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Una sgradita sorpresa

Farinon spalancò le imposte e il sole delle dieci illuminò l’ufficio.

Gherardini aprì la porta e disse a Solitario:

«Va’ di là con Ferlin».

«Mi tenete dentro?»

Ancora non ebbe risposta.

Dall’ingresso, Adùmas disse, deciso: «Io vado a casa».

«Hai così fretta?»

«Te l’ho detto, ho gli animali…»

«Se ne occupa Berto. Adesso siedi e aspetta» e fece per chiudere la porta.

La bloccò Adùmas con un piede contro lo stipite. «Oh, Poiana, sai che stai già diventando carabiniere?»

Gherardini lo guardò. «Sì, mi stai trattando come un delinquente. Come se non ci conoscessimo da una vita. Come se non mi avessi mai offerto un caffè. Come se…»

«Come se non sapessi che sei innocente? È questo che volevi dire?»

«Anche.»

Guardò Solitario che sembrava aspettare l’esito dello scontro. Magari ne avrebbe approfittato. Se avesse rilasciato Adùmas, c’era speranza anche per lui. L’ispettore gli indicò Ferlin, sulla soglia dell’ufficio di Farinon. Poi tornò a Adùmas:

«Vieni dentro che ti spiego alcune cose».

Entrarono e chiuse la porta.

«Devi sapere, Adùmas, che non siamo ancora fuori dai guai e che se io ti mandassi a casa prima di capire come stanno esattamente le cose, rischierei di ricominciare tutto da capo. Rischierei di venire accusato di negligenza, per non dire peggio.»

«Peggio di così?»

«Per esempio, omissione d’atti d’ufficio o, ancora, collusione con un indagato. Perché tu sei ancora indagato, Adùmas, lo sai, vero? Per cui, abbi pazienza e sopporta anche tu come stiamo sopportando noi.»

Fece uscire l’indagato, gli batté una mano sulla spalla e lo accompagnò al portone d’ingresso. «Ti do mezz’ora di libertà vigilata: va’ da Benito a fare colazione. Offro io, vecchio!»

«Vecchio sarai tu» borbottò Adùmas andando verso il cancello.

«Ricordati: hai mezz’ora» gli gridò dietro Gherardini.

«Metti che non torno: mi trovi poi.»

«Tu provaci.»

L’ispettore lo guardò allontanarsi.

Le strade del paese erano illuminate dal sole del mattino. Si stava bene, fuori. L’ora migliore per passeggiare tranquilli.

Potendo.

«E la nostra colazione?» si chiese, o chiese al sovrintendente, rientrando in ufficio.

«Be’, Poiana, qualcosa in frigo ce l’abbiamo.»

La preparò Goldoni e la consumarono nella cucinetta: pane, una fettina di formaggio stagionato e caffè. Abbondante.

In silenzio.

Di chiacchiere ne avevano ascoltate e dette in abbondanza, durante la notte e fino al mattino. Era il momento di tirare le somme.

Le tirarono nell’ufficio dell’ispettore.

«Io credo alla versione di Adùmas» disse Gherardini. «Secondo te?»

«Adesso siamo sicuri: le ipotesi che avevo fatto dopo la chiacchierata con Adùmas sono giuste.»

«Il che significa: tutto da rifare.»

«Ho paura di sì. E ho anche paura che ti tocchi ripartire da Paolino.»

Ci aveva già pensato, e che anche Farinon lo avesse pensato gli confermò di essere sulla buona strada.

Paolino dei Campetti: Adùmas lo aveva incontrato il giorno dei due spari, il maledetto 12 giugno, fucile in spalla, nei pressi del grotto. Ed era piuttosto arrabbiato con gli elfi.

Paolino dei Campetti: Gherardini era convinto di aver visto, durante la visita che gli aveva fatto, il calcio di un fucile appeso al muro. Nella visita successiva, il fucile non c’era più. Non solo. Aveva assicurato di non averne mai posseduto uno.

Paolino dei Campetti: «Metti che abbia trovato il Ramingo che portava a spasso la sua Cornetta. Già era arrabbiato con gli elfi che lo avevano preso in giro. Si arrabbia di più e… con quello che segue» concluse Gherardini.

Una pausa di riflessione per entrambi. Poi, Farinon: «Così, abbiamo lasciato Adùmas e ci troviamo fra le mani Paolino dei Campetti. Non mi sarebbe mai e poi mai venuto in mente. A volte, le convinzioni…». Si alzò e si avviò per uscire. «Di quei due cosa ne facciamo?»

L’ispettore non rispose subito. Controllò l’orologio. «Fra poco si mangia. Nel pomeriggio andrò a trovare Paolino.» Guardò il collega, fermo sulla soglia in attesa di disposizioni. «Io, Farinon, un’idea ce l’avrei» e sorrise. «Di’ a Goldoni che prepari qualcosa da mangiare anche per Adùmas…»

«Se torna.»

