindata. Una branda di ferro, le lenzuola, una coperta leggera. La luce soffusa della notte accesa. Nient’altro. Sono un infettivo da isolare per ragioni di sicurezza. Che minchia volevano dire? Anche se chiudo gli occhi, gira tutto. Provo a dormire. Ma che minchia vuol dire? Fa freddo in infermeria. Fa sempre freddo in infermeria. Infettivo da isolare. E che minchia di ragioni hanno la notte tra il 25 e il 26 novembre per trasferirmi in isolamento? Già ero in cella di isolamento. Malato non sono malato. Per ragioni di sicurezza. Infettivo. Da trasferire domani mattina. Un trasferimento nel trasferimento. Minchia ho capito. Infettivo come infame. Adesso è chiaro il ghigno dell’infermiere quando ha detto infettivo. Questi credono che io sia un infame. Uno di quelli che se la canta. Un pentito. Vogliono farmi passare per un pentito. Un infame da impiccare davanti a tutti. Perché tutti imparino. Questo vogliono. È chiara la tattica. Mi fanno passare per un infame. Mi danno in pasto ai Compari. E quelli mi fanno fuori. Non perché voglio vendicare la morte di Luca. No, quelli mi fanno fuori perché sono diventato un infettivo. Così, davanti alla malavita, il loro diventa un gesto nobile. Hanno zittito un infame. Perfino mio zio, il boss, non potrà opporsi alla liquidazione di un infame. Che messinscena. Lo fanno proprio per questo, Luca. Perché non possono far fuori il nipote di un boss senza rischiare una faida, una guerra. Ma se il nipote è diventato un infame, un infettivo da isolare, un pezzo di merda, allora anche il boss deve accettare l’omicidio.

Rocco, sei fottuto. Ti hanno fottuto. Devo trovare il modo di uscire da questa trappola. Devo trovare il modo, se solo questa testa la smettesse di girare. Non ho nemmeno visto in quale cella sono. Quale numero. Dall’entrata dell’infermeria. Non c’è un nascondiglio. Se arrivano i Compari è finita. Luca è finita. La luce soffusa diventa via via sempre più scura. Forse ho semplicemente chiuso gli occhi. Conviene aspettare. Forse… Luca è davvero finita.

Il risveglio è sulla pelle pallida e gli occhi gonfi di sonno di una faccia che ho già visto. È in piedi davanti alla porta aperta della cella. Una guardia del carcere aspetta dietro di lui. Qualcuno ha acceso la luce. Quella bianca, ghiacciata, che ti spacca le pupille.

Rocco, buongiorno, dice quello con la faccia pallida, mi riconosci?

Ti ho già visto, ma non ricordo se sei uno sbirro o un traditore, gli biascico e mi metto seduto sulla branda.

Uno sbirro, sorride lui.

Andiamo, prenda la sua borsa e andiamo, ordina la guardia. Troviamo una stanza libera, così potete rimanere soli, dice subito dopo allo sbirro con la faccia pallida.

Una stanza dove rimanere soli. Io e uno sbirro. Soli. Questi continuano con la messinscena dell’infame infetto. Vogliono far credere fuori che io sia diventato un infame. Ci chiudono davvero in una stanza dell’infermeria. Mi fanno sedere davanti a una scrivania vuota, senza nemmeno un pezzo di carta sopra. Lo sbirro prende la sedia da dietro la scrivania, la sistema di fronte a me e si siede. La guardia esce. Chiude la porta e sicuramente resta ad ascoltare. Le guardie sono pagate per origliare quello che diciamo noi detenuti. Ma io a questo sbirro non dirò nulla. Se prima ho parlato, è stato un errore. Perché mi hai preso all’improvviso. L’urlo della guardia. La luce abbagliante. La domanda a bruciapelo. Un detenuto non parla con uno sbirro. Mai. Lui mi sorride. Che minchia hai da sorridermi? Si presenta. Nome e cognome. Mai sentiti. Dice che ora lavora alla squadra Omicidi, l’hanno promosso ispettore. Dice anche che adesso gli devo rendere il favore. Ecco dove l’ho visto. La sera che hanno ucciso Luca. È la vecchia conoscenza. Quello che mi ha consegnato il lenzuolo sporco di sangue. Sì, è lui. Sono proprio rincoglionito a non averlo riconosciuto. Mi spiega che deve pronunciare una formula di rito, che quello che sta facendo è un colloquio formale di cui riferirà al suo capo. Perché, rivela, sta cercando informazioni su quello che è successo. Quello che è successo. Io sono chiuso qua dentro da quasi due anni, che cosa posso sapere io di quello che è successo fuori? E che minchia è successo?

Hai già saputo, domanda a un certo punto, cosa è successo?

Mi dà del tu. Non gli rispondo nemmeno. Come fa a pensare che un detenuto possa rispondere a uno sbirro? Lui va avanti da solo.

Ieri sera, racconta, poco prima delle sei di ieri sera, in una strada vicino al Fortino, hanno ucciso un uomo di cinquantaquattro anni…

Adesso, sbirro degli sbirri, mi stai proprio prendendo per il culo. Vieni a cercare notizie da me su un omicidio commesso ieri sera. Io mica ero fuori ieri sera. Questa è davvero una messinscena. Questi si sono messi d’accordo. Sbirri e Compari. D’accordo per farmi fuori.

… il papà di Luca, dice lo sbirro all’improvviso.

Il papà di Luca cosa? A momenti rischio di rispondergli. Ma tengo la bocca chiusa. Anche se la lingua dentro si agita. La saliva mi ostacola il respiro. Vorrei esplodere. E che minchia c’entra il papà di Luca?

Era seduto dentro al bar, il solito bar dove andava lui, continua lo sbirro. Sono venuti a chiamarlo, qualcuno è entrato nel bar e l’ha chiamato fuori. Lui è uscito. E proprio lì davanti gli hanno sparato. Sette colpi. Al torace, all’inguine. Non ha avuto scampo.

Sto quasi per chiedergli conferma. Per chiedergli se è davvero morto. Mi fermo appena in tempo. Perché con gli sbirri non si parla nemmeno se hanno ammazzato il padre del tuo migliore amico. Minchia, Luca, hanno ucciso tuo papà. Dopo di te, dopo Ghiaccio, hanno ucciso anche tuo padre.

È morto mentre lo stavano portando in ospedale, dice l’ispettore della Omicidi. Da due settimane era tornato ad abitare nel quartiere del Fortino. Forse non immaginava che l’avrebbero ammazzato. Era disarmato. In una strada vicino al luogo del delitto, i colleghi hanno trovato una Beretta calibro 9. C’erano ancora sette colpi, nel caricatore da quattordici. Abbiamo ritrovato anche una Fiat Croma, rubata lunedì. Sia la pistola, sia l’auto pensiamo siano state utilizzate dagli assassini. Luca era il tuo migliore amico, no?

Il mio migliore amico. Questo stronzo sta premendo sugli affetti. Avete lasciato morire Ghiaccio, Luca, il padre. E adesso venite a fare gli amiconi con me?

Sappiamo che sei rimasto a lungo chiuso in cella con suo padre. Forse c’è qualcosa che vi siete detti. C’è qualcosa che lui ti ha detto e che potrebbe aiutarci nelle indagini. Li hanno uccisi tutti, Rocco. Vi stanno uccidendo tutti. Se sono venuto qui a incontrarti, è perché io e la mia squadra vogliamo arrestare gli assassini di Ghiaccio, di Luca e di suo padre. Sono pazzi scatenati che non si fermano davanti a nulla. O forse ti sei già dimenticato di come hanno ridotto il tuo amico?

Sento il magone salire. Sento gli occhi diventare umidi. Ma un uomo non piange. Credi di essere venuto qui a farmi piangere? Non ti do la soddisfazione di risponderti. E nemmeno di vedermi piangere. Non mi vedrai piangere. Non ti regalo nessuna dritta. Non stringerai le manette ai polsi di quegli infami che hanno ucciso Luca, suo fratello, suo padre. A quegli infami arriverò prima io. L’ho giurato a Luca. Ormai sono rimasto soltanto io. Soltanto io non ho tradito. Luca, soltanto io ti vendicherò.

