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Sono sott’acqua. In profondità. Le mie mani si fanno strada nel buio; ruoto da una parte e dall’altra, faccio dei salti mortali senza alcuno sforzo, mi tuffo e risalgo a mio piacere.
Sento l’acqua fresca sul viso. È densa e ne avverto il peso sopra di me, ma è una sensazione piacevole. L’acqua mi accarezza e mi rassicura. Batto i piedi e spingo con le braccia tese per avanzare.
Poco oltre c’è qualcuno.
Muovo le gambe, eppure non riesco ad avvicinarmi. L’acqua sta diventando sempre più scura e densa.
Davanti a me sta nuotando Liam Dornan. Nello stesso istante in cui mi rendo conto che è lui, capisco anche che sto sognando. Sta cercando di allontanarsi da me? O mi sta portando da qualche parte?
Ci sono altre persone intorno a noi.
Ombre veloci. Sono scure, più scure dell’acqua. Guardo meglio: io sono scuro quanto loro.
Riesco a fendere l’acqua facilmente, come se fossi nel mio ambiente naturale.
Liam si volta indietro, vede gli squali che calano su di lui. Vorrei gridare per avvertirlo, ma non ci riesco. Non riesco a urlare sott’acqua. Non riesco ad aprire la bocca.
È in preda al panico, batte le gambe più rapidamente e respira a fatica. Gli esce del sangue dai talloni, ecco perché l’acqua è così densa e scura. Nuotiamo tutti dentro la stessa acqua. Io e gli altri squali.
Liam è circondato. Gli giriamo intorno, in attesa del momento giusto, sapendo che sarà sempre più stanco, che sta perdendo le energie e non può sfuggirci.
Vedo la paura nei suoi occhi. La vediamo tutti. Ne sentiamo l’odore insieme a quello del sangue. Ci infiamma. Vogliamo uccidere. Uccidere. Uccidere.
Uno dei miei fratelli squali si lancia contro di lui, lo addenta a una gamba, lacera la carne.
Ne arriva un altro e con un morso gli stacca un braccio. C’è sempre più sangue. Ora il mare è tutto rosso, increspato dal sangue di Liam, ma vedo bene il momento in cui lo attacchiamo, uno dopo l’altro e poi tutti insieme.
Lui riesce a gridare, anche se l’abbiamo fatto a brandelli, anche se nuota nel suo stesso sangue in fondo al mare.
Sono le sue urla a svegliarmi.
A Tórshavn l’ora dell’alba e quella del tramonto sono poco più di una formalità. L’almanacco dice che a metà giugno il sole tramonta alle 23.22 e sorge alle 03.36, ma omette di segnalare che il buio dura poco più di un’ora. Non avverte nemmeno che il sole spesso appare sopra un orizzonte oscurato dalle nuvole, dalla nebbia o dalla pioggia. O da tutte e tre. Alba, tramonto... chi sa distinguerli?
Le Fær Øer in estate sono la terra del sole eterno, se non fosse che il sole è tutt’altro che garantito. Ma la luce, la luce che disturba il sonno e impedisce anche di fare un pisolino, è sempre presente.
In quelle prime settimane a Tórshavn credo di essere riuscito a dormire forse un paio d’ore a notte. I miei occhi e la mia mente erano ingannati da quel maledetto bagliore che non se ne andava mai. La notte durava giusto un battito di ciglia e il buio totale era possibile solo sotto le coperte o dietro le palpebre sigillate. La luce invece andava avanti per giorni interi: mi stava divorando.
Ero apatico e faticavo a concentrarmi; mangiavo e bevevo caffè in continuazione; avevo gli occhi gonfi e un colorito giallastro.
I locali, per consolarmi, mi dicevano che l’estate non dura per sempre. Io mi sentivo all’inferno. Passati giugno e luglio, la stagione correva a rotta di collo verso l’inverno: alla fine di agosto le giornate erano già più corte di tre ore rispetto a due mesi prima. Come la notte estiva, anche l’estate era un battito di ciglia: ancor prima che uno potesse accorgersene, era già finita.
Allora, però, le interminabili giornate di giugno e dell’inizio di luglio si allungavano oltre la mia capacità di sopportazione. Come quasi tutte le finestre delle case di Tórshavn, anche quella della mia nuova abitazione era rivolta verso il mare, a est, e dunque verso il sole, che ci fosse oppure no. Io restavo sveglio in attesa del suo arrivo, come un condannato a morte che aspetta l’alba. Ma per me l’alba era un castigo. Non sarebbero arrivati la spada del carnefice o il cappio del boia a darmi sollievo.
Quel giorno seguii il primo raggio di sole farsi strada nell’angolo sinistro della finestra e capii che era finita. Erano da poco passate le 03.30 di mattina – o di quella che solo per scherzo poteva essere definita tale – e niente di simile all’oscurità era riuscito a farsi strada nella mia stanza.
Il raggio procedeva sarcastico da sinistra verso destra. Per quanto ci provassi, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Era lui l’origine della mia tortura. Non volevo vederlo, eppure non riuscivo a smettere di fissarlo.
Non dormivo da un’infinità di tempo, tormentato tanto dalla mancanza di sonno quanto da quello che succedeva quando riuscivo ad afferrarlo.
La verità era che non sapevo che cosa fosse a tenermi sveglio davvero, se la luce costante o la prospettiva degli incubi che mi attendevano. Il sole era il mio flagello e il mio salvatore.
Scalciai via le coperte e appoggiai i piedi per terra: non volevo più essere prigioniero della luce. Infilai un paio di pantaloncini, una maglietta, uscii dal capanno e lo chiusi a chiave.
Davanti alla porta, con la collina che si stagliava sopra di me, mi fermai a osservare ciò che mi affliggeva: la sfera luminosa stava salendo dietro la vicina isola di Nólsoy, i suoi raggi ruzzolavano giù dai pendii trasformandoli in campi dorati. Nel cielo illuminato da un blu che si estendeva a perdita d’occhio, i cirri ardevano come se fossero appena usciti dal forno del paradiso. Il mare, una piatta distesa argentata, e le case arcobaleno di Tórshavn riflettevano tutto quello splendore.
L’alba era un’amante con cui non si poteva vivere e senza la quale non si poteva stare. Le diedi le spalle e cominciai a correre su per le colline, con l’obiettivo di sfinirmi.