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Altro incontro inconcludente
Seguiva, ormai distrattamente, le ultime chiacchiere, o meglio le discussioni fra i vari elfi sulla Festa dell’Arcobaleno.
Quando lo avevano invitato senza spiegargli il motivo, aveva accettato: sarebbe stata un’occasione per guardare in faccia gli elfi e cercare di capire cosa nascondevano e perché tanta ostinazione nel farlo.
Per ciò era lì, per studiarli mentre parlavano. In particolare quelli che aveva già conosciuto: Giacomo, Joseph, Elena, Nicola, Helga, la ragazza tedesca. Ma anche quelli che non aveva mai incontrato. Possibile che nessuno di loro avesse conosciuto il Ramingo? Casedisopra non era una metropoli. Ci si incontrava più o meno tutti e spesso.
Era questo il suo pensiero principale, al di là delle elucubrazioni sulla festa. Gherardini era d’accordo su quello che avevano detto e ridetto, sulla necessità di lasciare il bosco intonso, di lasciarlo pulito dopo, sull’attenzione che avrebbero dovuto fare a eventuali fuochi accesi, in una stagione abbastanza arida. Ma la sua mente correva sempre a quel tizio faccia a terra, col collo spezzato, tracce di polvere da sparo sulle mani, e alle cartucce fatte in casa.
Li guardava. Elena ricambiava lo sguardo, con una luce differente negli occhi, di complicità, forse di affetto.
C’era Giacomo, il fabbricante di sandali che non vendeva, diceva “noi ci scambiamo le cose”, e tanti li avevano quei sandali, anche il morto: come li aveva trovati, cosa aveva scambiato, se nessuno sapeva chi fosse?
Poi c’era Joseph, l’italo-tedesco che aveva finto di non parlare italiano quando lui per l’ennesima volta, inutilmente, aveva fatto girare le fotografie scattate all’obitorio, nelle quali il volto del morto si vedeva distintamente. Si era soffermato un po’ più a lungo degli altri a guardarle; o era solo sembrato a lui?
Tutti le avevano guardate distrattamente, anche Elena, e pure la sua amica tedesca, Helga, e Nicola.
Si rese conto che Nicola era il solo del quale conosceva il cognome: Benelli. Degli altri presenti non sapeva neppure i nomi.
Era un gruppo abbastanza numeroso, un’assemblea di quasi tutti i villaggi elfici della vallata, di qua e di là dal fiume. Seduti a terra in circolo, si passavano ogni tanto un bottiglione di vino che Gherardini aveva appena assaggiato, per cortesia.
Ragazzi e ragazze, quasi tutti giovani o giovanissimi. Non c’era un capo, uno che desse o togliesse la parola a chi voleva intervenire; a turno alzavano la mano e dicevano il loro parere, con calma, e le discussioni erano pacate, con grande tolleranza e rispetto reciproco.
L’ultimo che aveva parlato tacque.
Gherardini, che seguendo i suoi pensieri si era distratto, si accorse che tutti lo guardavano aspettando il suo parere.
«Mi sembra che siate tutti d’accordo» disse. «Io spero che siano rispettate le regole che abbiamo stabilito. Tutto qui.»
«Tutto qui niente» disse Giacomo. «Avremmo potuto fare da soli, senza avvisare nessuno. Ti abbiamo avvertito e ti abbiamo chiesto di venire per ascoltarci, ma anche per sentire le tue ragioni, le tue eventuali obiezioni. L’abbiamo fatto solo per sottolineare che vogliamo convivere in tranquillità con gli abitanti della zona, anche se dove siamo noi non ce ne sono quasi più, e con le autorità. Ti ringraziamo di essere qui con noi, ma mi sei sembrato un po’ distratto. O no?»
«Forse. Ma pensavo a quel poveretto che sapete. Possibile che nessuno di voi ne sappia niente, che non l’abbiate mai visto? Cos’è, un fantasma apparso improvvisamente a Casedisopra solo per morire in fondo a un grotto?»
Non era così e Poiana lo sapeva. Qualcuno lo aveva visto, il Ramingo. Almeno due persone: Berto, il contadino che stava nel podere accanto alle Vinacce dove abitava Adùmas, sempre che non gli avesse raccontato una favola. E c’era Adùmas.