Mi guardi e te ne stai zitto, sospira lo sbirro. È un colloquio investigativo, questo non è un interrogatorio davanti al magistrato. Vale la formula della fonte confidenziale. Penso che tu sappia cosa vuol dire fonte confidenziale. Non mi rispondi. Peccato. Stai buttando via un’occasione. Cosa credi di fare, tenendoti tutto dentro?

Lo guardo senza parlare. I miei occhi fissi dentro i suoi. Come una sfida, su chi prenderà per primo gli assassini. La polizia e io. Loro con le manette. Io con le calibro 9, le calibro 12, le calibro 7.62. Non sarò solo. Uno, due, tre uomini per partecipare all’azione li posso trovare. Con tutti gli albanesi sbarcati in questi mesi, con tutti quelli finiti in galera, troverò sicuramente qualcuno che per due soldi spari in mezzo agli occhi di chi ha ucciso te, Luca. Di chi ha ucciso tuo padre e tuo fratello.

D’accordo, hai deciso di non rispondermi, sbuffa l’ispettore e si alza dalla sedia.

Il colloquio sembra alla fine. Sì, finalmente è alla fine. Lo sbirro chiama la guardia fuori dalla porta. Solo a questo punto mi accorgo che è vestito come un criminale. Capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo che gli scende a un quarto di schiena. Jeans sporchi e strappati. Felpa nera con cappuccio. Ma che mascherata è? Non è un abbigliamento degno di un poliziotto. Questa è la divisa di uno che deve andare a rapinare una farmacia e poi a comprarsi una dose di eroina. Con quella faccia pallida sembravi davvero un tossico. La guardia mi riporta nella cella dell’infermeria. Io fonte confidenziale? L’hai sentito, Luca? Il tuo amico Rocco, fonte confidenziale degli sbirri. Andate affanculo tutti. Luca, non ti preoccupare, arriverò prima io della polizia. Li batterò sul tempo. Li fregherò. Loro, gli sbirri, non sono stati mesi in cella con tuo padre. Non hanno capito una minchia di quello che sta succedendo. Ma te lo immagini, Luca? Io che racconto agli sbirri che tuo padre, che voi signor Vincenzo, mi avete aggiornato su come stanno le cose. Io che mi confesso. Nemmeno davanti a un prete mi confesso. E cosa minchia vogliono adesso? Mi stanno aspettando. Ci sono tre agenti della polizia penitenziaria che mi stanno aspettando davanti alla porta della cella.

Lo trasferiscono subito, dice uno dei tre al collega rimasto con me dopo l’uscita dello sbirro pallido con l’orecchino.

Mi riconsegnano la borsa che si erano presi. E mi scortano fino all’ufficio dove ogni detenuto lascia le sue cose personali. L’ufficio matricola, mi pare si chiami. Questi volevano che facessi l’infame. E il messaggio è chiaro. Certo che è chiaro il messaggio. Lo sbirro della squadra Omicidi l’ha detto forte e chiaro. O meglio, non l’ha detto chiaramente. Ma me l’ha fatto capire. Il prossimo morto sei tu, Rocco. E se il prossimo morto sono io, perché non vi date da fare per arrestarli? È per questo che vi chiamano squadra Omicidi? Perché invece di indagare, prima lasciate fare l’omicidio? Sto sudando. Ho la fronte bagnata. Rocco, non è che ti stai cagando sotto? E no, Luca, sto sudando perché mi manca il Valium. Sei sicuro, Rocco? Minchia, sto delirando. Quello sbirro di merda mi sta facendo delirare. Luca, la realtà è che sono a pezzi. Te lo devo confessare. Non immaginavo che avrebbero ammazzato anche tuo padre. Il dolore. L’impotenza di essere chiuso qui dentro e non potere fare nulla. La possibilità che gli sbirri si siano messi d’accordo con i Compari per farmi fuori. O forse no. Quell’ispettore era stato molto comprensivo la sera che ti hanno fatto del male, Luca.

L’uscita dal carcere è una specie di conto matematico. Ci sono le carte con il numero dell’articolo del codice penale che hai violato. Le carte con il numero dell’articolo del codice di procedura penale che permette agli sbirri di fare questo, questo e questo. Le carte con il tuo numero di matricola. Le carte con il numero dei giorni già passati in cella. Le carte con le date di ingresso e di uscita. Sì, di uscita. Magari. Ecco che mi mettono le manette. Non si esce senza manette. Giro i polsi e li avvicino perché l’agente della polizia penitenziaria legga bene i due tatuaggi. Una parola tatuata sul polso destro. Proprio sulla pelle tenera, sopra le vene blu. Chiudi, c’è scritto in nero. L’altra parola sul polso sinistro. Sbirro, sempre in nero. Così quando avvicino i polsi per farmi ammanettare, la guardia non può non leggere. Chiudi sbirro. Si vedeva meglio una volta. Adesso anche il tatuaggio mi sta abbandonando. La tinta si è slavata. Però lo sbirro ha letto. Sorride. È giovane. Non l’ho mai visto prima. Chiude le manette. Entra nel cortile il furgone blindato dei carabinieri. Mi trasferiscono loro. Arriva anche un’auto di scorta. Una civetta, come le chiamano gli sbirri. Un’auto giapponese, senza nessuna scritta sulle portiere. Scendono tre ceffi in borghese. Si presentano alle guardie penitenziarie. Sono carabinieri anche loro. Addirittura la scorta mi danno. Non sapevo di essere così importante. Minchia, ma allora l’ispettore della Omicidi aveva ragione. Qua mi vogliono fare. E mi danno pure la scorta. Luca, sono rimasto solo. Solo contro tutti. Tuo padre l’hanno ammazzato sotto un tempo di merda. Fa freddo. Aprono la portiera posteriore del furgone. E stanno ancora perquisendo la mia borsa. Mi viene voglia di prenderli per il culo. Di dire che le armi le ho già spedite.

Fatelo salire, ordina un carabiniere con i gradi rossi sulla divisa.

Dove mi trasferite?

Non mi rispondono. Adesso vi pianto un casino che ve lo ricordate. Un bel casino. E non spingere. Che maniere. Il carabiniere con i gradi rossi ha fretta di partire. Mi fa entrare nella gabbia, due passi dentro il furgone. E chiude a chiave il cancello.

Io devo sapere dove mi state portando. Da quando in qua la destinazione è segreta? Devo avvertire l’avvocato, la mia famiglia. Ohé, mica potete fare un trasferimento segreto.

Adesso mi consegnano le carte e glielo dico dove la portiamo, dice il carabiniere con i gradi rossi.

Lui va a sedersi accanto all’autista. Altri due carabinieri si siedono sulle panche accanto alla gabbia. Devono stare belli scomodi. Quattro sbirri sul furgone. Tre sulla macchina di scorta. Luca, ma mi stai guardando? Il tuo amico Rocco scortato come se fosse il presidente della Repubblica. Chiudono i portelloni. I vetri sono oscurati. Non si vede niente fuori. O quasi niente. Soltanto le sagome. Il carabiniere con i gradi rossi si affaccia a una specie di finestrino scorrevole che separa l’abitacolo dal resto del furgone.

Parma, dice, lei è trasferito al carcere di Parma.

Cerco di ricordare chi mi ha parlato del carcere di Parma. Un supercarcere. Un carcere di massima sicurezza, dicono. Se mi vogliono scuoiare, un supercarcere è il luogo ideale. Nessuno esce. Ma nemmeno entra. Non ci sono visite, ficcanaso, controlli dall’esterno. Luca, se vuoi che ti vendichi, proteggimi tu. Al di fuori di me, non hai più nessuno al tuo fianco. Fuori, le sagome di Milano scivolano nei finestrini neri. Luca, crollo dal sonno.

Non faccio altro che dormire, da quando sono rinchiuso a Parma. Il supercarcere sembra il caveau di una banca. La prima differenza con Milano, con San Vittore, sono le pareti. A Parma sono in cemento armato. A Milano in pietra. Le porte sono in ferro. Niente cancelli. Almeno alla mia cella. Cella di isolamento. Sono in isolamento totale. Una branda. Un materasso. Lenzuola di carta. La mia borsa con il cambio. Niente di più. Quando sei dentro a San Vittore, pensi che qualcuno ce l’ha fatta a scappare. Pensi alle vecchie pareti che magari, piano piano, con un cucchiaio puoi bucare. Un’impresa impossibile, in realtà, perché le pareti sono spesse come montagne. Ma in teoria si possono bucare. Nel supercarcere di Parma, già a prima vista, perfino l’idea, il sogno di evadere è impossibile. E già così hai eliminato un pensiero piacevole che a Milano ti tiene compagnia per buona parte della giornata. A Parma sei solo anche nei pensieri. Ma se volevano farmi ammazzare dai Compari, perché mi hanno chiuso qui?

