19

Ca’ del Bicchio

A volte le previsioni sono una cosa e il tempo un’altra. Il cielo delle cinque del mattino era chiaro. Si sarebbe bagnato lo stesso, ma non per la pioggia. Per le gocce sulle foglie, lungo i sentieri che avrebbe percorso.

Al solito, arrivò fino a dove il fuoristrada ce la faceva, un paio di chilometri da dov’era diretto. Scese, si piantò il berretto in testa, si caricò lo zaino…

Non ci aveva messo dentro molto: una borraccia con del vino… di sorgenti ne avrebbe incontrate in abbondanza. Un pezzo di pane e uno di formaggio, due mele, la mappa al venticinquemila, il coltello in dotazione e la bussola nel caso che il tempo si fosse messo al peggio, come da previsioni, e le nubi fossero scese tanto in basso da ridurre la visibilità.

Sulla parte esterna dello zaino aveva anche appeso una piccozza dal manico corto. Ricordava che il posto dove era diretto si trovava a metà di un dirupo e la piccozza gli avrebbe fatto comodo per raggiungerlo.

Precauzioni forse esagerate, ma alla montagna non si deve mai dare troppa confidenza.

Imboccò un sentiero che trovò solo perché era indicato nella tavoletta. Fece pochi passi e si fermò. Il sentiero era ormai coperto dalla bassa vegetazione.

Sacramentò fra sé e sé. Camminare gli piaceva, aveva sempre camminato volentieri per i suoi boschi, ma questa storia lo faceva scarpinare un po’ troppo.

Dove si era ficcato quel vecchio stravagante e anarcoide?

Il Comune aveva settantaquattro chilometri quadrati di territorio, e più del novanta per cento erano a bosco. Era come cercare il famoso ago nel ben noto pagliaio.

Gherardini si fermò per riprendere fiato e per riflettere.

Il bosco è un labirinto, se non lo conosci.

Per conoscerlo lui lo conosceva, sì, l’aveva vagliato tante di quelle volte, sapeva i fossi e i castagneti, e là dove le piante cambiavano, e i pochi animali che c’erano un tempo e i tanti che c’erano ora ma, che ti prenda un accidente, settantaquattro chilometri quadri, mica un fazzoletto.

Tanto di quello spazio che anche i tedeschi, in tempo di guerra, avevano faticato a trovare i partigiani e quando si erano decisi a rastrellare, quel tizio, l’eroe, come si chiamava, Giovanni Balboni, aveva appena vent’anni, ferito, li aveva inchiodati là, al passo, i crucchi, con un fucile mitragliatore e una pila di caricatori, ferito a morte ma ancora vivo quanto bastava, e aveva urlato agli altri partigiani: «Andate via, scappate che vi copro io!».

Aveva finito i colpi e c’era rimasto, poveretto. Morto perché credeva in un’Italia diversa da quella che sarebbe poi diventata.

Gli altri si erano salvati perché erano riusciti a sganciarsi protetti da quel coraggioso, ma non tutti erano fuggiti, così gli avevano raccontato.

C’era la Buca del Fosso, una cavità naturale di fianco alla scarpata d’un fosso, non proprio una grotta ma quasi. Ci stava dentro anche un uomo. Una tana, insomma, come aveva improvvisamente ricordato, e proprio lì il padre di Adùmas si era rintanato.

Vuoi vedere che tale il padre…

Adesso ne era certo.

Ripartì con slancio.

Ricordava vagamente dove fosse la Buca. Risalì il fosso che aveva incontrato, andò ancora a monte.

Trovò la lapide bianca, al passo.

Solo un ricordo di quell’episodio e di quel gesto ormai lontano.

Proseguì seguendo l’acqua, scese in basso e tornò di sopra.

Finalmente gli sembrò di aver trovata la Buca. Il fosso lì faceva un salto, una cascatella precipitava dall’alto, probabilmente in inverno era una vera e ruggente cascata.

Un ontano sorgeva quasi dall’acqua, ma quello sicuramente non c’era ai tempi della guerra. C’erano invece cespugli di ginestre fiorite che spandevano il loro odore forte e un po’ nauseante. Di fianco, vide il pertugio.

Per raggiungerlo si tolse zaino e berretto, che appese a uno spuntone di ramo abbastanza grosso, tolse la piccozza dallo zaino e cominciò a scendere.

Alla base, tracce recenti di scarponi.

Si chinò, introdusse la testa nel pertugio e guardò dentro. Anche là, stesse tracce.

La Buca del Fosso aveva avuto un visitatore, di recente.

Adùmas, lì dentro, non c’era.

C’era stato. E ancora una volta Poiana era arrivato tardi.

Ancora una volta beffato.

Aveva esaurito le ipotesi su dove cercare Adùmas. Con la speranza che non facesse qualche altra pazzia.

Risalì e sostò a riprendere fiato prima di rimettersi in spalla lo zaino.

Raggiunse il fuoristrada che il sole era alto.

«Le previsioni… Sai che c’è? Il tempo fa quello che gli pare e le nostre previsioni prevedono quello che possono.»

Seduto su un masso, fece uno spuntino, circondato dal silenzio della montagna e da una natura che pareva ancora primordiale.