«Per quello che ne so io, a Ca’ del Bicchio non s’è visto. È da un po’ che non arrivano dei nuovi.» A parlare era stato un ragazzo magrolino, dai capelli biondi rasta, disordinati sulla testa. «Cosa dici, Bosco, e tu, Armonia?»
«Ce n’è uno arrivato di recente: Solitario» disse la ragazza di nome Armonia, una graziosa figurina con ampia gonna di jeans e una camicetta a fiori. Parlava con spiccato accento piemontese, che faceva un curioso contrasto con l’ambiente.
«Giusto» disse il Biondorasta. «Me n’ero dimenticato. Ma Solitario non somiglia proprio a quel poveraccio che ci hai fatto vedere. Soprattutto è vivo e l’ho visto stamattina presto, prima di partire per venire qui. Vivo e in forma.» Sorrise. «Oddio, proprio in forma no. Come sempre.»
«Forse da noi non è mai passato» disse Armonia. «Ca’ del Bicchio è di là dal fiume, un po’ lontano.»
«È davvero un po’ lontano, ci abbiamo messo quasi un’ora per arrivare qui» confermò Bosco.
«Sarà un po’ lontano, ma avete saputo subito del morto trovato qui, dall’altra parte del fiume.»
Tutti risero.
«Qua le notizie che ci riguardano volano per l’aria, e ci arrivano fresche fresche senza telefoni o altre balle che adoperate voi» disse Nicola con una nota di astio nella voce. «Quello che succede in un villaggio si sa subito dappertutto; se uno sta male, se un animale dei nostri ha problemi, se una è incinta, se è nato qualcuno, se qualcuno è morto…»
Si interruppe e Gherardini intervenne:
«Sì, qualcuno è morto, ma di questo morto non sa niente nessuno».
«Te l’ho detto, forse era un ramingo» ed Elena lo guardò. «E di quelli sappiamo poco anche noi.»
«Già. I raminghi vanno e vengono, per un giorno, o una settimana, non si integrano» disse Joseph. «C’è libertà di andare e venire, non teniamo il conto di chi arriva, non chiediamo la carta d’identità. Siamo e vogliamo essere gente libera. Siamo venuti qui per questo. Be’, per oggi direi che basta, almeno per conto mio» e si alzò. Alzò anche la mano in un cenno di saluto a Gherardini.
Prese sottobraccio Helga e Nicola e si rivolse alla ragazza: «Traue nie einem Bullen1» e guardò Poiana. «Vor allem, wenn er so jung und gutaussehend wie Poiana ist. Sie bleiben immer Bullen und was immer sie auch sagen, sie sagen es um dich hereinzulegen.2»
«Perché non parli in italiano, Joseph, che ti capiamo tutti?» fece Nicola. «Che hai detto alla mia ragazza?»
«Le ho detto: ti amo e vorrei sposarti. Lascia perdere Nicola» e, al solito, scoppiò in una risata.
«Ridi, ridi, ma non sei divertente.»
«Lo so, ma sono concreto. Come il vostro Poiana» e se ne andò portandosi dietro Helga e Nicola, le mani sulle spalle di entrambi.
Gherardini li guardò allontanarsi e poi si avviò anche lui.
«Ti accompagno per un po’» disse Elena.
La ragazza gli camminava a contatto di spalla, sullo stretto sentiero. E a Marco piaceva quel leggero sfiorarlo.
«Che ha detto Joseph a Helga?»
«Non lo so, non conosco il tedesco. Ho capito la parola Bulle. Joseph la usa spesso e l’ho imparata: Bulle, cioè sbirro.»
«Bulle che sarei io, visto che ha pronunciato anche Poiana. Lo conosci bene quel tizio, Joseph?»
La ragazza si fermò. «Oh, Poiana, vuoi farmi diventare la tua infiltrata?» Riprese a camminare. «Scherzo anch’io. Sì, lo conosco da quando è arrivato qui, qualche giorno dopo Nicola. È un po’ leggero, ma un buon ragazzo.»