Non succede niente nel supercarcere di Parma. Non si sentono nemmeno le grida degli altri detenuti. Isolamento fisico. Isolamento acustico. Quello che cambia durante la giornata è soltanto l’intensità di luce nel vetro smerigliato della finestra in alto. Una piccola finestra. Non mi resta che dormire. Mi sto rovinando con il Valium. Conciato così non potrei nemmeno scarrellare la pistola. Non ne avrei la forza. Non potrei prendere la mira. Non potrei sparare. Ma Luca, non ti preoccupare. Mi serve per resistere. Per far passare i giorni. Mi fa dormire, il Valium. Mi fa passare la voglia di sniffare cocaina. Mi sono praticamente disintossicato. Da solo. Con la mia forza di volontà. Saresti fiero di me, amico mio. Per la prima volta. Non dovresti più vigilare su di me. E poi quando sarò fuori, smetto con il Valium, mi risveglio e ti vendico. So chi colpire. Tuo padre, Luca, è stato chiarissimo. Il Calabrese, prima di tutto, il boss dei boss in città. Quello che abbiamo incontrato. Quello che ci aveva promesso la pace. Quello che a te, amico mio, ha dato la pacca sulla spalla per confermare l’accordo raggiunto. È lui il primo. So dove trovarlo. So dove andarlo a prendere. Potrei fare io stesso da esca. Mi scopro. Lascio che escano allo scoperto per uccidermi. E li stendo io. Userei tutte le armi a disposizione, Luca. Mi sento solo. Mi sembra di impazzire. È dura qui dentro.

Ho perso il conto del tempo. Non dovevo. Non sono riuscito a seguire lo scorrere dei giorni. Luce e buio nella finestra. Una tacca e un’altra tacca sul muro. Sembra facile. Ma il giorno in cui ho dormito dalla mattina alla sera ho perso ogni punto di riferimento. Non ho l’orologio. Le guardie qui non parlano con i detenuti. È giusto. I detenuti non parlano con gli sbirri. E viceversa. Ma a Milano un po’ parlavano. Almeno ti dicevano il giorno. Si sta male, Luca. Me ne resto tutto il giorno sdraiato sulla branda. Faccio un po’ di ginnastica. Qualche flessione sul pavimento. Per le braccia, solo per le braccia. Un kalashnikov pesa e io devo essere allenato a sparare con il kalashnikov. Non mi portano all’aria. Ancora non mi hanno dato il permesso per l’ora d’aria. Valium e Valium. Mi dimentico perfino di mangiare, a volte.

Il muro. Devo svegliarmi, Luca. Devo svegliarmi. Il muro. Se corro e abbasso la testa al momento giusto. Oppure no, così. Un colpo. Un colpo netto. Fronte contro cemento. Un colpo più forte. Un colpo ancora più forte. Il sangue. Mi sono lacerato la pelle e sto gocciolando sangue. Più forte, Luca, come quando mi picchiavi tu. Sangue e botte. Sono sveglio. Sono vivo, Luca. Anche se mi hanno sepolto qui dentro, sono vivo. Vivo, porca minchia. Vivo e pronto a vendicarti. Ma quando? E se esco e quelli sono già stati arrestati? Quanti anni dovrò aspettare per vendicarti?

Sanguino di brutto. Il mio sangue, rosso come il tuo. Ho bisogno di acqua fresca. Dal rubinetto ne esce poca. Troppo poca.

Guardie. Guardieee.

È mezz’ora che picchio sul ferro della porta. E da mezz’ora non viene nessuno. Mi fa male la testa. Mi gira. Mi fa male. Oddio, Luca, questa volta mi sembra di impazzire. Questa volta non sopravvivo. È sera? È notte? Sono vivo e già sepolto. I Compari non hanno nemmeno dovuto fare la fatica di venirmi a cercare. Di spararmi. Hanno lasciato fare agli sbirri. Mi hanno sepolto vivo. E i Compari non pagheranno nemmeno un giorno di gabbia per questo. La lametta. Ho le lamette nascoste tra le mie cose. Dentro una piega del borsone. A San Vittore ho fatto la scorta. Non sono per farmi la barba. Quelle mi servono per difendermi. La lametta. Non l’ho mai fatto, Luca. Non ho mai fatto il pezzente in cella. Soltanto i tossici fanno i pezzenti in cella. Soltanto i tossici si tagliano le braccia con la lametta per farsi trasferire in infermeria. La lametta. Eccola. Intatta, non si è rotta. Eccola, sottile. Basta un tocco. Basta una leggera pressione. Mica mi devo ammazzare. Mica devo tagliare le vene. Una leggera pressione. Come le unghie di Katia. Minchia, Katia, non sei mai venuta una sola volta a trovarmi. Ti facevo godere come un animale e non hai speso un minuto per venirmi a trovare in carcere. O forse, anche se avessi voluto, non ti hanno fatta entrare. Luca, non ho più nessuno. Se non questa lametta che preme sulla pelle. Che incide la carne. E cazzo, e il sangue dov’è? Non esce nemmeno il sangue. Non ho più sangue. Devo premere di più. Ma non troppo. Solo un poco di più. Eccolo che sgorga. Allaga prima il solco. Lo riempie di rosso. Rosso vivo. Gocciola per terra. Ma quelli mica vengono per un taglio. Di tagli ne servono tanti. Luca, dammi la forza. Mi resteranno gli avambracci striati come la schiena di una tigre. O la pelle di un pezzente. Appunto. Ho sempre pensato che ridursi così per ottenere l’attenzione delle guardie fosse roba da pezzenti. Luca, ricordati che lo faccio per te. Che non sono un pezzente. Che cerco solo di sopravvivere. Minchia, ora gocciolo come la madonna dei miracoli. Sangue dalla fronte e sangue dalle braccia. Bastardi, non viene nessuno.

Guardieee.

Sento le forze andarsene. Luca, porca puttana, non mi abbandonare. Mi stai abbandonando anche tu. Certo, lì dove sei hai ritrovato Ghiaccio, hai ritrovato tuo padre. Adesso che cazzo te ne frega di me? Mi gira la testa. Mi sento vuoto. Forse dovevo mangiare oggi. Non mangiare fa male, Luca. Mi sento la vita uscire dalle braccia. Forse ci ho messo troppa pressione. È buio, Luca. Anche la luce si è spenta. C’è nebbia. Ecco come fanno per ammazzarmi. Non sprecano nemmeno una pallottola. Fa sempre più freddo. Luca, Luca…

Sento le voci. Adesso le sento. Sono dentro la cella. Sono intorno. E bravo coglione che sei, Rocco. Se volessero ammazzarti, non avresti nemmeno la forza di guardarli in faccia. Senti le voci e non riesci a riaprire gli occhi. Pesano. Pesano troppo. Ti stanno sollevando di forza. Ti stanno mettendo su una barella. Bastardi. Ho passato un giorno a chiamarvi. Ho dovuto aspettare un giorno e una notte. Mi sono dovuto trasformare in un pezzente per ottenere il vostro ascolto. E quanto mi avete lasciato per terra a sanguinare? Fanno tutto loro. Automaticamente. Chissà quanti ne raccolgono ogni giorno di detenuti che si sono tagliati. Gridano. Imprecano contro di me. Voi imprecate contro di me? E io cosa vi dovrei fare? Bastardi. Ho due mani addosso. Sento le dita sulla pelle. Sento tutto. Le dita avvolte in un telo che si appiccica alla fronte. Sta toccando la ferita sulla fronte. Mi fai male, bastardo. Forse sono dita avvolte nei guanti. Il lattice, sì. Guanti in lattice. Come quelli che indossavano gli sbirri la sera che ti hanno toccato, Luca. Un pennello freddo passa sulla pelle. Qualcosa di liquido scivola dalla fronte. Il pennello adesso scorre sul polso destro. Sull’avambraccio. Sull’incavo del gomito. Sul bicipite. E poi ancora sul polso sinistro. Sull’avambraccio, l’incavo, il bicipite. Che puzza. Disinfettante. Mi stanno pennellando di disinfettante. Disinfettano il detenuto infetto. Se solo riuscissi a riaprire gli occhi. A capire. Nessuno parla più. Non ci sono più voci intorno. Soltanto il bagliore di una luce. Anche il pennello se n’è andato ora. Anche i passi che lo accompagnavano da una parte all’altra del mio corpo. Anche il respiro caldo quando il liquido mi ha ricoperto la fronte. Il respiro dell’infermiere, penso. Minchia Luca, non ce la faccio più. Non riesco più nemmeno ad aprire gli occhi. Ho nausea. E se ricomincio a guardare fuori, la nausea aumenta. Ma devo guardare fuori. Devo trovare la forza di guardare fuori di me.

