37.
Il telefono si mise a squillare in modo insolitamente acuto, e Corell sobbalzò come se gli avessero dato un pugno. Il suono sembrava portare con sé una nuova minaccia e, poiché Farley non si muoveva, Corell ebbe il tempo di pensare che avrebbe lasciato perdere; invece Farley si alzò.
«Rispondo io.»
C’era qualcosa di solenne nel suo modo di afferrare il ricevitore.
«Sì, sì, naturalmente. È qui. Gli ho parlato.»
A Corell sembrava una conversazione fra carcerieri. Captò una voce severa e sgradevole all’altro capo del filo e sentì lo stomaco chiudersi. Ma la situazione non diventò così preoccupante come aveva temuto. I sì di Farley si trasformarono in una serie di no.
«No, no, ti sei fatto un’idea esagerata. Non c’è nessun pericolo, questo è certo. È stato solo un po’ imprudente, e no, non sono state diffuse informazioni riservate. Sinceramente, mi pare che non sappia molto. Tranquillizzati, Julius... Hai capito quello che ti sto dicendo? È tutto sotto controllo.»
I carcerieri sembravano avere opinioni diverse. Farley cercava di difenderlo, e la conversazione si era trasformata in un combattimento fra un amico e un nemico.
«Sì, è chiaro che continueremo a investigare, ma ora mi stai veramente preoccupando... No, non dare ascolto a Mulland, per l’amor del cielo. Ha preso una gran cantonata. E ha agito senza un minimo di buon senso... ha picchiato... quello è fuori di testa, semplicemente... Dio santo, Julius, tu non vuoi capire. No, ti dico. No! Adesso devo lasciarti. Ti saluto.»
Farley riattaccò e Corell si sforzò di non chiedere spiegazioni. Tenne lo sguardo fisso su un punto in cui la coperta, più o meno sul suo petto, somigliava a una faccia, poi chiuse gli occhi fingendo di dormire. Julie comparve nei suoi pensieri; Julie che amorevolmente vestiva il manichino nella vetrina.
«Sono libero di andare?» chiese.
Farley parve esitare. Era infastidito dalla conversazione telefonica.
«Lo sei. Ma non credo che sia consigliabile, da un punto di vista strettamente medico. Dovremmo chiamare un dottore.»
«No, no. Voglio solo andarmene.»
Corell era in preda a un’improvvisa impazienza.
«E dove?»
«Non lo so. Via, e basta. Da mia zia a Knutsford.»
«Okay, ti aiuterò ad arrivarci.»
*
Farley non capiva cosa gli fosse venuto in mente. Non era affatto convinto dell’innocenza di Corell, come invece aveva mostrato di essere con Pippard. Ma riteneva che Corell dovesse essere aiutato dopo tutto quello che era successo, e poi era curioso di conoscere la famosa zia, che stando alle loro note era una vecchia suffragetta lesbica con un vivace interesse per la letteratura. Somerset era convinto che la donna fosse la chiave del comportamento del poliziotto, e lui, anche se non era del tutto d’accordo – raramente le chiavi erano così semplici –, riteneva di avere comunque intuito che in zia Vicky potesse esserci qualcosa di interessante. Inoltre, voleva andarsene dall’albergo prima che Pippard o qualcun altro s’immischiasse ancora di più, perciò tirò fuori la sua rubrica telefonica.
Erano molti quelli che poteva chiamare, per cui lui stesso in seguito si sarebbe stupito di avere scelto proprio Ingram. Come se, più che un amico o un collega, cercasse una sorta di complice. Jamie Ingram era la pecora nera della famiglia Ingram, quella del banchiere. Non che fosse un criminale o anche solo una persona esageratamente disonesta, ma era uno scandalo ambulante, beveva troppo e amava provocare. Più volte era comparso ubriaco alle lezioni di Farley e si diceva che avesse gettato nel fiume la bicicletta del responsabile del suo convitto dopo uno stupido battibecco su una partita di bridge. Ma almeno non avrebbe sparato giudizi di fronte ai deragliamenti altrui, sapendo quanto facilmente potesse accadere. E doveva un certo numero di favori a Farley. Infatti, fu contento di poter essere d’aiuto.
«È nei guai, mio buon professore? Spero sinceramente che ci sia di mezzo una donna!»
