21
Di cinghiali, di maiali e del Borghetto dei Ricchi
Non dormì come sarebbe stato normale dopo la sfiancata sui sentieri di montagna, tormentato da una quantità di pensieri.
Si alzò presto, fece colazione e perse tempo per non andare subito in caserma. Ci arrivò alle nove e ci trovò l’appuntato Gaggioli. Stava prendendo il caffè con Ferlin. Sul tavolo e accanto alla tazzina fumante, aveva posato una borsa di pelle.
«Qualcosa di urgente?» chiese al carabiniere accennando alla borsa.
«Se ha da fare, torno più tardi» disse quello.
«Bene così, appuntato.»
«C’è un caffè anche per te, ispettore» lo avvertì il suo agente.
«Già preso, grazie.» Al Gaggioli: «Finisca il caffè. L’aspetto» e andò in ufficio.
«Sieda, appuntato» disse quando il Gaggioli lo raggiunse.
Quello si mise comodo, posò la borsa sulle ginocchia, ne trasse alcune foto e le dispose davanti all’ispettore. Quattro foto in bianco e nero formato A4.
Gherardini le esaminò e sorrise: «Da dove vengono?».
«Le ho scattate io. Ogni tanto esco e fotografo. Con tutta la gente che sta arrivando da ogni parte del mondo, qualche malintenzionato c’è sempre. Le ho riguardate, ho ingrandito quei particolari e penso che possano esserle utili.»
«Lo sono. Grazie, appuntato. Me le lascia?»
«Nessun problema, ispettore.»
Rimasto solo, Gherardini chiamò Farinon. Gli mise dinanzi le foto:
«Che ne dici?».
«Che finalmente sappiamo che qualcuno lo ha visto, il Ramingo. E ci ha pure fatto conversazione.»
«Andiamo a parlarci?»
«Andiamo.»
Era domenica e la piazza era affollata.
Davanti al bar di Benito i tavolini erano tutti occupati e Amdi andava e veniva di corsa.
«Non si lamenterà anche oggi» commentò Farinon.
«Si lamenta sempre.»
Anche dentro c’era gente e li serviva l’Adele, che era presto per mettersi in cucina, e Benito stava al banco. Salutò con un cenno del capo i due forestali, prima di commentare:
«È così che spendiamo i nostri soldi. Per mantenervi a caffè».
«Sbagliato. Siamo qui per servizio» e l’ispettore gli stese davanti i quattro ingrandimenti. «Conosci qualcuno di questi?»
«Secondo te dovrei?» chiese quello senza neppure guardare le foto.
«Non lo so. Dimmelo tu.»
«Caro mio, qui si lavora, Poiana, si lavora» e mentre stava per voltarsi e mettersi alla macchina espresso, Marco lo bloccò per un braccio.
«Dai un’occhiata qui, per favore.»
Parlava sul serio, Poiana, e Benito si lasciò convincere. Guardò.
La prima era stata scattata davanti alla trattoria-bar e lui, Benito, parlava con un elfo che dava le spalle alla macchina. Nella seconda, stessa inquadratura con Benito che ascoltava e l’elfo, sempre di spalle, sembrava gesticolasse. La terza era ripresa di fianco e l’elfo lo si vedeva di profilo. Nell’ultima, dalla stessa inquadratura, i due erano di spalle e Benito indicava l’interno della trattoria-bar.
«Vuoi sapere quante copie ne voglio?» chiese, una volta tanto ironico, Benito.
«Secondo te?» lo scimmiottò Poiana. «Voglio sapere perché non mi hai detto che avevi incontrato il Ramingo. Perché questo, caro mio, è il Ramingo che sembrava nessuno avesse incontrato.»
Benito guardò ancora le foto e, prima di rispondere, chiamò l’Adele. «Mettiti al banco che questi due, caro mio, hanno tempo da perdere e lo fanno perdere anche a me» le disse.
Raccolse le foto, lasciò il banco e andò a sedere a un tavolo isolato, nella penombra del locale. Ridistese le foto e, puntando l’indice sulla prima, cominciò:
«Qui, quello che tu chiami Ramingo, mi sta chiedendo notizie sul menu e gliele do anche se so benissimo che non verrà mai a mangiare da me.» Passò alla seconda. «Qui mi chiede se il cinghiale che offro ai clienti è cinghiale-cinghiale o cinghiale-maiale e io gli rispondo come rispondo a tutti quelli che mi prendono per il culo.» Sollevò lo sguardo su Poiana. «Gli rispondo: Cheroté! Con quel che segue e che vi risparmio per rispetto alla divisa.» Sospese per chiedere: «Vado avanti?».