Dormo. In cella non c’è altro da fare. Mi sento a pezzi. Smontato. Forse mettono bromuro nella brodaglia che mi passano. Mi annientano così. Ancora non so che giorno è. Fa meno freddo. Le giornate si allungano. Ma distinguo soltanto il giorno dalla notte. Non voglio dare nessuna soddisfazione agli sbirri. Non voglio chiedere che giorno è. Me ne fotto. Per me c’è un solo giorno, Luca. Quello in cui vedrò morire chi deve morire. Ho sete. L’acqua che esce dal rubinetto fa schifo. Puzza di piscio. Oppure è la mia bocca che puzza. Vivo di Valium. E ogni volta che finisco il flacone, ogni volta che le guardie non rispondono alla mia voce, devo fare il pezzente. Le mie braccia sono ricoperte di cicatrici. Le guardo. Per ciascuna c’è un giorno, una notte, un grido, una crisi. Luca, minchia, sento di essere davvero in crisi. Ogni giorno rinvio la decisione. È lì che si affaccia. Che preme. Che vuole esplodere come fosse un gesto d’amore. Ma è una decisione che fa paura. Luca. È un suicidio. So cosa lascio, non so cosa trovo. Se non posso imbracciare il kalashnikov, Luca, devo scegliere altre armi. La mia missione è la vendetta. Non importa come. E tu lo sai. Ma non mi appari più nei sogni. Non ritorni più, Luca. Mi hai lasciato solo. E io qui, solo, non riesco a dare un senso alla mia vita. Sto impazzendo, vedi? Comincio a credere che la vita debba avere un senso. Certo che ce l’ha. Meglio vivere un giorno da leoni, che una vita da conigli, ricordi? Io non posso essere un leone in gabbia. I leoni non stanno in gabbia. Io da qui devo uscire, Luca. Ricordati, qualunque cosa faccia, la faccio per te.

Ma mi fa troppo male la testa per fare qualsiasi cosa. Non riesco nemmeno a fare ginnastica sul pavimento. Non ho più la forza di fare le flessioni. Ho le braccia rammollite. Il cervello in pappa. Non riesco più a pensare. Sono in mezzo a un guado. E devo togliermi di qui, prima che arrivi la piena. Il guado, e bravo Rocco, bella immagine. Sei in mezzo a un fiume in secca. Minchia, parlo da solo ormai. Qui dentro parlo da solo. Ho bisogno di far uscire la mia rabbia, Luca. Ho bisogno. Ho perso ogni punto di riferimento. I tuoi amici, i nostri amici ci hanno traditi, Luca. Abbiamo una missione. Tu fammeli trovare e io te li porto. Nel senso che, ammazzandoli, te li faccio arrivare dove sei tu. Ho bisogno di esplodere. Ormai non mi tranquillizza più nemmeno il pensiero di Katia. Nemmeno infilarmi la mano nelle mutande e pensare a lei mi calma. Tutto il mio corpo si è rammollito. Troppo Valium. Devo esplodere. Devo trovare la forza di fare uscire la rabbia che ho dentro. Altrimenti tanto vale uccidersi, Luca. Tanto vale. Perché tu non ci sei più. Non mi rispondi più. E no, non mi uccido. Prima porto a termine la missione. Ma non ce la faccio. Minchia, Rocco, non piangere. Parli da solo e ti viene da piangere.

Indietro. Indietro, indietro.

Fanno l’appello. Aprono la blindata.

Guardia.

Che c’è?

Voglio carta e penna. Una busta, il bollo, la carta e la penna.

Una busta, il francobollo, la carta e la penna, ripete quello.

Subito.

Certo, subito, agli ordini comandante, ripete l’agente.

E vaffanculo anche te. Me ne sto sdraiato sul letto da ore e ti mando beatamente affanculo. Questo è il bello del carcere. Puoi mandare affanculo un agente e nessuno ti minaccia di sbatterti in galera. Ci sei già, in galera. Certo, lo mandi affanculo con il pensiero. Perché se glielo dici quello si offende. Magari ti denuncia per oltraggio. Oppure ritorna con i colleghi più grossi e ti mena. Vaffanculo, vaffanculo. Non ne posso più, Luca. Anche gli sbirri mi prendono per il culo. Meglio dormire. Ora devo dormire.

Se solo avessi messo via qualche soldo. Ero quello che aveva più soldi in quella minchia di Fortino. Quello che faceva fuori venti pezzi, venti grammi di coca dalle dieci a mezzanotte. E adesso guarda come sono ridotto. Che ore saranno? Il vetro della finestra è nero. È buio fuori. Ma fa fresco come se fosse mattina. Il buio poco prima dell’alba. Ho dormito con la luce accesa. Dormo sempre con la luce accesa negli ultimi tempi. Da quando hanno toccato tuo padre, Luca, ho paura del buio. Ho sete. Che schifo di sapore che ho in bocca. Starò marcendo dentro. Come i grissini di San Vittore. Si comincia a marcire dal respiro. Devo bere. Acqua che sa di piscio. Sa sempre di piscio, quest’acqua. Esce un filo sottile come se arrivasse direttamente dal cesso. E che minchia c’è sul tavolo? Due fogli bianchi. Una biro. Una busta con il francobollo già appiccicato. E bravo minchione, Rocco. Sono entrati gli sbirri e non te ne sei nemmeno accorto. Quelli sono arrivati ieri sera con il contrappello. Uno. Non mi hanno nemmeno svegliato. O se l’hanno fatto, non me lo ricordo. Carta e penna. Devo scrivere. Le parole mi escono dalle mani. Devo farlo. Luca, ricordati, faccio tutto questo per te. Fa freddo. Mi tiro la coperta sulle spalle e mi siedo a scrivere.

Parma. No, carcere di Parma. E che giorno è oggi? Minchia, non so nemmeno che giorno è oggi. Lo chiederò agli sbirri quando faranno l’appello. La data la metterò dopo. Sì, non si parla con gli sbirri. Ma mi serve la data. È importante la data. Caro dottore, lei sicuramente si ricorderà di me…

Mi fa male il polso a forza di scrivere. Manca solo la mia firma, adesso. Ecco. E la data. Ma che minchia di giorno è? Aprono già lo spioncino. È l’ora dell’appello.

Guardia.

Indietro, grida la guardia là fuori.

Aprono il cancello. Bastava lo spioncino.

Si metta in piedi, vicino al tavolo, facciamo un controllo, dice lo sbirro entrato per primo.

Guardia, che giorno è oggi?

Un giorno uguale a tutti gli altri, risponde quello mentre due suoi colleghi restano a vigilare sulla porta.

Devo mandare una lettera al mio avvocato, mi serve la data.

Mercoledì 30 marzo 1994.

Bastava il giorno. Posso muovermi? Scrivo la data sulla lettera e chiudo la busta.

Il suo bagaglio è tutto qui?

E dove dovrebbe essere?

Rocco, è da quattro mesi qui dentro e finalmente sento che ha una voce. Mi dia la lettera. La portiamo noi all’ufficio posta. L’indirizzo è completo? Ah, la manda alla questura di Milano, osserva lo sbirro dopo aver letto sulla busta.

Non mi ricordo l’indirizzo dell’avvocato, penseranno loro a girarla a lui.

Ho capito. Buona giornata.

