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Lungo i valichi dell’Appennino
Che gli avessero sottratto il caso al quale aveva dedicato tanto tempo e tante camminate, lo aveva infastidito. Era certo di essere vicino alla soluzione. Anche se la vedeva ancora annebbiata.
Pure il passaggio della forestale all’Arma dei carabinieri non gli piaceva.
“Se avessi voluto arruolarmi nella Benemerita lo avrei fatto” pensava. “Ho scelto la forestale e nella forestale vorrei rimanere.”
Le assicurazioni che i superiori si sforzavano di dargli non lo convincevano. E poi…
E poi e poi, polenta con i coi, diceva sua madre.
Decise di infilarsi a letto e dormire.
Non andò come avrebbe sperato: si rigirava nel letto, aveva caldo.
Si alzò per aprire la finestra; si gettò di nuovo sul materasso. Si addormentò senza quasi accorgersene. Un sonno agitato da strani sogni…
Si svegliò. Aveva dormito… quanto?
Erano le quattro.
Basta.
Si alzò e si fece un caffè. Lo bevve, si accese una sigaretta e tornarono i pensieri.
«Adesso cosa posso fare?»
Elena cominciava ad avere una certa importanza per lui. Non era come le altre volte.
«Via dalla forestale, va bene, ma sarà una svolta alla mia vita…»
Alle quattro e mezza decise. Andò a prendere lo zaino e il sacco a pelo…
Un amico, tenente nell’esercito, gli aveva regalato delle razioni K, quei pacchi con vettovaglie e generi di conforto da usare al campo. Prese quanto gli sarebbe servito: scatolette di carne, tubetto del latte condensato, barrette di cioccolato fondente amaro, qualche pacchetto di gallette e dei formaggini. Ci aggiunse il fornelletto con il combustibile meta, caffè liofilizzato, boccetta di anice e una busta di zollette di zucchero.
Riprese fuori la borraccia dell’esercito americano…
Non che rifiutasse quella italiana per disprezzo, ma quella americana aveva un cinturone che si poteva attaccare alla vita.
Nelle tasche della tuta mise il coltello Camillus dei marines, altro dono di un amico; coltello pratico e robusto, con lama d’acciaio. Si caricò lo zaino sulle spalle e fu pronto per partire.
Subito fuori e prima di chiudere la porta, si chiese: «Ma dove vado?» e fece per rientrare sentendosi un po’ sciocco, come un giovane boy scout alla prima avventura.
Poi, di colpo, l’idea di dove andare. Era lontano, fuori dal suo abituale territorio, dall’altra parte dei villaggi degli elfi.
Meglio: più lontano possibile dai problemi che gli avevano dato.
Prese il bastone di legno di castagno che teneva sempre appoggiato all’interno, chiuse la porta di casa e partì.
Camminava da più d’un’ora ed era ancora fresco. Aveva iniziato di buon passo e già il sudore si faceva sentire. Arrivato in quota, aveva proseguito lungo il crinale, superando un rifugio della forestale toscana, sull’altro versante. Aveva sperato di incontrare qualche collega e magari ci sarebbe stata bevanda calda.
Al rifugio non c’era nessuno, e dentro non trovò niente di commestibile.
“Accidenti a voi” pensò, “ve lo meritate proprio di diventare carabinieri!”
Prese dallo zaino la barretta di cioccolato ma non riuscì a romperla coi denti e dovette, sacramentando, usare il coltello. Si mise in bocca un pezzo di cioccolato e proseguì per un sentiero stretto, scavato nella terra dai passi di chi l’aveva percorso chissà da quando. Era sovrastato dai baggioleti, i prati delle piante di mirtillo. Più sotto, al limite della vegetazione, dove trionfava il verde di un bosco di faggi, il sentiero seguiva l’andamento della cresta del monte, a semicerchio. Ancora sotto si apriva la vallata, a gradoni successivi, un mare di verde appena offuscato da una leggera foschia.
In mezzo al sentiero sgorgava una sorgente ricca d’acqua che zampillava con forza e si perdeva giù per un canalone.
Bevve avidamente quell’acqua freschissima, si lavò il volto e le mani e riempì la borraccia.
Seduto su un masso, si guardò attorno: a est, annunciato da un chiarore vago, poi più forte, era appena sorto il sole e un improvviso piacevole calore lo avvolse.
“Avrei dovuto passare da Elena” pensò, “almeno per salutarla. O chiederle di accompagnarmi. Le sarebbe piaciuto quassù.”
