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Una notte da ricordare

Fra gli applausi, un tizio salì sulla ruspa e la benna cominciò a scavare con precauzione. Si scoprirono, e vennero tolte, le onduline e poi le pietre e finalmente apparve il maiale, accolto da grida festose.

Sempre con molta delicatezza, la benna se lo caricò sopra e lo scaricò sul tavolo dove, tolta la copertura d’alluminio, la bestia apparve, ancora fumigante.

Squarciato con un coltellaccio il ventre del suino, una quantità di polli, salsicce e patate si rovesciò sul tavolo. La comitiva vi si sistemò attorno e i piatti si riempirono presto di salsicce e patate, pezzi di pollo e di maiale che alcuni addetti stavano tagliando.

Il vino circolava. C’erano le posate, ma i più mangiavano con le mani, addentando anche grosse focacce tonde che una donna aveva portato, cotte in un forno a legna che probabilmente stava in una delle case del borghetto.

Gherardini guardò Elena, reggendo un grosso pezzo di maiale con le mani. «Sembra una festa pagana, non trovi?»

«Ne hai viste molte di feste pagane?»

«Immagino siano state così. Questa roba è buonissima. Cosa ne dici?»

«Niente da dire, è davvero buona» rispose Elena, che stava succhiando un’ala di pollo. «È molto meglio di quello che ti ho preparato io?»

«Be’, era buono anche quello. Diciamo che era… un po’ più semplice, quasi monastico. Bevi un altro sorso» e le versò del vino.

La cena stava concludendosi. Tutti erano un po’ brilli e le risate si spargevano nella sera, assieme agli scherzi e alle voci un po’ roche.

Gherardini si guardò le mani unte. «Sarà meglio andare a lavarsele, vieni, qui vicino c’è una fontana.»

Andarono e si spruzzarono acqua, poi bevvero avidamente dalla cannella.

«Elena, per finire la giornata degnamente, perché non ci canti e suoni qualcosa con la chitarra?» le chiese.

Elena si sistemò una ciocca di capelli che le era calata sulla fronte. «Hai voglia di sentirmi cantare?»

«Certo, non ti ho mai veramente ascoltata. Sei brava?»

Lei alzò le spalle e, dopo un attimo di esitazione, andò al fuoristrada e prese lo strumento.

Ai primi accordi le si formò un cerchio attorno.

Cantarono tutti e di tutto, nella sera estiva, appagati dal cibo e dal vino che circolava ancora, le voci non ammaestrate ma di piena gola, con la soddisfazione di urlare, di far esplodere anche in quel modo una gioia che li riempiva tutti. Poi, quasi naturalmente, le voci si acquietarono, era calato il buio.

Gherardini disse: «Credo sia l’ora di andare».

In silenzio e dopo aver salutato tutti, salirono sul fuoristrada e ripresero la stradaccia verso la statale.

Vicino a un piccolo pianoro circondato da alberi, Marco spense la macchina. «Riposiamo un momento, è meglio se smaltisco un po’ il vino, se mi fermassero i carabinieri ci sarebbe da ridere.»

Si sdraiarono sull’erba.

Elena gli si fece accanto. «È stata una bella giornata. Sono stata bene.»

«Anch’io. Se non fosse per quella faccenda…»

«Il Ramingo?»

«Già, proprio lui.»

«Senti» disse lei dopo un po’ di silenzio. «Forse… non so se è un dettaglio importante, ma potrebbe aiutarti, non so se era lui, ma pensando al fatto della pistola di Joseph, insomma…» e si fermò.

Gherardini si alzò a sedere e la guardò. «Cosa vuoi dirmi? Che hai visto? Cosa sai?»

«Forse niente… Una sera, era buio, su agli Stabbi, ho sentito una litigata forte fra due persone, ma non ho visto niente e non so di chi o cosa si trattasse.»

«Cosa dicevano?»

«Non ne ho idea, parlavano in tedesco e non ho capito niente, solo che stavano litigando.»

«E non hai visto chi erano?»

«No, te l’ho detto, non so dirti altro.»

«E dopo? Non hai visto nessuno?»