Lo sbirro è il solito agente che sorveglia il corridoio. La faccia sbarbata, la pancia di chi mangia più del dovuto, i capelli un po’ lunghi sul colletto della divisa. Minchia, ho parlato con uno sbirro. Ho dovuto farlo. Ho dovuto chiedere aiuto a uno sbirro. Altrimenti come facevo a spedire la lettera? Adesso può succedere di tutto. Il rettangolo della finestra è illuminato dal sole. Può davvero succedere di tutto, Luca. Se non mi ammazzano prima, vedrai di cosa è capace il tuo amico Rocco. Ha visto l’indirizzo, lo sbirro. Ma secondo me ha la faccia del bravo ragazzo. Non mi tradirà. Alla peggio muoio. Ma se non muoio, vedrai Luca.

Passano i giorni e non succede nulla. Ho ripreso a contarli. Un graffio sul muro con l’unghia del pollice. Uno per ogni giorno. Dal 30 marzo, dalla mattina in cui ho scritto la lettera, sono dieci graffi.

Indietro, grida la solita voce davanti alla porta blindata.

La aprono. Entrano due sbirri. Due restano sulla soglia.

I polsi, ordina l’agente con la pancia e i capelli lunghi sul colletto della divisa.

Salto giù dalla branda. Mi metto le scarpe. Gli porgo le braccia in modo che legga bene. Chiudi sbirro. Lui legge. Sorride. Sorride sempre quando legge il mio tatuaggio. Chiude le manette. La sinistra. Poi la destra.

Fanno male?

No, va bene. Dove andiamo?

La aspettano alla sala udienze.

Visite?

Questo non lo vengono a dire a me. Andiamo.

Occhi bassi, Rocco. Tieni gli occhi bassi. Fai la faccia incazzata. Occhi bassi e faccia incazzata. Dalle celle non devono vedere che sei tranquillo. Sei in mezzo agli sbirri, Rocco. Uno come te non può avere la faccia tranquilla se cammina circondato dagli sbirri. Il corridoio non finisce mai. Gira a destra. Gira a sinistra. Le scale. Giù. Su. Sguardo basso. Nemmeno gli occhi degli sbirri devi incrociare. Tra loro potrebbe esserci qualche puttana che se ti vede tranquillo, si vende subito l’ambascia che sei tranquillo. Invece no. Occhi bassi e faccia incazzata. Aprono una porta. Porgo le braccia perché mi tolgano le manette.

No, quelle le tiene, dice uno degli sbirri.

Mi lasciano in piedi accanto a una sedia in mezzo alla stanza. Due uomini mi stanno aspettando seduti davanti a una scrivania. Sono vestiti bene. Giacca e cravatta. Uno ha la barba lunga. La faccia rotonda. I baffi folti. I baffi sono più fitti della barba. È lui. Di solito ha soltanto i baffi. La barba non l’ha mai avuta. L’altro ha la pelle rasata di fresco. Uno che si rade tutte le mattine. Sull’attaccapanni sono appesi un soprabito e un giaccone leggero. Sono i loro, penso. Segno che fuori l’aria è un po’ più tiepida. È primavera. La mattina fa ancora freddo. Come sempre in aprile. Ma di giorno il sole riscalda. Minchia, Rocco, sei diventato anche un meterologo, meteorologo, come minchia si dice? Non vedi il cielo da mesi e riesci a capire che tempo fa da un soprabito e un giaccone. Ti manca l’aria fresca, Rocco. È per questo che sei attento a certe cose. Mi guardano. E non avete mai visto un detenuto? Ho una tuta blu e rossa addosso. Pantaloni blu e felpa rossa. Scarpe da ginnastica. Vi piace come sono vestito? Sembro uno che fa sport tutti i giorni. Sono magro come uno che fa sport tutti i giorni. Ma non faccio sport tutti i giorni. Non faccio sport e basta. È il Valium. Bevo Valium. Dormo. E mi dimentico di mangiare. Allora, perché mi avete fatto chiamare? Mi guardano e non parlano.

Prego, potete attenderci fuori, dice all’improvviso quello con la faccia rasata ai due sbirri rimasti di guardia. Aspetta che escano. Richiudono la porta.

Buongiorno Rocco, saluta quell’altro con la barba, siediti pure. Tranquillo.

Buongiorno dottore.

Abbiamo letto la lettera, dice il dottore della sezione Omicidi. Come ti senti?

Sto bene.

Ti presento il sostituto procuratore che sta coordinando le indagini sull’omicidio di Luca e sulle vicende legate al Fortino, continua il dottore e pronuncia il nome del magistrato. Ti faremo qualche domanda.

Prima di tutto ci tengo a dirle che abbiamo apprezzato la sua decisione di scriverci, esordisce il magistrato. Ho letto nella lettera che lei fa un elenco di argomenti sui quali potrebbe collaborare.

Sentire quel verbo fa lo stesso male di una lama nello stomaco. Collaborare. È la prima volta che associo la mia lettera alla collaborazione. Nel senso cioè che le danno gli sbirri. È la prima volta che qualcuno mi dice che potrei essere un collaboratore. È come se sciogliessi un matrimonio. È come se uscissi dalla famiglia che mi ha cresciuto e trasformato in un uomo. Non una famiglia fatta di un padre e di una madre. Ma fatta di amici. Di complici. Di regole ferree. Ma bravo Rocco. E dov’è tuo padre? Non ce l’hai. Dov’è tua madre? Come se non ci fosse. Dove sono gli amici? Li hanno uccisi. E i complici? Hanno tradito. E le regole? Vadano a fanculo le regole, Rocco. Sono le regole ad avermi portato qui. Collaboratore. Pentito. Infame. Infetto. Sono la stessa cosa. Luca, tu non mi chiami più. Mi hai lasciato solo. Tu uno come me l’avresti ammazzato. Io uno come me l’avrei fatto a pezzi. In nome della strada, del Fortino, dell’onore. Ma io sto facendo tutto questo per te, Luca. Non dimenticarlo. Solo per te. L’unico sollievo è quel potrebbe. Gli argomenti su cui potrebbe collaborare, ha detto quello con la faccia rasata. Significa che non mi considerano ancora un collaboratore. Ma uno che potrebbe collaborare. Potrei ancora rifiutarmi. Posso ancora tornare indietro. Ma poi, Rocco, quali altri strumenti avresti? Credi ancora di farcela da solo contro il Calabrese, contro i Compari? Ecco, mi sono perso la domanda del magistrato.

Riesce a seguirmi? Le ho chiesto se ci ha pensato bene, ripete il sostituto procuratore.

Sì, ci ho pensato bene.

Lo saprà che ci sono dei pericoli, continua lui. Lei sta scontando una condanna a tre anni e quattro mesi per lesione personale aggravata, con sentenza divenuta definitiva, per avere sparato la sera dell’11 dicembre di tre anni fa a…

A quella pu… Ad Alex…

Sì, ed è quasi arrivato al termine della pena. Tra poco tornerebbe in libertà comunque. Non intendo scoraggiarla, ma desidero farla riflettere sui rischi che la sua decisione comporta. Lei conosce bene l’ambiente in cui ha vissuto…

Ho deciso.

Posso chiederle cosa l’ha spinta a decidere, insiste il magistrato, quali sono le sue motivazioni?

Voglio vendicare la morte di Luca.

Pensavo avessero un sussulto. Invece restano impassibili. Gli occhi fissi dentro i miei. Le gambe accavallate. Nessun taccuino su cui scrivere. Credevo prendessero appunti. Altrimenti cosa le racconto a fare le cose che so. Ma sembra che loro non vogliano sapere le cose che so. Almeno non per ora. Vogliono capire perché ho deciso. Sì. Ho deciso. E quando l’ho detto, ho pronunciato le due parole con il cuore. Proprio con il cuore. Ho deciso. La testa ci stava ancora pensando. Alla domanda del magistrato ha risposto il cuore. Tanto che ha sorpreso anche me. Forse posso ancora ripensarci. Ma alla fine, Rocco, se ci pensi e ci ripensi, cosa cambia? Uno: ti sei messo in cella con il padre di Luca. Due: ti hanno visto in mezzo agli sbirri e tra un po’ nel carcere tutti sapranno che hai incontrato il sostituto procuratore che indaga sull’omicidio di Luca. Tre: non ti sono rimaste altre armi se non la legge. Minchia, Rocco, ormai pensi come uno sbirro.

Si spieghi meglio, Rocco, dice il dottore della squadra Omicidi.