«No, e purtroppo non sono nemmeno ubriaco. Allora, può raggiungermi?»
Jamie Ingram arrivò su una Aston Martin bianca, nuova, che aveva preso in prestito dal padre, un’automobile un po’ troppo appariscente per i gusti di Farley, in particolare se si trattava di trasportare un poliziotto ammaccato da una zia a Knutsford, ma il gesto era comunque commovente.
«Bisogna fare bella figura» spiegò.
Proprio come l’automobile, Ingram aveva un aspetto un po’ troppo stravagante. Indossava una sciarpa rossa sopra una giacca di lino e i capelli biondi parevano arruffati ad arte, ma fin dal primo istante si comportò con naturalezza e professionalità. Per esempio, ebbe il buon gusto di non domandare cosa fosse successo. Con molta premura aiutò Corell a mettersi in piedi e gli offrì del bourbon dalla sua fiaschetta, un goccetto, come disse. Trovò anche il modo di lodare lui e il suo vestito ormai lercio.
«Un bel bagno e un passaggio in tintoria, e sarà nuovamente pronto per i salotti.»
Poiché la schiena di Farley era fuori uso, Ingram dovette sostenere da solo Corell mentre scendeva le scale; Farley pagò il conto, e Ingram fu così incredibilmente alla mano che la vita per un attimo sembrò un po’ meno complicata. Dopo aver dato a Farley le chiavi e alcune istruzioni sull’uso dell’automobile, aggiungendo le parole papà non se la prende anche se fate qualche piccolo incidente, Ingram si dileguò con la sua eleganza disinvolta senza nemmeno aver detto quando e come avrebbero dovuto provvedere alla restituzione. Farley pensò che quei ricchi scapestrati noncuranti qualcosa di buono l’avevano. Pretendevano poco dagli altri, come da se stessi.
«Grazie mille. Mi farò vivo» gli disse, ma Ingram era già troppo lontano, e lui si rivolse invece a Corell.
Era seduto a fianco del posto di guida, pallido e accasciato, e pareva che niente potesse più stupirlo, né l’automobile né altro. Farley gli disse di aspettare. Attraversò la strada e comprò cioccolato, succo d’arancia, pane fresco e prosciutto. Prima di partire mangiarono, e sulle guance di Corell ritornò un po’ di colorito. La sua parlantina però era esaurita. Disse solo che i dolori alla nuca e alla testa si stavano attenuando, e che non voleva assolutamente vedere un medico, voleva andare da Vicky.
«C’è una cosa che voglio raccontarti» aggiunse, dopo di che si mossero verso nord in silenzio.
Fuori stava calando il buio. Il traffico si diradava e le strade si allungavano come braccia inquiete. Farley stringeva il volante e desiderava fortemente un libro, o qualcosa che lo aiutasse a fissare i pensieri, e cercò di recitare Michael Robartes and the Dancer, ma non ci riuscì. Era deconcentrato e pur avendo voglia di conversare esitava a disturbare Corell che a tratti dormiva o sonnecchiava ma anche quando era sveglio era sprofondato nei suoi pensieri. Solo dopo che ebbero superato Corby si rianimò, ma solo perché Farley l’aveva forzato a parlare facendogli alcune domande sulla sua vita e sulla sua famiglia.
«Mia madre è morta» disse Corell tutt’a un tratto.
«Il mio collega me l’ha detto. Come è successo?»
«È morta pazza e rinsecchita in un istituto a Blackpool. Ma non avevamo più molti contatti, negli ultimi anni. Io andavo spesso a trovarla, ma lei mi parlava come se fossi stato qualcun altro.»
«Mi dispiace. Ovviamente so cosa è successo a tuo padre.»
«Si è buttato sotto un treno.»
«Dev’essere stata dura per te.»
«Sì, direi di sì.»
Farley cercò di cambiare argomento, ma Corell voleva rimanere in tema di suicidi.
«Ho pensato agli ultimi passi di Alan Turing nella vita» disse.
E chi di noi non l’ha fatto?, pensò Farley.
«C’è qualcosa che ti ha colpito?» chiese.
«Erano in corso tante cose in quella casa, esperimenti, calcoli, una cena a base di costolette d’agnello. Uno consuma una buona cena, se sa che deve morire?»