Per un po’ andarono in silenzio. Poi di nuovo Elena: «Mi sembri scontento».
«Più che scontento, insoddisfatto. Non riesco a venire a capo di questa storia. Mi è capitato fra le mani un morto a cui non riesco a dare un nome, figurati se trovo quello che ha contribuito a renderlo tale.»
Elena si fermò: «Quand’è che tornerai a invitarmi a cena? O ti sei già dimenticato di quella nottata?».
Poiana la guardò con tenerezza. Le accarezzò i lunghi capelli neri e le mise le mani sulle spalle: «Secondo te, come faccio a dimenticarmi quell’incontro?».
«Allora invitami ancora.» Sorrise. «Ho mangiato proprio bene quella sera.»
Marco se la strinse vicino. Si baciarono.
«Vieni quando vuoi.» Un’ultima carezza sui capelli. «È meglio che vada» e fece per allontanarsi.
«Aspetta.» Marco la guardò e lei accennò col capo verso il cielo. «È ora di pranzo. Che ne diresti se intanto ti invitassi io?»
«Non sarebbe una cattiva idea. Ho un certo appetito…»
«Non pensare a chissà che. Un pranzo all’elfa, con ingredienti nostri o preparati da noi.»
«Purché siano commestibili.»
Elena abitava lì agli Stabbi. Una casa dai muri spessi, di sasso, piccola, appoggiata a una più grande. Due locali al piano terreno. Tetto a una falda che, nella parte alta, si appoggiava alla struttura più grande. Due sole finestre ai lati della porta. Tutte aperture piuttosto piccole.
Gli esperti chiamano questo tipo di costruzioni “architettura spontanea”. Al fabbricato originario si aggiungevano, man mano che la famiglia aumentava, altri vani e il risultato era un alternarsi di volumi, l’incastrarsi di un ampliamento nell’esistente. Ne veniva un complesso piacevole in un ordinato disordine.
Elena aveva arredato alla meglio i due vani. Un tavolo, quattro sedie, una vecchia credenza… Alcune cassette di legno, da frutta, sistemate una sull’altra e senza il fianco in modo da poter prendere gli oggetti senza doverle spostare ogni volta: contenevano pochi tegami, posate, alcune tovaglie, coltelli pesanti, di quelli che si usano per tagliare pezzi di carne o per triturare verdure.
Su tre mensole nel muro opposto all’ingresso c’erano mazzetti di fiori secchi e bacche; gabbiette e animaletti costruiti con i rami flessibili delle ginestre intrecciati con precisione.
Sul pavimento sotto le mensole, cestini di vimini e la custodia della chitarra appoggiata al muro.
Una serie di tegami era appesa al muro accanto al lavello. Dall’altra parte dello stesso, Elena aveva sistemato un tavolino di ferro con sopra il fornello e sotto la bombola di gas. Nella strombatura della finestra e sul davanzale, c’era un fornello di ghisa di quelli che si usano con il carbone.
Marco andò a guardarlo da vicino e a soppesarlo.
«Ce n’era uno così anche a casa mia» disse.
«Lo uso in estate per non consumare troppo gas.»
«Non so se ce la farei a vivere così» confessò Marco, «e mi chiedo se valga la pena.» Dopo una breve pausa: «Perché lo fai?».
«Un giorno ti spiegherò» e gli andò vicino, alzò il capo per sfiorargli le labbra. «Come dire: è una storia lunga e complicata.» Gli sorrise. «Adesso preparo.»
La porta dell’altro vano era aperta e Marco vi si affacciò. Due letti spaiati, due comodini altrettanto spaiati, un armadio dalle ante socchiuse e leggermente discosto dal muro.
Marco andò, lo spinse contro la parete e gli sportelli si chiusero lentamente. «Lo dico sempre: in casa ci vuole un uomo» e tornò in cucina. «Ci sono due letti…»
«In uno dorme Helga. Sta con me in attesa che Nicola sistemi la loro.»
«Come mai non è qui?»
«Hai visto, è andata a dare una mano a Nicola e Joseph. Le avevo chiesto se c’erano problemi a invitarti a pranzo. Mi ha risposto: “Io va per lavori con Nicola”. È una ragazza discreta.»