Ci provo. Sono dell’idea che anch’io dovevo morire quella sera con Luca. E se non è stato così, è perché io dovevo concludere il compito. Le dico la verità, dottore… Io volevo ucciderli. Volevo aspettare di uscire dal carcere per ucciderli. L’unica cosa che avevo in mente era solamente finire la mia carcerazione. Per poi uscire, morire anch’io per portarmene tanti con me. Solo che allo stesso tempo pensavo che non si può fare una guerra quando sai già che è persa in partenza. Perché purtroppo non ho i soldi per comprare le armi. Non saprei come fare. Ho troppi nemici. Sono completamente solo. Non sono in una posizione di vantaggio per fare quello che avrei voluto.

Il dottore e il magistrato mi guardano in silenzio.

Alla fine, continuo a spiegare, quello che ho pensato, riflettendo sempre con il tempo, perché questo è il terzo anno che sono in galera, alla fine ho pensato che ciò che voglio è fare giustizia. Voglio fare solamente giustizia. Anche perché ammazzarli non restituirebbe la vita a Luca. No, non devono morire. Devono rimanere in vita per soffrire. E basta. Per questo ho deciso di…

… collaborare, conclude la frase il dottore della sezione Omicidi. E per un istante vorrei correre via da questa sedia, da questa stanza, da questa lama di gelo che sento infilarsi dentro tutte e due le mani.

Poi però… Ma forse le domande me le dovete fare voi.

No, continui pure Rocco, dice il magistrato.

Voglio spiegarmi meglio. Voglio dire che queste sono bestie. Uccidendo delle bestie, avrei perso punti. Se ammazzi un nemico che stimi no, non perdi punti. Ma queste sono bestie. Però poi via via ho capito che non poteva essere soltanto una vendetta. All’inizio lo era. Ora non più.

Vedo che il dottore fa un respiro profondo. Forse è sollevato dalla mia conclusione. Il magistrato continua a guardarmi negli occhi. Il suo nome l’avevo letto sul giornale. È uno di quelli che i mammasantissima vorrebbero ammazzare. Se lo facessi io adesso, mi riscatterei. Non sarei più un nemico. E forse incasserei la taglia che la ’ndrangheta ha messo sulla sua testa. Ma no che non lo faccio. Non ci penso proprio. Caro sostituto procuratore, sei l’arma più potente che possa avere a disposizione. È dura dirlo. Ma non ho alternative. Posso avere la legge dalla mia parte ora. I nemici si uccidono, sì. Le bestie no, si mettono in gabbia. E io farò in modo che vi rinchiudano per sempre. Loro due continuano a fissarmi. Stanno studiando ogni mia smorfia. Hanno ragione. Non riesco a stare fermo con le mani.

Posso aggiungere una cosa?

Prego, Rocco, annuisce il sostituto procuratore.

Voglio anche dirvi che di quello che è stato il mio passato, io non ne do colpa a nessuno. A nessuno. Proprio a nessuno. Sono stato solamente io: uno stupido ragazzino e basta, che credeva in cose che non avevano né testa né coda. Non posso dire che abbia fatto quello che ho fatto per colpa di quello, per colpa di questo, per colpa di quell’altro. Sarebbe solo una stronzata. Sono cose che… Erano valori in cui io credevo e portavo avanti con determinazione. E basta. Non voglio fare la vittima, questo voglio farvi sapere. Non voglio dirvi che mi hanno messo in mano armi, che mi hanno detto ciò che dovevo fare. No, io non vi racconterò questo. Erano cose che a me stavano bene. Ci credevo. Le ho fatte perché ci credevo. Ora non ci credo più.

Mi gira la testa. Ho la fronte sudata. Sento freddo. Il Valium. Ho bisogno di Valium.

Scusatemi, sono così distrutto che non vorrei nemmeno dirle queste parole. Ma spero mi abbiate capito.

Abbiamo capito. Non ti preoccupare, adesso ti lasciamo, dice il dottore della sezione Omicidi.

Sì, per oggi è sufficiente, aggiunge il magistrato. In questi giorni il dottore e io pianificheremo le date degli interrogatori e le domande che le faremo. Dobbiamo studiare gli argomenti di indagine, anche per valutare l’attendibilità della sua collaborazione. Lei ci rifletta. Può ancora ripensarci. Se confermerà le sue intenzioni, avremo molti incontri immagino. A proposito, è sempre in cella di isolamento?

Da quando sono qui, sono in isolamento.

Da solo, intendo.

In cella da solo.

Mi riportano in gabbia. Occhi alti, Rocco. Adesso tieni gli occhi alti. Fai vedere a tutti che sei fiero di te stesso. Che sei pronto a sfidare chiunque. Che non hai paura di nessuno. Nemmeno di questi quattro sbirri che ti accompagnano. Fai vedere chi sei, Rocco. Ma minchia, sto diventando un infame. Luca, un infame. Uno così tu lo avresti ammazzato. Mi avresti ammazzato, Luca. La cella. È un posto sicuro la cella. I polsi che si liberano delle manette. La porta blindata che sbatte. La chiave di ferro che gira dentro la serratura. Il rettangolo di luce in alto, in mezzo a questa parete che mi schiaccia. Luca, come mi reputi? Mi manca l’aria. Come puzza l’aria qui dentro. Il magistrato e il dottore profumavano. Ho annusato finalmente un odore diverso. L’odore buono di fuori. Ma resto un infame. Un infetto. Un appestato. Ti ricordi Luca, quando ci avevi detto che i pentiti sarebbero stati come la peste? Che prima o poi tutti saremmo stati contagiati. Anch’io ho la peste, Luca. Il Valium. Fanculo, non c’è acqua. Fanculo il Valium e la peste. Me lo bevo senz’acqua. Me lo devo bere a canna dal flacone. Che schifo. Luca, io sto facendo tutto questo per te. Mi gira tutto. Ho sonno. Ricordatelo Luca. E ricordamelo.

Gli incontri in carcere sono finiti. Ne abbiamo fatti quasi uno a settimana. Hanno capito che non li sto fregando. Mi hanno perfino tolto le manette. Mi guardavo le mani, la prima volta che me le hanno aperte. Mi guardavo le mani libere, grandi. E pensavo che avrei potuto aggredire il magistrato e il dottore della sezione Omicidi. Avrei potuto strangolarli e avrei guadagnato punti. Ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perché non sono più la stessa persona. Così adesso si va a Milano. Da due settimane mi portano a Milano per gli interrogatori. Direttamente in Procura. Sesto piano, in una stanza della Direzione distrettuale antimafia. Così mi hanno detto che si chiama. Ogni volta parlo davanti al magistrato e a una magistrata. Il dottore della sezione Omicidi non sempre c’è. Mi scortano come se fossi il presidente. Più del presidente della Repubblica. La macchina che mi porta. E un’altra macchina al seguito. Entriamo a parcheggiare nel sotterraneo del Palazzo di giustizia. Due agenti armati mi stanno sempre vicino. Un altro, ma a volte sono due, ci precede e apre le porte dove dobbiamo passare. Ad esempio, se c’è da attraversare un corridoio dove c’è gente, quello cammina davanti a noi. Guarda a destra e a sinistra. E spesso si volta a guardarmi. Perché il mio ruolo è fondamentale. Se vedo qualcuno che conosco, che potrebbe essere una minaccia, devo dirglielo subito. Dobbiamo cambiare percorso subito. Se c’è da prendere un ascensore, è lui a chiamarlo, a entrare per primo, ad assicurarsi che non ci siano sorprese. Se qualcuno vuole ammazzarmi, loro rischiano la vita. Non avrei mai immaginato che qualcuno potesse rischiare la sua vita, la sua, per proteggermi. Prima a queste cose ci pensavo io. Nel Fortino ognuno doveva pensare alla sua protezione.