«No, solo che… aspetta… su da noi, vicino a quella piazzetta dove c’è stata la riunione, poco dopo la litigata è passato Joseph.»

«Gliene hai parlato?»

«No, non vedo perché. Avrei dovuto parlarne anche con Nicola, allora. Era passato anche lui, poco prima.»

«Parla tedesco?»

«Chi?»

«Il Benelli Nicola.»

«No, tant’è che fatica molto a intendersi con Helga… Tra loro c’è… diciamo simpatia. Con Joseph… sai, lavorano assieme alla casa. Nicola vorrebbe che Helga andasse ad abitare con lui. Insomma, anche con Joseph parlano solo italiano.» Pensò a quanto aveva appena riferito a Marco. «Chissà da dove venivano quella sera, Joseph e Nicola. Insomma, ti ho detto quello che sapevo.»

Anche Gherardini rifletté. «Nient’altro?»

Elena annuì. «Mi dispiace.»

«Non ti capisco, Elena. Mi racconti le cose un poco per volta… Prima la pistola, adesso la lite… Poi, che altro? Perché?»

«Devo capire se sono cose che possono esserti utili.»

«Facciamo che tu racconti e io decido se mi sono utili…»

«… poi non voglio procurare guai ai miei amici che non c’entrano con i tuoi problemi.»

Marco si rese conto di essere stato brusco e l’abbracciò. «Scusami… questa storia mi sta rovinando la vita.»

Lei ricambiò l’abbraccio e restarono un poco in silenzio, stretti.

Poi Marco la lasciò e si alzò.

«Mi sa che si è fatto tardi per portarti su agli Stabbi. Perché non resti a dormire da me?»

Elena lo guardò e sorrise. «Volentieri.»

La luna splendeva piena quando arrivarono a casa di Marco.

«Vuoi mangiare qualcosa?» chiese mentre scendevano dall’auto.

«Scherzi? Dopo l’abbuffata, mi va solo di buttarmi sul letto.»

«Anch’io» le sorrise Marco. «Soprattutto se su quel letto ci sarai tu.»

«Ci sarò sì, ma per dormire.»

«Veramente io avrei altre intenzioni.»

«Cattive, immagino.»

«Dipende» e cominciò a scaricare le cose di Elena.

Chitarra, cesto, zaino…

«Accidenti!» e si bloccò con lo zaino in mano.

«Che c’è?»

«C’è che sono un gran coglione. Cos’è questo?»

«Lo vedi: il mio zaino.»

«E cosa ci tieni dentro?»

«Le cose che mi potrebbero servire.»

«Appunto. Anche Adùmas.»

«Adùmas?»

«Scusami, ma non posso tenerti compagnia sul letto…»

«Cosa vuol dire?»

«Vuol dire che devo lasciarti. Sistemati come a casa tua, non aspettarmi e…» le aprì la porta, le accese la luce, l’abbracciò… «Scusami, scusami.» Uscì di corsa.

Dalla porta, Elena gridò: «Mi vuoi spiegare…».

«È una storia lunga e complicata.» Salì sull’auto e prima di chiudere lo sportello, gridò ancora: «Fa’ come se fossi a casa tua».

«Maledetto forestale» mormorò lei. Ma sorrise.

Fissò i fanalini posteriori fino a quando sparirono alla curva. Uno sguardo alla luna ed entrò.

Dormivano. «Mi dispiace» si giustificò con se stesso, «ma è un’emergenza.»

Tenne il dito sul pulsante del campanello fino a quando non si accese la luce nell’ingresso. Continuò a premerlo mentre dentro si bestemmiava in friulano.

A Gherardini venne spontaneo un sorriso anche se non era il momento.

«Ho capito, ho capito!» e la porta si spalancò. «Che accidenti succede!» urlò Farinon, apparso in mutande. Mise a fuoco Gherardini, al cancello. «Ah, sei tu» e premette il pulsante dell’apertura.

«Vestiti e vieni con me» disse l’ispettore restando al cancello.

«Qualche guaio?» chiese prima di rientrare per eseguire l’ordine.

«Spero di no. Sbrigati» e lo aspettò sul fuoristrada.