«Torna, torna. Date da mangiare a lui e a Solitario. Io mi farò una fiorentina da Benito e poi li porterò personalmente… Indovina dove?»

«Me lo immagino» e anche il sovrintendente sorrise.

La mezz’ora di libertà vigilata era abbondantemente passata e di Adùmas nessuna notizia.

Gherardini non sembrava preoccupato.

Alle dodici e mezza lasciò l’ufficio con la disposizione di dare da mangiare ai due trattenuti per accertamenti.

«Per adesso ce n’è uno solo» precisò, con una certa ironia, l’addetto alla cucina, per quel giorno il forestale Goldoni.

Lo trovò a mezza strada fra la caserma e la trattoria-bar di Benito. Seduto sui gradini della tabaccheria, fumava un sigaro, tranquillo come se non avesse problemi.

Gli si fermò in piedi davanti. «Una colazione lunga, Adùmas.»

«Mi sono concesso anche un sigaro. Oh, Poiana, erano anni che non ne fumavo uno. Per festeggiare.»

«Festeggiare cosa? Adesso va’ in caserma che ti aspettano per mangiare.» Si allontanò. «E quando dico mezz’ora, mezz’ora deve essere.»

«Non ho l’orologio, Poiana.»

«Se credi di poter fare i tuoi comodi, sbagli. La legge è legge e…»

«… e chi non legge, peggio per lui. Buon pranzo, Poiana.»

«Anche a te. Te ne daranno in caserma.»

«Chi ti dice che ci andrò?»

«Me lo dico da solo. Scommettiamo?»

Adùmas si alzò, diede un tiro al sigaro e si allontanò. Non scommise.

Benito lo accolse con un «Chi non muore si rivede» e si presentò al suo tavolo. Lo guardò in faccia: «Ti vedo più tranquillo dell’altro giorno. Novità?».

Gherardini annuì.

Benito scostò una sedia e si accomodò. «Sentiamole.»

«Una fiorentina cotta come sa l’Adele e un mezzo di rosso.»

Benito ci rimase male. «Caro mio, ordini fiorentina due volte al mese.»

«Vero.»

«Dov’è la novità?»

«È la terza, questo mese.»

Benito si alzò e, con cura, rimise a posto la sedia:

«Ho capito. Secondo me, non ce la farai mai a scoprire cos’è successo al Ramingo».

«Vuol dire che tu sai qualcosa che io non so. Come al solito.»

«Vado a ordinarti la fiorentina.»

«Bravo. E di’ ad Amdi di portarmi un buon rosso.» Precisazione inutile. I vini di Benito erano due, il bianco e il rosso. Buoni o cattivi, erano quelli. «Ho parlato tutta notte con dei pregiudicati e ho una gran sete.»

Benito si fermò a mezza strada. «Tutta notte?»

«Tutta.»

Prima di tornare dai suoi, passò dai carabinieri. Mise al corrente l’appuntato Gaggioli degli ultimi sviluppi e si accordò sul proseguimento dell’inchiesta.

«Cominciamo a sopportarci a vicenda» concluse. «Fra pochi mesi dovremo convivere.»

Il buon profumo di cibo si sentiva già nell’ingresso della caserma della forestale.

«Mangiato bene?» chiese ai due “pregiudicati” che lo aspettavano, seduti, nell’ufficio di Farinon.

«Penne all’arrabbiata. Ottime» rispose Adùmas. «Il giovanotto non ha gradito e le ha prese in bianco. Se va avanti così…» Si alzò. «Grazie per il pranzo ma devo proprio andare.»

«C’è ancora una piccola formalità. Dobbiamo stendere il verbale delle vostre dichiarazioni e farvele firmare. Nel frattempo…»

Nel frattempo caricò i due “pregiudicati” sul fuoristrada e li scaricò alla caserma dei carabinieri. Li prese in consegna l’appuntato Gaggioli.

«Ci vediamo domattina per le firme» disse ai due uscendo.

«Come sarebbe?» gli urlò dietro Adùmas.

«La forestale non è attrezzata per ospitare durante la notte persone in attesa di accertamenti.»

Sapeva che Adùmas se la sarebbe legata al dito.

Lui se la sarebbe cavata con un paio di cene da Benito.

Valeva la pena: quel maledetto Adùmas lo aveva fatto ammattire. Quattro giorni d’inferno, su e giù per i sentieri dell’Appennino, sotto pioggia e sole.

Le urla di Adùmas, chiuso in cella di sicurezza, le sentì fino a quando il fuoristrada non si fu allontanato abbastanza.

Aveva intenzione di rientrare, caricare Farinon e salire ai Campetti. Paolino aveva da chiarire molte cose.

Non andò così.

Vide l’auto ferma davanti alla caserma.

Addio ai Campetti e addio a Paolino.

Si preparò spiritualmente all’incontro con Baratti, suo superiore, primo dirigente, comandante provinciale della forestale.