L’interrogatorio oggi finisce prima. Strano che mi abbiano portato a Milano per un’ora soltanto di chiacchiere. Da Parma a Milano è un’ora e mezzo di autostrada. Corriamo come pazzi. Con il lampeggiante blu acceso. Sono macchine civetta con il lampeggiante a calamita. Non quelle con la scritta polizia sulle portiere. Una macchina davanti. L’altra dietro. A volte sono davanti io. A volte no. Quando serve, mettono anche la sirena. Interrogatorio finito. Tutti in piedi. Lasciamo l’ufficio della magistrata. Attraversiamo il corridoio fino alla stanza della polizia giudiziaria. Io non riesco a camminare come loro. Come gli sbirri. Passo deciso. Testa alta. Le due pupille sempre in movimento. Le braccia larghe a fermare o a far cambiare traiettoria a chiunque casualmente si avvicini. E io in mezzo. Impacciato. Con il cappellino da baseball tirato giù sugli occhi. Le scarpe un po’ larghe. Jeans, maglietta rossa e felpa grigia. Mi hanno anche trovato i vestiti. Da anni non mettevo che tute da ginnastica. Ma è la visiera del cappellino la cosa più importante. Visiera bassa fin quasi sopra il naso. Così non vedono chi sono. Mi sento un agente segreto. Un infiltrato. Luca, chi cazzo sono?

Gli sbirri di scorta infilano una scheda di plastica nel lettore magnetico messo al posto della serratura. La porta del loro ufficio annuncia l’apertura con uno scatto secco. Mi fanno sedere in fondo alla stanza, vicino alla finestra. Un panorama di tetti ingrigiti dallo smog. Milano dall’alto. E in mezzo l’oro della Madonna sulla guglia più alta del Duomo. Da ragazzini pensavamo di rubarla, ti ricordi Luca? Di rubare tutto quell’oro. E fonderlo in lingotti. Oppure chiederne il riscatto. Una notte avevamo fatto anche il sopralluogo. Così, per ridere. Era evidente a tutti che sarebbe stato un piano impossibile. È ancora lì. Risplende di giallo nel sole intenso del pomeriggio. Bel panorama. I pedoni. Il tram sulla corsia preferenziale. Luca, la corsia preferenziale su cui mi hai battuto la mattina… La tua ultima mattina. Il traffico. Guardo il più lontano possibile per allenare i muscoli degli occhi. Anni di cella ti accorciano la vista. Anche gli occhi si rattrappiscono. E quando corriamo su e giù in autostrada, tra Parma e Milano, non vedo niente. I finestrini posteriori sono oscurati. Solo ombre, sagome. Spesso mi viene quasi da vomitare a non poter guardare fuori.

Si sta bene, seduti a guardare dalla finestra. A parte l’aria condizionata a manetta. Una stanza grande. Uno sbirro a ogni scrivania. Scrivono al computer. Due leggono le loro carte. I miei, i quattro agenti che mi proteggono, parlano tra loro sottovoce. Se la ridono. Il caposcorta dice qualcosa ed esce. Gli altri restano lì dove sono, in piedi vicino all’attaccapanni. Qui dentro non ci sono soltanto sbirri. Nel senso di poliziotti. Ci sono anche carabinieri e guardia di finanza. Non li distingui, però. Sono tutti vestiti in borghese. I tavoli e gli armadi di ferro lungo tutte le pareti traboccano di fascicoli. Quintali di verbali raccolti dentro cartellette azzurre o gialline. Ne ho viste passare anche di rosse. Non so che differenza faccia. So solo che se potessi nascondermi qui dentro una notte a leggere, avrei in mano le indagini antimafia di mezza Italia. Minchia, Luca, pensa quanti soldi farei. Aprirei un ufficio. Verrebbero da me i mafiosi più famosi. Posso sapere se verrò arrestato? Certo compare, prima i soldi poi le notizie. Chi è il pentito che mi accusa? Ecco qua, signore, ma prima si paga. E no, Luca, se uno così esistesse davvero, farebbero fuori anche me. Ce n’è così tanta di carta che hanno dovuto mettere un armadio davanti a metà finestra. Per fortuna è una di quelle grandi. A tutta parete. Di luce ne entra abbastanza per tutti.

Rocco venga che andiamo, dice il caposcorta appena rientrato nella stanza. Ha portato il regalo?

Lo porto sempre con me il regalo, gli rispondo e gli sorrido.

Il magistrato ha detto che oggi si può fare, aggiunge. E sorride anche lui.

Il solito schema. Uno davanti a controllare il percorso. Io in mezzo agli altri. Giù a passo svelto. Questa volta per le scale. Fino al sotterraneo. Fino alla macchina blindata. Ci buttiamo nel traffico. Non ho nemmeno voglia di guardare fuori. Cerco di addormentarmi. Tengo gli occhi chiusi. Ma sento tutto. Sento loro che discutono della selezione della Nazionale per i prossimi Mondiali di calcio. Negli Stati Uniti, giocano. Sento la radio che fa strani rumori. Non è la radio delle canzonette. È la ricetrasmittente della polizia. Mi hanno spiegato che ogni volta che usciamo abbiamo una frequenza tutta per noi. La frequenza delle scorte. Mi dà troppo fastidio la luce. Non ci sono più abituato. Penetra negli occhi con il suo pugno di spilli. E poi il caldo. In cella si muore di caldo. Fuori però è ancora peggio. L’estate si annuncia pesante quest’anno, dicono gli sbirri seduti accanto a me. I due di sempre. Più i due sull’altra auto. Più i due autisti. Sei agenti, oggi. A volte sono cinque.

Rocco, forza, si è addormentato proprio adesso?

Il caposcorta se ne sta in piedi fuori della macchina, con una mano sulla portiera aperta. Faccio in tempo a notare che altri due agenti rivolgono le spalle a lui e si guardano intorno. Ne manca uno.

Voi rimanete qui, pronti a partire, ordina il caposcorta ai due autisti. Non si sa mai, aggiunge sottovoce.

Lo sbirro che manca è sicuramente andato avanti a controllare. Il caposcorta mi tiene gentilmente vicino a sé. Gentilmente vuol dire che la sua mano destra non molla il mio braccio sinistro. Che occasione sarebbe. Tre anni fa, con Luca e Ghiaccio ancora vivi, vi avrei detto marameo. Sarei scappato e vi avrei fatti fessi. Sei proprio cambiato Rocco. Adesso te ne stai pigiato contro il braccio robusto dell’uomo che per proteggerti è pronto a farsi ammazzare. Non mi ha nemmeno messo le manette ai polsi. Non c’è stato bisogno di parlarci. Sa bene che, anche se le mie mani sono libere, anche se sono momentaneamente fuori dal carcere, vivo costantemente dentro la gabbia che mi sono costruito attorno. Sa bene, il caposcorta, che lontano da lui, lontano da loro, ovunque possa arrivare, sono morto.

Viene incontro lo sbirro entrato per primo a controllare. Dice che tutto è a posto. Ci fa strada tra i viali di ghiaia. Gli altri due ci seguono a distanza. Non c’è nessuno vicino. A parte i due becchini che prendevano il fresco nell’ufficio all’ingresso. Il sole fa gocciolare la fronte. Ho la felpa addosso, ma non mi va di toglierla. Lo sbirro davanti a tutti si ferma all’improvviso. Guarda in basso. Un mazzo di rose cotte e sbiadite dal sole. La foto. Hai la faccia sorpresa. Da schiaffi, come sempre. Chissà a cosa stavi pensando quando ti hanno scattato la fotografia. Forse è la stessa faccia che hai fatto quando ti hanno sparato. Minchia, sei qui sotto Luca. Che ci fai qui sotto? Al tuo posto vorrei esserci io. Ti ho portato un regalo. È un rosario di ceramica. Te lo metto vicino alla foto. L’hanno fatto in carcere i detenuti ammessi al lavoro. No, non io Luca. Ti immagini il tuo tirapiedi mentre lavora la ceramica e la cuoce nel forno? Mi ha aiutato uno sbirro della scorta ad averne uno. Ho chiesto io di farmi portare qui. Mi hanno fatto aspettare. Ma sono stati di parola. Esistono anche gli sbirri di parola, sai. E non mi guardare così. Lo sai che non sono diventato uno sbirro. Sto soltanto chiedendo giustizia contro quelli che ti hanno tradito. Non pensare che sia io l’infetto. Ma tu torna. Sono settimane che non ti sogno più.

La mano del caposcorta appoggiata piano sulla mia spalla stabilisce che il tempo è scaduto.

È meglio andare via, sussurra.

Torniamo alle macchine. Non appena ci vedono ritornare, i due autisti riaccendono i motori. Ci hanno aspettato nel parcheggio deserto, davanti al muro rosso che separa il cimitero dal resto della città. Sbattono le portiere pesanti. L’ultimo a salire è il caposcorta. Si siede accanto all’autista. Si volta un istante.