«Devo prendere l’arma?» chiese il sovrintendente, mostrandosi sulla soglia vestito con la divisa, berretto compreso.

«Non importa» e sottovoce: «Almeno lo spero».

«Dove si va a quest’ora…» chiese Farinon appena seduto e con l’auto già in movimento, «… e con tanta fretta?»

«A prendere Adùmas.»

«Avrei dovuto tirar su almeno la pistola» commentò alla novità. Non chiese dove, come e perché. Era sicuro che Poiana lo avrebbe aggiornato prima di arrivarci a quel dove.

Infatti: «Ricordi lo zaino che abbiamo visto nel fienile della Ca’ Storta? Sono sicuro che Adùmas è tornato a prenderlo».

«Proprio stanotte?»

«Ieri nel primo pomeriggio ha sequestrato Solitario, e non è rientrato alle Vinacce perché ha bisogno di due o tre giorni per convincere qualcuno prima di tornarci. Dove può essere? Dove ha lasciato lo zaino.»

Andava veloce, l’auto, e i fari illuminavano una strada che Marco Gherardini avrebbe potuto percorrere a occhi chiusi.

Farinon non chiese chi fosse Solitario. A suo tempo glielo avrebbe detto. Poiana era fatto così e lui lo sapeva. Collaborava da anni con il giovane ispettore.

Come per la precedente visita, Marco fermò a distanza di sicurezza dalla Ca’ Storta, presero le due torce elettriche e si avvicinarono a piedi e silenziosi, oltre la siepe che costeggiava l’ultimo tratto di strada: Adùmas aveva occhi abituati alla penombra del sottobosco. E quella notte una luna troppo splendente illuminava la sterrata. Le loro ombre, nitide, seguivano l’andamento del terreno.

L’utilitaria di Adùmas era parcheggiata sotto il portico della stalla e Marco fece segno a Farinon di aspettarlo accanto alla porta di casa. Solo dopo essere salito in fienile accese la torcia. Andò dove ricordava fosse nascosto lo zaino. Il fieno era sollevato e lo zaino non c’era più. Scese.

«È in casa» sussurrò a Farinon. «Vai sul retro, se mai si buttasse dalla finestra.»

Sapeva che la porta avrebbe emesso il caratteristico cigolio di cardini arrugginiti e cercò di aprire molto lentamente. Non evitò un lieve ma prolungato stridore.

Il fascio di luce della torcia frugò negli angoli della cucina, dietro i mobili e le porte socchiuse. L’ispettore salì con precauzione la scala: anche i gradini di legno vecchio e tarlato avevano il loro modo di annunciarlo.

Prima di arrivare al pianerottolo spense la torcia. La porta della stanza era socchiusa. La spinse…

«Puoi accendere la luce, Poiana» disse Adùmas.

Il fascio della torcia lo illuminò, vestito e seduto sul letto, la schiena appoggiata alla spalliera, le mani conserte. Indossava gli anfibi militari.

Prima di girare l’interruttore, Gherardini passò il fascio luminoso attorno fino a centrare cartucciera e fucile appesi al pomello di ferro ai piedi del letto. Fuori portata.

Accese la luce.

Sdraiato accanto a Adùmas, Solitario dormiva beato. Anche lui vestito e con ai piedi due scarponi da montagna.

«Ce n’hai messo di tempo» disse Adùmas. «Potevi risparmiarti il viaggio. Appena fatto giorno sarei venuto io da te.»

Scese, fece il giro del letto e stava per prendere fucile e cartucciera.

«Lascia» disse Gherardini. «Prendo tutto io. Pesano troppo per te.»

«Guarda, Poiana, che stai sbagliando tutto.»

«Lo so, ma l’armamentario lo porto io.»

Adùmas si strinse nelle spalle. «Come ti pare» e andò accanto a Solitario che, nonostante le chiacchiere e la luce accesa, continuava nel suo sonno tranquillo. Lo guardò, borbottò: «Beata gioventù» e lo scosse senza riguardo. «Sveglia, sveglia, giovane: si parte.»

Una notte da ricordare come la fine dell’incubo per una possibile mattana di Adùmas. E per l’incontro d’amore con Elena. Rimandato a chissà quando e a chissà se.