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Causa della morte
Pastorale non era molto distante dal fosso in cui aveva incontrato le ragazze. In poco tempo raggiunse le prime case, di sasso non intonacato, come se le ricordava. In una nicchia sopra una porta, non c’era più l’immagine sacra di un tempo, forse un sant’Antonio col maialino al fianco, come gli sembrava di rammentare al tempo della sua prima visita al villaggio (ceramica antica probabilmente rubata da un rigattiere in cerca di vecchi reperti e venduta in città a caro prezzo), ma faceva bella mostra di sé una divinità indiana dalle tante braccia protese al cielo. Sorrise. Ogni tempo ha i suoi santi protettori.
Regnava il silenzio. Poi, due magri cani di razza incerta gli si fecero davanti, abbaiando forsennatamente, ma indietreggiando mentre lui avanzava. Andò ancora avanti e arrivò a uno spiazzo dove, attorno a un tavolo sistemato al centro di quella che era stata un’aia, sedevano sei o sette elfi, uomini e donne. Cercò con lo sguardo le due ragazze incontrate prima ma non le vide.
Al centro del tavolo un enorme piatto tondo, di rame, pieno di erbe, forse radicchi bolliti, mescolati con qualcosa di chiaro, che sembrava formaggio. Con una mano prendevano un po’ di quella roba e se l’infilavano in bocca.
Gherardini salutò con un “buongiorno” al quale qualcuno di loro rispose con un altro “buongiorno”, a bassa voce. Non sembravano imbarazzati o ostili, forse solo un po’ scocciati nell’essere disturbati durante il loro pasto.
«Vuoi mangiare con noi?» disse il più vecchio, seduto a capotavola.
«No, grazie, sono qui per un motivo ben preciso.»
«E cosa vuoi da noi? Crediamo che la storia della canapa indica sia stata chiarita. Quel quotidiano di Firenze ha scritto un mucchio di fandonie. Centocinquanta chili di droga sequestrati?! Scherziamo? C’erano solo minuscole quantità di infiorescenze per uso personale. Poi il fatto che noi ne facessimo commercio! Abbiamo chiarito coi carabinieri. Che non hanno fatto una retata, come scrive il giornale. Una retata, addirittura! Hanno bussato alle nostre case e noi abbiamo aperto. Noi siamo gente onesta, che vuole vivere a contatto con la natura, non siamo legati a clan malavitosi, e se qualcuno sgarra, noi lo isoliamo e lo cacciamo. Guardaci, ti sembriamo trafficanti di droga?»
Gherardini alzò una mano. «No, no, sono qui per un motivo completamente diverso.»
«E quale motivo. Sei in divisa…»
«Più che in divisa questa è l’uniforme di lavoro. Ho qualcosa da farvi vedere.» Estrasse la cartella e mostrò le foto. «Questo è stato trovato qui attorno. Dev’essere uno dei vostri. Qualcuno lo riconosce?»
Quello a capotavola prese le foto e le guardò a lungo, poi scosse la testa.
«No, non si vede bene ma non mi sembra di averlo mai visto.»
Le passò a un altro del gruppo e presto fecero il giro del tavolo, ma tutti, dopo averle guardate, scossero la testa. Nessuno lo aveva riconosciuto.
«Forse è un ramingo» disse uno.
Ramingo. Ritornava quella parola. Tanto che ormai il poveretto morto era diventato, per lui, Ramingo. L’aveva sentita la prima volta da Giacomo, ai Campetti. Eppure, ramingo o no, qualcuno doveva pur averlo incrociato, non poteva essersi trovato lì, senza aver incontrato nessuno, per poi finire in fondo a quel grotto. Ma decise, per il momento, di non insistere. Si alzò.
«Vi ringrazio, scusate se ho disturbato il vostro pasto.»
Prima di andarsene guardò quel gruppetto di case rabberciate alla meglio. Pensò che un tempo vi avevano abitato dei montanari che campavano una vita stentata, che li aveva costretti ad abbandonare quel luogo dove erano nati, dove erano nati i loro genitori, per andare chissà dove a cercare lavoro e una vita migliore.
«Che vita grama, povera gente di allora» gli sfuggì ad alta voce.
«Perché, e noi qui oggi?» sentì qualcuno commentare alle sue spalle.
Un altro viaggio a vuoto. Quel morto non aveva nome, né identità.
«Da qualche parte sarà pur venuto. A morire fin quassù. E come?»
Gli tornarono alla mente le due ragazze: non erano state chiare. Era convinto che sapessero più di quanto avevano assicurato. E si ripromise di riprendere con loro il discorso.
In caserma trovò Gigi, il becchino, che lo aspettava.
«Caro Ghera» disse quello, allegro, «non ci siamo più visti, ma ho qui un regalo per te. Ho messo nel saccone di plastica il poveretto e sotto il corpo ho trovato queste» e si frugò in tasca. Gettò sulla scrivania due cartucce di fucile.