Da Elena al Ramingo, fu un attimo. Marco le doveva molto, lo aveva aiutato e senza le sue informazioni non avrebbe fatto progressi.
Intanto la pistola di Joseph. Se non gliene avesse parlato lei, non avrebbe mai saputo che era un collega della polizia tedesca.
Poi la discussione piuttosto animata fra due che parlavano tedesco. Sempre lei.
Peccato che non li avesse visti.
Possibile? Era buio, bene, ma la curiosità di sapere chi erano? Un’ombra che si allontanava, dopo? O riconoscerli dalle voci? Non erano poi in molti, su agli Stabbi: Helga, Joseph, Elvio, Sottobosco e Verdiana. Oltre a Elena. Solo Helga e Joseph parlavano tedesco.
A meno che…
A meno che qualcun altro conoscesse il tedesco e gli elfi non lo sapessero.
Perché non qualcun’altra?
L’idea che stava per formarsi non gli piacque.
Se avesse dubitato anche di Elena, cosa gli sarebbe rimasto?
Preferì optare per un elfo di passaggio agli Stabbi.
Per esempio Solitario.
Perché no?
“Intanto conosce il tedesco… un po’, sostiene lui. Gli devo credere? E come fa Elena, che di tedesco non ne macina mezza, a sapere che i due discutevano in un buon tedesco?”
Elena!
Di nuovo, accidenti!
Tornò a Solitario.
Era il solo che avesse incontrato Ramingo, anzi, lo aveva ospitato e lo aveva accompagnato a cercare… chissà chi!
La sua aria innocua, timorosa…
“Sono i più pericolosi. È stata l’ultima persona, fra quelli che conosco, a vedere Ramingo vivo, e se diamo retta a chi se ne intende, l’ultimo ha molte probabilità di essere il colpevole. Gli ha dato i suoi sandali…”
In un lampo rivide alcuni piatti e posate, un tegame, una radiolina, una pila con qualche libro, un sacco da spalla, un cellulare scarico…
E un fagotto di abiti dai quali spuntavano i tacchi di un paio di sandali.
Nella stalla di Ca’ del Bicchio dove si era sistemato Solitario.
“Non li aveva dati al Ramingo?”
Solitario!
Molte cose non tornavano. A cominciare dal fatto che Ramingo non avrebbe mai sospettato di lui.
Le cose si complicavano e lasciò perdere, in attesa di altri elementi.
Prima di riprendere la camminata pensò bene di mangiare qualcosa.
Cosparse alcune gallette con i formaggini. Non ne fu soddisfatto. “Mangerò meglio stasera”, e si alzò per riprendere il suo viaggio.
Il sentiero si fece più aspro e roccioso e più erto, ricoperto di piccole pietre che rotolavano sotto ai suoi piedi. Nel lato a valle non c’era più il declivio dolce di prima ma un deciso strapiombo, per cui dovette fare attenzione a dove metteva i piedi. Il sentiero saliva sempre più e fu necessario aggrapparsi a qualche roccia sporgente. Scivolò qualche volta, provocando piccoli smottamenti di terra morbida.
Finalmente raggiunse un ampio pianoro: era giunto sulla cima del monte, il più alto della zona. Si fermò a riposare e ad asciugarsi il sudore.
Il panorama era fantastico: dalla cima si arrivava lontano con lo sguardo, una serie ininterrotta di catene montuose. Sapeva che, nelle giornate veramente limpide, guardando verso ovest si sarebbe potuta intravedere la linea della Corsica, ma solo nelle giornate di estrema visibilità, quelle del primo autunno, fredde. Non quel giorno che già il calore del sole rendeva l’orizzonte incerto di umida foschia.
Sotto, a sinistra, a una certa distanza riluceva lo specchio di un piccolo lago glaciale, l’acqua appena increspata da una leggera brezza.
Attorno, non un rumore, né voce umana. Sapeva però che in quella stagione, di lì a poco, sarebbero arrivati presso le sponde del lago torme di turisti vocianti, non certo per bagnarsi, perché le acque erano basse e gelate, ma a fare picnic sull’erba o mangiare nel rifugio prefabbricato che sorgeva vicino alla riva.
Non gli andava di incontrare gente, era salito per stare solo e riflettere anche se, a dire il vero, avrebbe piuttosto voluto dimenticare. Soprattutto dopo il pensiero che riguardava Elena e che non gli era piaciuto.