«Non ne ho idea. I condannati a morte lo fanno.»
«Oppure la decisione è arrivata più tardi, dopo la cena.»
«Può anche essere.»
«Mi sono chiesto cosa sarebbe bastato, per fargli cambiare idea. Che un amico avesse bussato alla porta e detto qualche parola gentile? O anche solo che un cane avesse abbaiato lì fuori, facendo prendere un altro corso ai suoi pensieri? Oppure la decisione era irrevocabile?»
«È una domanda che ha un senso, sì» disse Farley, incerto se Corell stesse parlando del suicidio di Alan o di quello del padre.
«E poi si è mangiato una mela avvelenata» continuò Corell.
«Il frutto del peccato. Il frutto dell’albero della conoscenza.»
«Strano, o no?»
«Perché?»
«Mi sono chiesto se non abbia inteso lasciarci un enigma da risolvere.»
«In ogni caso, sapeva che il mistero è più grande della soluzione del mistero.»
«Davvero Alan Turing credeva che saremmo stati in grado di costruire una macchina intelligente?»
Farley stava già per rispondere io non ne ho idea, e tu? quando gli venne in mente che poteva anche prendere la domanda sul serio. Nonostante tutto, ne aveva discusso con Alan.
«Credo di sì» disse. «Sai, una volta lo sorpresi mentre leggeva The Mind of the Maker di Dorothy Sayers.»
«Cosa sarebbe?»
«Un testo più o meno teologico nel quale la creazione divina del mondo viene interpretata in base alle esperienze dell’autrice. Lo scrittore come Dio, una cosa del genere. Alcuni romanzieri pensano di esercitare un potere assoluto sui loro personaggi, ma non è vero, non se sono bravi come Dorothy Sayers. Per prendere vita, i caratteri devono liberarsi del loro creatore e assumere tratti di imprevedibilità. Uno scrittore che prende sul serio la sua professione capisce quando serve più vita rispetto al piano originario del libro.»
«E se ci vuole vita ci vogliono contraddizioni!»
«Servono volubilità e irrazionalità. Alan era particolarmente interessato alle considerazioni di Dorothy Sayers su Laplace. Lo conosci? Laplace era un matematico e astronomo francese che lavorava nello spirito di Newton. L’universo che vedeva era strettamente governato dalle leggi della gravitazione. Il suo pensiero più famoso è che un essere intelligente in grado di conoscere le posizioni e i movimenti di ogni particella potrebbe prevedere esattamente tutto ciò che accadrà nel mondo. Tutto è già prestabilito, secondo un disegno preciso, Dio ne ha messo in moto le cause prima di ritirarsi. Quello di Laplace era un determinismo spinto agli estremi che Alan non condivideva. Ma l’idea di un creatore che, come lo descriveva Dorothy Sayers, aveva posato la penna e messo i piedi sul tavolo lasciando che il lavoro andasse avanti da solo, be’, lo affascinava. Alan ci aveva riflettuto, e aveva cominciato a guardarsi intorno alla luce di quell’idea. Era il 1941 o forse il 1942. Come sai, non posso raccontarti nulla del nostro lavoro, se non che funzionava un po’ come l’universo di Laplace, sì, in realtà non dovrei dire nemmeno questo. In ogni caso, l’organizzazione a un certo punto se la cavava più o meno da sola e non aveva più la stessa necessità di collaboratori geniali come Alan. Eravamo in migliaia, e la maggior parte di noi svolgeva compiti molto semplici, pura e semplice routine, ma insieme formavamo un organismo estremamente sofisticato. Probabilmente sembravamo una sorta di oracolo, e per uno come Alan non era difficile vedere delle somiglianze con il cervello umano. Le singole cellule non sono necessariamente straordinarie, ma l’insieme innegabilmente lo è. La composizione conta più dei componenti. Questo lo induceva a domandarsi: L’intelligenza può sorgere anche da ciò che non è intelligente? Qualcosa di materiale può dare origine a qualcosa di intelligente e originale?»
«E la sua risposta era sì» completò Corell.
«Assolutamente. Newton e Laplace non vedevano nessun antagonismo fra una visione meccanica del mondo e la fede in Dio, e Alan non riscontrava nessuna opposizione fra la meccanica e l’intelligenza, o anche fra la mediocrità e il genio.»