“Pareva”, perché in realtà anche là era arrivato il cancro che si stava mangiando la natura: l’inquinamento ambientale.

Nonostante ciò, una situazione piacevole se non avesse avuto il problema di Adùmas. Il che gli fece pensare a dove avrebbe potuto andare l’anziano dalla Buca del Fosso.

Controllò sulla tavoletta.

In linea d’aria, la Buca del Fosso era, grosso modo, due, tre chilometri da Ca’ del Bicchio. Esattamente come per gli altri rifugi dove Adùmas si era fermato per la notte: la Ca’ Storta e Purgatorio.

Cercò un percorso che gli permettesse di arrivarci senza troppa fatica. Aveva già speso molto e la giornata era ancora lunga.

«E io ti seguo a Ca’ del Bicchio» decise Poiana.

Capì anche di aver sbagliato strategia nella ricerca di Adùmas. Avrebbe dovuto precederlo, non seguirlo. Pensare a deve sarebbe andato e arrivarci prima di lui.

Anche per Ca’ del Bicchio lasciò il fuoristrada e prese un sentiero.

«Perché accidenti non scelgono posti più comodi!»

Elena gli avrebbe risposto: “Perché siamo elfi e abbiamo lasciato i posti comodi sperando di trovare un altro modo di vivere”.

Ca’ del Bicchio: un borgo ai confini del Comune, lontano da strade anche solo vicinali. Poche case di sasso addossate le une alle altre, quasi a sostenersi a vicenda, disabitate fino a molti anni prima. Gli ultimi abitanti erano stati due contadini, marito e moglie che Marco Gherardini aveva visto di tanto in tanto a Casedisopra. Dalla nascita, si erano allontanati al massimo per arrivare in paese. Il viaggio più lungo lo avevano fatto in una bara portata a spalla dal becchino di Casedisopra fino a un carro tirato da buoi che li aspettava sulla carrareccia di fondo valle. Le bare le reggevano, assieme a Gigi, tre volontari che, negli anni della loro gioventù, avevano conosciuto i defunti. Uno era Adùmas, non ancora pensionato e nel pieno delle sue forze.

La strada dal paese al cimitero i due defunti, da vivi, non l’avevano mai percorsa. Forse non avevano morti. O, se li avevano, non erano mai andati a visitare le loro tombe. Un viaggio troppo lungo per chi non aveva tempo neppure per i vivi.

Gli anni avevano ridotto male Ca’ del Bicchio. Lo avevano ritrovato, per caso, due giovani elfi arrivati lui dall’Austria e lei dalla Svezia. Si erano sistemati agli Stabbi dove c’era già qualche elfo.

Dopo, gli Stabbi si erano affollati un po’ troppo per le loro esigenze e s’erano messi in giro a cercare un’altra sistemazione. L’avevano trovata a Ca’ del Bicchio. Gli sembrò l’ideale. Prima di tutto perché, al centro del borgo, c’era ancora una fontana che buttava acqua nel lavatoio. Poi, se anche fossero arrivati altri elfi, non sarebbero comunque mai stati numerosi come agli Stabbi, visto che le abitazioni disponibili erano sei. Sette con l’ovile e il fienile.

Marco ci arrivò nel pomeriggio avanzato. Il sentiero lo portò al centro dell’insediamento e subito vide Armonia, la ragazza che aveva conosciuto durante la riunione con quelli degli Stabbi. Era china sul lavatoio a sciacquar panni.

«Salve» la salutò da lontano.

Non abituata a sentire voci straniere, la ragazza si voltò di scatto. Riconobbe il forestale, gli sorrise e «Ancora per quel morto?» chiese.

«No, stavolta per un vivo. Cercare persone è ormai il mio mestiere.»

Da una delle abitazioni uscì il giovane rasta dai capelli biondi. «Che ci fai da queste parti, forestale?» e si avvicinò. «Ce l’hai una sigaretta?» e sedette sul bordo del lavatoio.

L’ispettore offrì ad Armonia, che rifiutò con un cenno del capo, e a Biondorasta. Sedette accanto al giovane.

Camminava dalle cinque del mattino, accidenti. Si meritava una sosta e una sigaretta.

Fra un tiro e l’altro, «Mi avete parlato di un giovane arrivato qui da poco. Come lo avete chiamato?».

Biondorasta guardò Armonia: non ricordava. Glielo ricordò lei: «Solitario. Gli abbiamo parlato di Solitario».

«Dove abita?»

Biondorasta indicò due fabbricati isolati dal complesso del borgo: casa colonica, ovile con sopra il fienile. «Si è sistemato provvisoriamente nell’ovile. Ci sta bene fin tanto che è estate. Per ’st’inverno dovrà farci qualcosa» e sorrise. «Sempre che ci arrivi, a ’st’inverno.»

«Perché?»

«Te l’ho detto: non mi sembra in piena salute.»

«Mi accompagni?»

Senza rispondere, Biondorasta diede l’ultimo tiro, gettò la sigaretta e si avviò.

Anche Marco aveva finito la sua. Spense la cicca nell’acqua della vasca e la gettò poi a terra calpestandola. «Ci vediamo dopo, Armonia» e seguì il giovane.