«Sì, se non ti dispiace» rispose Marco.
«Qui mi chiede chi mi procura il cinghiale perché gli piacerebbe andare una volta con lui a caccia» ed era arrivato all’ultima foto. «E qui, qui gli sto indicando Adùmas. Mangiava seduto dentro.» A Farinon: «Secondo te, perché gliel’ho indicato?». Non aspettò la risposta. «Perché volevo vedere Adùmas prenderlo a calci nel culo. Sapevo che ce l’aveva su con quei lercioni. Basta così o c’è dell’altro?»
«Perché non mi hai detto che lo avevi incontrato?»
«Oh, Poiana! Perché a me non l’hai mai chiesto. Sei andato in giro per mezzo mondo a mostrare a cani e porci le foto di quel poveraccio, meno che a Benito. Che ne sapevo che era ’sto tizio qua?»
Gherardini raccolse le foto e si alzò. «Che lingua parlava?»
«Parlava tedesco. Con l’italiano se la cavava. Male ma se la cavava.»
Tornando in caserma, nessuno dei due parlò.
Marco cercò se, fra gli elfi che sostavano in piazza, ci fosse Elena. Non la vide né la sentì cantare.
A mezzogiorno non mangiò. Più tardi mise in moto il fuoristrada e tornò in piazza. Elena avrebbe dovuto esserci, con la sua chitarra e i suoi mazzolini di fiori secchi per i turisti.
Turisti? Non veniva più quasi nessuno, solo quelli che avevano una seconda casa, montanari di seconda generazione. Col tempo buono, arrivavano, facevano la spesa, si divertivano con gli elfi giocolieri, suonatori, venditori…
La vide infatti, seduta su un gradino del marciapiede, la chitarra accanto, i mazzolini sparsi a terra, ai suoi piedi, un’espressione triste e annoiata sul volto.
Gherardini fermò l’auto di fianco a lei.
«Come vanno gli affari?»
«Figli di cani, è da stamattina che mi sgolo e guarda.» Mostrò il berretto nel quale spiccavano pochi spiccioli. «Quasi niente, è che c’è la crisi, anche in vacanza.»
Lui scese. «Forse non piacciono le tue canzoni.» Evitò un mazzolino che la ragazza gli aveva lanciato. «Non disperdere la tua merce preziosa. Senti, cosa fai adesso?»
«Non so, sono quasi le cinque, la gente dovrebbe passeggiare, forse la giornata non è del tutto sprecata.»
«Lascia perdere, vieni con me.»
«Dove?»
«Non ti preoccupare, sarà una giornata interessante, e forse una gran mangiata. Allora?»
La ragazza prese la chitarra, i mazzolini li sistemò in un cesto, raccolse lo zaino, caricò tutto in macchina e salì. «Dove andiamo?»
«Vedrai.»
Lasciarono il paese. Presero la strada verso valle.
«Un po’ di vacanza dai pensieri» disse. «Mezza giornata di svago. Come va su da voi?»
«Come sempre, solita vita da elfi. Novità?»
«Non ne ho, purtroppo. Sono impantanato in questo maledetto caso. Il maresciallo Barnaba doveva andare a ’sto maledetto corso di chissà quale maledetta cosa da carabiniere proprio adesso, che Dio lo maledica, lui e i carabinieri…»
«Troppi “maledetto”. Non volevi rilassarti?»
«Hai ragione, basta pensare al Ramingo.»
«E della pistola di Joseph?»
«Adesso sei tu che mi ci riporti dentro. Ci penserò. Ora, davvero, rilassiamoci.»
Rimasero in silenzio per un po’.
Ogni tanto Gherardini la sbirciava: i lunghi capelli neri, lucenti al sole del tardo pomeriggio, il viso grazioso, le sopracciglia nere e arcuate che ne incorniciavano l’ovale, un naso piccolo e diritto e una bocca…
Gli venne voglia di baciarla.
«Metti la cintura» disse invece.
«Agli ordini, signor forestale.»
«Non fare la spiritosa. Adesso lasciamo la statale e prendiamo una strada, se così si può chiamare, che non è per niente agevole. Quelle piste per venire su da voi, non parlo dei sentieri, sono autostrade al confronto, vedrai che carrareccia.»
«Ma dove andiamo?»