Prese giù per uno stretto sentiero pieno di macigni. Aveva in mente di raggiungere un altro lago, ed era ancora lunga.
Arrivò a una strada asfaltata e a uno spiazzo dove potevano far manovra le automobili. Per fortuna non ce n’erano.
Una fontana, circondata da un muretto di pietra, buttava acqua da un tubo di ferro umido di condensa. Proprio di fronte alla fontana, attraversando la strada, c’era l’inizio di un sentiero che portava in basso, verso un torrente che scorreva in fondo alla discesa.
A passo veloce lo raggiunse, lo attraversò e trovò quasi subito il sentiero che saliva. Un percorso non facile, evidentemente poco praticato e pieno di piante che rendevano difficile il passaggio. Prese la salita di buona lena, anche se il caldo cominciava a farsi sentire e, dopo circa un’ora di cammino arrivò sopra la vegetazione.
Si apriva una vasta prateria, senza nessuna pianta in vista, fitta d’erba giallastra cotta dal sole che, a quell’ora del pomeriggio, picchiava implacabile.
Si incamminò verso nord ovest, dove sapeva che avrebbe trovato quel piccolo lago montano, poco più di uno stagno, al centro del quale, in piccole isole affioranti, avrebbe potuto trovare la Drosera rotundifolia, una piccola pianta carnivora; l’unica di quella specie, a quanto conosceva, presente in Italia.
Camminò lentamente, solcando l’erba alta, il passo non più deciso. Era ormai stanco e la notte quasi in bianco e la lunga distanza che aveva percorso lo rendevano malfermo sulle gambe.
Improvvisamente vide, a poca distanza, una sagoma scura correre veloce fra l’erba. Si fermò, aguzzò lo sguardo, proteggendo gli occhi col dorso della mano per difendersi dal riverbero del sole.
Era un cavallo, solo, senza sella: un cavallo brado. L’animale caracollò e nitrì, poi partì di gran carriera fendendo l’erba.
Gherardini si fermò per riprendere fiato e per guardare quell’animale che correva libero, come uno stallone che aveva visto in tanti film western.
Cosa ci faceva lassù? Forse c’era un’abitazione relativamente vicina, che lui non vedeva, dove si allevavano cavalli.
Il cavallo, galoppando libero, sparì verso il fondo del pianoro e Gherardini riprese la sua marcia.
Dopo un’ora circa di cammino arrivò in vista del lago.
Non era proprio un lago ma piuttosto una torbiera, forse l’unica dell’Italia del Nord. Le acque, basse e un poco paludose, erano increspate da un soffio di vento.
Il lago della drosera l’aveva raggiunto ma non aveva nessuna voglia, al momento, di andare a cercare la pianta. Gettò a terra lo zaino che cominciava a segargli le spalle, estrasse la borraccia e bevve una grande sorsata d’acqua; poi, usando lo zaino come cuscino, si sdraiò al suolo e si mise a guardare il cielo, completamente azzurro tolta qualche nuvola bianca, a palloncino.
Si accese una sigaretta e guardò il fumo salire verso l’alto e disperdersi nell’aria. Non aveva pensieri, era stanco ma appagato; un senso di spossatezza, di quiete e pace, lo stava prendendo. In un certo modo si sentiva felice.
Fu per poco che il Ramingo tornò a tormentarlo con i due colpi di fucile che avevano dato inizio alla complicata vicenda. Gli ci volle un attimo per arrivare a Paolino dei Campetti.
Una parte della pensione che ritirava ogni mese dall’ufficio postale veniva dalla Germania.
“Ci è stato a lavorare” ricordò. “Avrà imparato il tedesco…”
Possibile?
Non poteva lasciar fuori nessuno!
Tornarono anche gli Stabbi. Ricordò il racconto di Solitario. Lui e il Ramingo stavano tornando da lì e Ramingo disse che aveva trovato l’amico e che non dovevano più cercare…
Gli Stabbi: lì stava la soluzione. Ma dove trovarla?
Con quella domanda in mente finì la sigaretta. La spense e pian piano, senza accorgersene, chiuse gli occhi e si addormentò.
L’ultimo pensiero conscio fu ancora una domanda. Quella che gli aveva fatto Adùmas: “Perché non una?”.
Una!
Ecco che si riaffacciava Elena.
Preferì pensare che il colpevole non fosse da cercare fra gli elfi e venisse da fuori.
Ci avrebbe ragionato su.