Grazie, gli dico.

Lui sorride. Si va di corsa in tangenziale per prendere l’autostrada del Sole. Giù a centosessanta all’ora sotto la luce blu del lampeggiante. Tutta corsia di sorpasso. Fino al casello di Parma. E poi dentro il carcere di massima sicurezza.

Adesso mi danno anche l’ora d’aria. Ovviamente in momenti diversi dagli altri e un po’ in disparte. Sono un infetto a tutti gli effetti, ormai. Per un po’ l’ho rifiutata, l’aria. Ma fa sempre più caldo e ho bisogno di respirare. Stamattina prima di accompagnarmi in cortile, una guardia mi ha consegnato una lettera. Ha il timbro postale di Milano. Non è profumata. Non è una ragazza. Ma chi minchia mi deve scrivere una lettera? Ecco la firma. Mio cugino. E perché mio cugino dovrebbe scrivermi in carcere? L’ha spedita a inizio giugno. Ha impiegato pochi giorni ad arrivare.

Caro Rocco, spero tu sia in buona salute. Fuori non abbiamo notizie di te. Così spero che ti recapitino questi miei saluti. Ti scrivo anche perché lo Zio ha preso una strada che non ci piace. Come saprai, ha deciso di collaborare. Sì, lo Zio è diventato un pentito. Lo stanno sentendo in un processo che è a cuore di chi puoi immaginare. Tu, se hai occasione, nei tuoi colloqui con la Procura, dovresti raccontare chi è veramente lo Zio. Dovresti dire come da piccolo ti picchiava. Ce lo ricordiamo ancora come ti picchiava lo Zio. Non ti voleva bene e quando eri piccolissimo, forse tu nemmeno te lo ricordi, proprio lo Zio ti ha buttato dal balcone. Adesso tu puoi fare molto per fermarlo. Ad esempio potresti firmare una delega perché io possa andare a ritirare la cartella clinica del tuo ricovero in ospedale, all’epoca della tua caduta dal balcone. Non è bene per nessuno se i magistrati si fidano di uno come lo Zio. Devono sapere che hanno a che fare con una persona squilibrata. E chi meglio di te può testimoniare questo? Sarai sicuramente d’accordo con me. Ti auguro ogni bene. Ti salutano tutti gli zii.

Fanculo anche a mio cugino. Lo Zio, suo zio, ovviamente è mio padre. Il fratello di sua madre. E gli zii che mi salutano sono i capi, Pepé e la sua famiglia. Così tu vuoi che io faccia passare mio padre per un malato di mente. Che dica che è uno squilibrato. Papà, anche tu ti sei cacciato in un bel guaio. Forse l’hai fatto perché l’ho fatto io. Ma io avevo un compito da concludere. Tu no. Tu non mi vedi e non mi senti da anni. Tu te la potevi sfangare. So che può essere un disonore nella famiglia essere padre di uno come me. Non ti avrebbero ammazzato, però. Non si ammazza uno che non sente suo figlio da anni. Tu con me, con mia madre, sei rimasto pochi mesi, fino al giorno in cui ti sei incazzato per i fatti tuoi e mi hai buttato giù dal balcone. Se sei diventato anche tu un infetto, è perché ci credi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Ma se l’hai fatto, avrai le tue ragioni. E allora, cugino mio, ti rispondo subito. Così. A pezzetti. La tua lettera la faccio a pezzetti e la imbuco immediatamente. Dove minchia era il tombino della fogna? Guarda Luca, cosa faccio. Vedi questa griglia di cemento? Pezzetto dopo pezzetto. C’è dell’acqua sul fondo. L’inchiostro sbaverà. La carta si scioglierà. Come possono pensare che io faccia ammazzare mio padre? Anche se non lo vedo da anni, è mio padre. Perché certo, se dico che è uno squilibrato. Che quando ero piccolo si è incazzato al punto da lanciarmi dal balcone… Uno che ha tentato di ammazzare suo figlio non sarà mai credibile. Ecco, se faccio passare questa storia, ti toglieranno la protezione. Prima o poi ti rimetteranno nel circuito ordinario del carcere. E ti ammazzeranno. No, papà, stai tranquillo. La peste è la nostra salvezza.

Mentre il rigagnolo in fondo al tombino si porta via l’ultimo coriandolo di carta, mi viene in mente un passaggio della lettera. Come fa a sapere mio cugino che io faccio colloqui con la Procura? Le finestre delle celle che si affacciano sul cortile proprio in questo istante diventano occhi. È come se tutti mi guardassero. Come se tutti sapessero. Se lo sa mio cugino, di cui quasi ignoravo l’esistenza, lo possono sapere tutti. C’è un sorvegliante vicino alla porta.

Guardia, io voglio tornare in cella.

Lo sbirro chiama due colleghi. Mi riportano in cella. Ed eccomi qui dentro. Nelle quattro mura diventate la mia famiglia. Di voi conosco tutto. Le macchie. Le tacche per segnare i giorni. L’odore. La noia. Mi viene da ridere. Lo sai perché? Mi fanno perfino male le gambe ad arrampicarmi sulla branda. Non guardo nemmeno gli agenti mentre sbattono la porta blindata. Fanno girare la chiave. Lo sai perché rido, Luca? Perché adesso ho paura. Non avevo paura di niente e tu lo sai. Ora no, ho più paura. Da quando ho più rispetto per la vita, ho paura di morire. Prima era tutto un gioco. Forse, Luca, sto davvero cambiando. Sarebbe una beffa se mi ammazzassero proprio adesso che per la prima volta mi sento fuori. Sono ancora in galera, lo vedi. Ma la mia testa è già fuori. Mi sento libero. È una bella sensazione, sai. Sarebbe una beffa del destino se proprio ora mi impedissero di portare a termine il mio compito. Per questo non uscirò più all’ora d’aria. Resterò qui fino al giorno in cui mi daranno il programma. La protezione. Mi daranno un posto dove vivere. Uno stipendio. Perché nemmeno su mio zio posso contare. Lui, Pepé, è mio zio per modo di dire. Pepé sta con il Calabrese, con i Compari. È il loro capo.

Con i magistrati abbiamo messo giù un piano di lavoro per i prossimi mesi. Non basta quello che ho già raccontato. Loro mi fanno le domande. E io parlo, rivelo, riconosco i volti nelle foto segnaletiche. Arrivo a sera che sono sfinito, svuotato. Mi hanno detto che a uno come me non lo possono rifiutare, il programma di protezione. Sono il loro scrigno, Luca. Il loro tesoro da conservare. Conosco segreti di cui loro hanno bisogno. I nostri segreti. I nomi di quelli che ti hanno fatto ammazzare. I loro affari. I trafficanti. I pusher. I galoppini. Le sentinelle. I bambini che abbiamo rovinato in cambio di uno scooter. I bambini che abbiamo tolto alla scuola perché per cinquantamila lire al giorno venissero a farci da vedette contro gli sbirri. I vertici. I nomi dei mammasantissima. Quelli che tu non volevi mai pronunciare. E io, io me ne fottevo dei mammasantissima, pieno di droga com’ero. Era il nostro Fortino. Il nostro mondo. Le nostre regole da rispettare con precisione. E io ero il primo a crederci.

Solo una cosa però ci legava davvero. Una sola: che noi non ci rendevamo conto di tutto questo… di tutto questo inferno. Almeno credo che anche per te lo fosse, Luca. Un inferno. Eh, tu sei perfino morto. Non so per quale ragione, ma non capivamo, non ci rendevamo conto di quello che si faceva, diceva, pensava. E a mano a mano che il tempo, puntuale, faceva il suo corso e il nostro impero diventava più solido, guidato da te, come sempre, e noi sempre più uniti, con determinazione, più compatti, ecco non ci siamo resi conto che quel sentimento dell’infanzia che ci legava non c’era più. Quel sentimento che ci univa nel Fortino si è volatilizzato nell’entusiasmo di dividere i guadagni che il Fortino ricavava. E così non abbiamo capito, non ci siamo accorti, non abbiamo mai preso in considerazione un solo particolare, Luca. Uno solo: che ormai eravamo insieme soltanto per interesse.