Gherardini le prese e le guardò con attenzione. Non erano cartucce nuove, di fabbrica, ma erano già state usate e poi ricaricate a mano. Qualche cacciatore ancora lo faceva.
«A cosa gli servivano se non aveva un fucile?»
«Dovresti chiederlo a lui.»
Marco mise le cartucce nel cassetto della scrivania. «Grazie, comunque, Gigi. Vedrò di capirci qualcosa. Adesso devo salire a Collina.»
A Collina di Casedisopra si sarebbe svolta la Festa dell’Arcobaleno, il 29 agosto. Giacomo gli aveva detto che ci stavano già lavorando per montare un teepee. Era necessario un giro di controllo per capire cos’avevano intenzione di fare esattamente quegli strani personaggi. Magari niente di vietato, ma in ogni caso era necessario che la forestale ne fosse informata.
Stava per montare sul fuoristrada quando un’auto blu, di quelle usate dalle persone che contano, arrivò sparata, si fermò davanti alla caserma e la dottoressa Frassinori scese sbattendo, con una certa violenza, la portiera. L’ispettore si accorse che la magistrata aveva una brutta cera. Lei vide che l’ispettore stava per partire, gli fece un cenno e gridò:
«Lei, proprio lei! Ho fatto male a fidarmi!».
«Cos’è successo?» le chiese raggiungendola.
«Me lo dica lei, ispettore. Sono qui per saperlo» e poco più tardi, chiusi nell’ufficio di Gherardini e prima ancora di sedersi, buttò sulla scrivania una grossa busta. «Ecco i risultati dell’autopsia di… a proposito, sappiamo almeno come si chiama il morto?»
«Non ancora, non ho avuto modo…»
«Vuol dire che siamo in alto mare. Male, molto male, ispettore» e vedendo che Gherardini stava per consultare il fascicolo, continuò, piuttosto dura: «Non stia a perdere tempo. Le riassumo io subito le cose più importanti. Il decesso è dovuto alla caduta che ha provocato la frattura del tratto cervicale a livello di C1 e C2. Il che significa che la morte è stata immediata e potrebbe essere stata casuale o procurata. In altre parole, è anche possibile che si tratti di omicidio.» Aspettò l’effetto delle sue parole sull’ispettore. Non ci fu. «Il perito ha trovato graffi e lividi sulle braccia del cadavere». Prevenne le obiezioni che Marco Gherardini stava per fare. «Se vuole ricordarmi che rotolando da un dirupo, graffi e lividi se ne procurano in abbondanza, la deludo subito. Al momento della morte, il sangue sui graffi era già rappreso e i lividi risalgono a circa una settimana prima della caduta. Inoltre non sono state trovate tracce di elementi vegetali né sui bordi né all’interno delle ferite e il perito è del parere che siano il risultato di una colluttazione.»
Si concesse una pausa e decise finalmente di sedere. Posò la borsetta sulla scrivania, ci frugò dentro e prese sigaretta e accendino. Verificò che ci fosse a portata di mano un posacenere e accese.
«Un caffè?» chiese Gherardini.
«Non è in condizioni di fare dello spirito, ispettore.»
«Non faccio dello spirito» e, per chiarire meglio, andò alla porta e gridò nel corridoio: «Ferlin, due caffè». Tornò alla scrivania e accese anche lui una sigaretta delle sue. «C’è altro, dottoressa?»
Lei annui. «Sì, c’è altro e di peggio. Sul palmo destro della vittima, il perito ha trovato evidenti tracce di polvere da sparo. Se non le basta ecco un altro motivo su cui riflettere. Dai giornali e da una segnalazione dei carabinieri, mi risulta che i così detti elfi facciano uso e spaccio di droga. Ma sembra che a lei non interessi. Sarebbe il caso di occuparsene anziché ridurre tutto a un banale incidente di montagna.»
Diede un ultimo tiro, schiacciò con rabbia la sigaretta, ancora a metà, nel posacenere, si alzò, afferrò la borsetta e si avviò alla porta.
«Non aspetta il caffè?»
Era chiaro che l’ispettore non la prendeva sul serio. Lei s’incattivì ancora di più e tornò verso Gherardini: «Non aspetto il caffè. Aspetto di conoscere il motivo della polvere da sparo sulla mano di un uomo morto accidentalmente cadendo in un dirupo. È così che ha scritto sul suo rapporto, no?» e uscì senza chiudere la porta.
«Presumibilmente!» le gridò dietro l’ispettore. «Se ha letto bene, ho scritto presumibilmente!»
Non avrebbe mai saputo se lo avesse inteso o no.
Sentì la portiera dell’auto blu richiudersi con un botto secco e il motore andare su di giri.
Ferlin entrò con il vassoio e due caffè.