Avrebbe dovuto prepararsi anche all’incontro-scontro con la Frassinori.

Dalla porta spalancata, li vide entrambi seduti nel suo ufficio.

Già nell’ingresso si era accorto che c’era aria pesante. Ferlin, seduto al computer e impegnato in chissà quale lavoro; Farinon al telefono parlava fitto e basso; Goldoni sistemava cartoni di pratiche sullo scaffale del corridoio.

C’erano da anni, quei faldoni nel corridoio. Potevano restarci ancora.

«E avvertirmi?» bisbigliò passando accanto a Ferlin.

Quello si strinse nelle spalle.

«Dottoressa» salutò entrando nell’ufficio. «Comandante» e rimase in piedi e a disposizione.

«Siedi» lo invitò Baratti.

Sedette dove faceva accomodare di solito gli estranei: il suo posto, alla scrivania, era occupato dal superiore.

«A che punto siamo?»

Velocemente si chiese se dire la verità o inventare una pista che non aveva. Scelse una terza opzione:

«Ho fermato due indiziati. Un terzo lo interrogherò oggi pomeriggio» e aggiunse: «O stasera, se qui ne avremo per molto».

«C’è la possibilità di arrivare a qualche risultato concreto entro breve tempo?»

La Frassinori non aveva ancora aperto bocca se non per aspirare ed espirare il fumo della sigaretta. Schiacciò nel posacenere sulla scrivania la metà ancora da fumare. C’era dentro anche, stropicciato, il pacchetto finito. Si presentò così:

«Comandante, non la prenda alla larga. Sono passate settimane e il suo ispettore non ha uno straccio di idea su come risolvere il caso».

Dalla borsetta prese un nuovo pacchetto, lo aprì e accese un’altra sigaretta. Gherardini notò che i suoi movimenti erano veloci e le mani tenevano saldamente sigaretta e accendino. Una donna dura, senza emozioni o preoccupazioni sul risultato delle sue parole.

Aspirò un tiro breve e nervoso e riprese, guardando fisso l’ispettore: «Non ne avremo per molto, ispettore, come teme lei». Un altro tiro. «È mia intenzione richiamare il maresciallo Barnaba perché concluda l’inchiesta rapidamente. Gli passerà le informazioni fin qui raccolte… D’altra parte, fra qualche mese apparterrete entrambi allo stesso corpo. Sarà una prova generale dell’accorpamento della forestale all’Arma dei carabinieri.» Accavallò le gambe, per altro piuttosto belle, come constatò Gherardini, riprese a fumare con più calma e fece cenno al comandante che poteva procedere.

Baratti ci pensò su, guardò il subalterno e si rivolse direttamente alla magistrata: «Convengo, dottoressa, che la forestale ci sta facendo una brutta figura. E proprio quando il corpo sta per concludere la sua lunga e onorata storia al servizio delle comunità, in particolare montane. Conosco l’ispettore Gherardini da quando ha iniziato la carriera nel corpo e ho piena fiducia nel suo operato. Sono certo che il maresciallo Barnaba non avrebbe fatto né farà meglio di quanto ha fatto il mio ispettore. Ma se lei, dottoressa Frassinori, ha deciso così…»

Lo interruppe Gherardini. «Ho due indiziati, ripeto. Un altro possibile responsabile lo raggiungerò presto.» Mentiva, ma gli rompeva l’intrusione dei carabinieri in una faccenda che, a questo punto, riteneva gli spettasse di diritto. «Gli elfi sono una comunità numerosa e particolare. Va contattata con il massimo della responsabilità. Sono particolarmente gelosi della loro indipendenza…»

Anche Marco fu interrotto. Dalla magistrata. «Proprio per questo non possiamo permetterci di arrivare alla cosiddetta Festa dell’Arcobaleno senza aver chiarito le modalità dell’accaduto e le eventuali responsabilità. Forse qui vivete, ispettore, ai margini della civiltà e non leggete i giornali. In tal caso, l’aggiorno io: si chiedono se sia opportuno permettere lo svolgimento della festa; se si riuscirà a mantenere l’ordine fra le migliaia di elfi provenienti da ogni parte d’Europa. Si chiedono come mai ancora non siamo riusciti a chiarire l’oscuro episodio della morte di un elfo, e ora cosa accadrà quando gli elfi invaderanno il nostro Appennino?» Schiacciò la sigaretta e si alzò. «Se lei ha indiziati certi, aspetto il suo rapporto. Domani, sul mio computer.» Nell’ingresso completò: «In caso contrario…» e lasciò la compagnia.

Passando accanto all’ispettore, per raggiungere la dottoressa, il comandante Baratti mormorò: «Oh Ghera, se le farai rimangiare quello che ha detto, ti proporrò per un encomio solenne…» e prima di uscire completò: «… e farò in modo che il conferimento avvenga in sua presenza».