«Adesso non capisco.»
«Hai mai sentito parlare della saggezza delle masse?»
«Solo dell’idiozia delle masse.»
Farley rise.
«Quella è la parte nota e deplorevole» disse. «Nessuno è così stupido come chi segue un leader squilibrato e si eccita in un clima di linciaggio. Come disse Thomas Carlyle, la pazzia è un’eccezione per gli individui ma una regola per le folle.»
«Vero!»
«Sì, ma in un altro senso un grande raggruppamento di persone può essere più intelligente di qualsiasi altra cosa.»
«E come?»
«Come è successo da noi durante la guerra, per esempio. Ma anche in altri modi. Tempo fa ho letto un estratto di Kantsaywhere, un romanzo dello scienziato Francis Galton. Parla di un’utopia, il tentativo di produrre esseri umani migliori, più raffinati. Una porcheria, sinceramente. Ma la cosa mi interessava per diversi motivi, così ho voluto saperne di più sulla vita di Galton. Era un alcolizzato incallito, convinto che pochissimi avessero le caratteristiche genetiche necessarie per guidare una società, che le persone comuni fossero irrimediabilmente ottuse. La cosa divertente è che verso la fine della sua vita inciampò in una verità completamente diversa. Al mercato del bestiame, a Plymouth, si stava svolgendo una gara che consisteva nel tirare a indovinare quanto pesasse un bue scuoiato e squartato. Galton immaginò che i partecipanti avrebbero preso delle gran cantonate, da bravi cretini. Ma sai cosa scoprì? Raccolte tutte le risposte e calcolata la media, considerando i partecipanti alla gara come un’unica persona, riscontrò che avevano indovinato quasi al grammo.»
«Com’è possibile?»
«È così che funziona un gruppo. Può essere incredibilmente intelligente e fornire una risposta migliore di quella di un esperto, se ogni individuo che compone il gruppo pensa in autonomia, e questa è la finezza. Le masse hanno una sapienza nascosta. Quando Galton calcolò il valore medio, gli errori dei partecipanti si eliminarono a vicenda e l’intelligenza si accumulò, e tutti quei piccoli frammenti di conoscenza andarono a costituire qualcosa di molto sofisticato. Alan adorava queste considerazioni. Era affascinato dai formicai. Sono fatti di stupidi insetti, ma sono estremamente complessi, e ingegnosi, e credo che il nocciolo del suo ragionamento in qualche modo stia in questo. Non è ogni ingranaggio in sé...»
«È la loro reciproca relazione.»
«Il modo in cui ogni ingranaggio va a costituire un insieme. Non posso fare a meno di trovarlo esaltante. E so che Donald Michie, uno degli amici di Alan, crede che questo possa diventare un nuovo motivo di ricerca.»
«Questo?»
«Il tentativo di creare una macchina intelligente con semplici componenti elettronici. Un tentativo eretico dal punto di vista cristiano, ovviamente. Se c’era uno che ne era consapevole, quello era Alan.»
«Ma lui la sognava?»
«Sì, la sognava.»
«Perché?»
«Perché no? Magari pensava che quella macchina gli avrebbe fatto compagnia, che ne so. Non mi stupirei se ne uscisse fuori qualcosa di valore. Michie parla delle teorie di Alan come di un tesoro sepolto che un giorno verrà portato alla luce.»
«Proprio come il suo argento.»
Farley sobbalzò.
«Come fai a esserne al corrente?»
«Me ne ha parlato suo fratello, John.»
«Sì, giusto. Ci siamo incrociati all’obitorio» borbottò Farley. «Come ti senti, fra parentesi?»
«Meglio. Manca ancora tanto?»
«Un po’. Sei molto affezionato a tua zia, vero?»
«Direi di sì.»
«Siete sempre stati così...» Farley cercò la parola «... così legati?»
«No, non sempre» disse Corell. «C’è stato anche un tempo in cui non volevo saperne di lei» continuò, poi tacque.
«Hai voglia di parlarmene?» azzardò Farley.
«No, credo di no.»
Corell parve perdersi nei suoi pensieri. A un certo punto sembrò addirittura che sorridesse.