«In un villaggio un po’ simile ai vostri, ma lì non sono elfi. È un gruppo di professionisti, medici e infermieri dell’ospedale, quello giù, sulla statale. Uno di loro ha scoperto un borghetto abbandonato e ha deciso di venirci a vivere. Io l’ho battezzato il Borghetto dei Ricchi. A loro i soldi non mancano e hanno fatto risistemare le case da muratori e geometri, forse anche da un architetto. Hanno fatto arrivare la corrente elettrica e l’acqua. Hanno anche il riscaldamento. Isolati sì, ma non come elfi. Questi appartengono a una comunità che vive a modo proprio, lontana dal resto del mondo ma in qualche modo ancora vicina, dentro di esso.»
A ogni sasso o buca della strada, i due sobbalzavano. Una mulattiera senza lastricato di pietra, che sicuramente diventava un fosso a ogni pioggia e l’acqua si portava via terra e sassi.
L’auto se la cavava abbastanza bene, ma alle curve ad angolo retto bisognava far manovra, con sotto lo strapiombo.
Gherardini ogni tanto imprecava sottovoce.
«Hanno rimesso a posto le case, ma si sono dimenticati la strada. Come fanno ogni giorno a raggiungere l’ospedale, e in che condizioni ci arrivano?»
Dopo un’ultima curva, il borghetto. Una decina di case e una piazzetta, abitazioni coi muri in pietra viva, ben sistemate, alberi da frutta e una piccola folla che gridava aggirandosi attorno a un grande tavolo. Sistemavano posate e bicchieri e altra gente che chiacchierava vicino a una piccola ruspa.
Su un ciocco tagliato a un metro da terra era appoggiata una damigiana di vino e un tizio spillava aspirando da un tubo di gomma, riempiendo un bottiglione.
L’arrivo di Gherardini fu salutato festosamente.
«Sei arrivato Poiana, finalmente! Come al solito hai lasciato il lavoro a noi fessi» gli gridò uno.
«Comoda la vita, eh?» disse un altro.
«Fatti un bicchiere, se Renzo è ancora in sé. È tutto il giorno che riempie bottiglioni, ma buona parte se l’è assaggiato lui. Guarda se è ancora in grado di versartene un po’.»
«Vieni ben qui che sono in grado sì: ecco un bicchiere per te e uno per la tua fidanzata. Guarda che mano ferma che ho.»
«Ne ho viste di più ferme, ma va bene così. Comunque non è la mia fidanzata, è un’amica. Alla tua salute» fece Gherardini.
Elena rimase un attimo silenziosa. «Sono solo un’amica?» chiese poi.
«Davvero, non lo so. Chi sei?»
«A essere sincera, speravo di essere qualcosa di più, o di diverso da una semplice amica. Ma tu, dico tu, chi sei, e cosa?»
Rimasero in silenzio. Avevano finito il vino.
Marco chiese: «Un altro bicchiere?».
«Sì, ma devo andarci piano, mi sembra buono ma è forte; da dove viene?»
«Qui siamo più in basso che a Casedisopra, o su da voi. Non guardare questo greppe. Più in basso ci sono delle plaghe al sole coltivate a vigna. C’è anche un’azienda che fa alcuni vini non male. Una volta lo facevano anche su da noi, ma l’uva non sempre maturava. Era quasi aceto, ma con la miseria che c’era andava bene anche quello.»
Lei rise. Gherardini la guardò. «Ma tu, chi sei?» domandò ancora.
Arrivò uno di corsa. «Oh, morosi, svelti, stiamo per mangiare» e si precipitò verso lo spiazzo di terra vicino alla ruspa. «Ecco il nostro capolavoro!»
Renzo reggeva un bottiglione e ogni tanto tirava un sorso. Spiegò: «È un maiale da un quintale, ma ci abbiamo messo dentro altri venti chili di polli, salsicce e patate. Abbiamo scavato con la ruspa una gran buca, l’abbiamo riempita di pietre arroventate, poi abbiamo avvolto la bestia con la stagnola d’alluminio. Abbiamo coperto le pietre con delle onduline metalliche, ci abbiamo calato sopra il maiale, poi altre onduline e altre pietre arroventate. Abbiamo coperto tutto con la terra. È lì sotto dalle sette di questa mattina». Guardò l’orologio. «Sono dodici ore che è lì a cuocere. Fra un attimo lo tiriamo fuori, con la ruspa. Venite a vedere.»