31
Quattro mura. Fino a quel momento era solo una frase fatta; adesso era tutto ciò che avevo. Quattro mura bianche, spoglie. Nessuna luce naturale. Un letto singolo imbullonato al pavimento. Un tavolo e una sedia. Un doppio scaffale fissato a una parete e a un’altra il lavandino. In un angolo, il gabinetto.
Me stesso come unica compagnia. Io, le pareti, il letto e il movimento incessante della mia mente.
L’avvertimento di Tunheim sul fatto di essere l’unico detenuto forse aveva qualche fondamento.
Nel corso di quella lunghissima prima notte sentii soltanto lo scricchiolio delle assi del pavimento e il fischio del vento. Mi alzai a sedere sul letto, ascoltando quel lamento e chiedendomi se l’aria stesse cercando un modo per entrare o per uscire.
Almeno il vento poteva scegliere.
La seconda notte capii di non essere solo. Mi venne offerto il canto stonato di un menestrello ubriaco, un nuovo arrivato che rispetto a me aveva il netto vantaggio di essere pieno d’alcol. Era l’unico modo per sopportare la situazione. Ma il suo canto non era apprezzato da tutti, come ebbi modo di capire dalle urla che echeggiavano in lontananza.
«Ubriachi» mi disse al mattino Mørkøre, una delle due guardie che avevo visto.
Era un tipo atletico e sorridente. Essere bloccato in cima al Sornfelli non doveva essere un gran divertimento nemmeno per lui, ed ebbi la sensazione che fosse felice di fermarsi a fare quattro chiacchiere. Forse era addirittura curioso dello straniero di cui senz’altro si parlava in tutte le isole. «Qui abbiamo principalmente ubriachi. Uomini, solo uomini, che bevono troppo e poi fanno a botte. O che si mettono alla guida. Li mettiamo in cella perché si calmino e poi subito in tribunale.»
«Quindi non avete molti assassini?»
Mørkøre mi guardò perplesso, poi capì che probabilmente stavo scherzando.
«No. Ne abbiamo avuto uno una volta ed è diventato una celebrità. Lei non è ancora così famoso. Un tempo c’erano sempre e solo ubriachi, adesso capita anche qualcuno che sotto l’effetto della droga ha commesso atti violenti. Comunque non tanti, per il momento.»
«Quanti ospiti avete?»
Mørkøre scoppiò a ridere. «Possiamo accogliere fino a quattordici ospiti. Tutti in camera singola. Colazione compresa. Vietato fumare. Stasera ne abbiamo quattro. Di solito sono otto. Lei è l’ospite vip.»
«Ed è un bene?» gli chiesi dubbioso.
«No, per lei no. Significa che forse resterà qui più a lungo degli altri.»
Mørkøre mi salutò con un sorriso comprensivo e le quattro pareti mi inghiottirono di nuovo.
Lei non mi chiamò e non mi scrisse. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Chiesi un paio di volte a Mørkøre se c’erano visite o telefonate per me, ma lui si limitò a scrollare le spalle e a dirmi “forse domani”. Anch’io lo pensai; me ne convinsi, nonostante l’evidenza mi dicesse il contrario.
Il sole era già sorto due volte su un orizzonte ignoto e tramontato due volte da qualche parte alle mie spalle. Il suo invisibile andirivieni mi aveva stancato in fretta. E sapere che mi ci sarei dovuto abituare non rendeva più facile sopportare la situazione.
Il rumore di una chiave nella serratura mi svegliò da un sonno inquieto e diedi un’occhiata all’orologio per avere la conferma che fossero davvero le sette del mattino.
La porta si spalancò ed entrò Jensen, la seconda delle mie due guardie, che stringeva tra le mani il vassoio con la mia colazione. Era grosso, cupo, con i capelli scuri e decisamente meno socievole di Mørkøre.
Mi fece un rapido cenno, borbottò qualcosa a bassa voce e appoggiò il vassoio sul tavolo, poi si girò e si chiuse la porta alle spalle. Era il suo modo normale di comportarsi. Mi portava il cibo o sbirciava dentro dallo spioncino limitando la conversazione al minimo.
Tirai indietro le coperte e dondolai le gambe dal bordo del letto, restando seduto qualche istante ad assaporare il cambiamento di scenario. Mi aspettava una lunga giornata con niente da fare. Avevo già imparato a rallentare anche la più piccola attività.
Annusai la cella. Profumo di caffè forte e salsicce speziate. E la zaffata che si era portato dietro Jensen e che già stava svanendo: aria fresca. Non la sentivo da un paio di giorni e questo la rendeva riconoscibile più che mai.
Andai a lavarmi le mani nel minuscolo lavandino, spostai la sedia e mi sedetti al tavolo della colazione. Non ero particolarmente affamato; da quando ero arrivato avevo pochissimo appetito, ma almeno i pasti rompevano la monotonia della giornata e le davano una parvenza di ordine che mi permetteva di conservare la sanità mentale.
La salsiccia secca era più calda del caffè, così avvicinai la tazza alle labbra e trangugiai un sorso di quella brodaglia tiepida finché il suo gusto amaro e pungente non divenne insopportabile. Non era Starbucks, ma almeno nessuno poteva accusarli di frodare il fisco.
Tagliai la salsiccia a pezzetti con l’obiettivo di far durare il processo il più a lungo possibile.
Il coltello non era abbastanza affilato da permettermi di farmi del male, ammesso che avessi questa idea, ma potevo tagliare la salsiccia e spalmare lentamente il burro sul pane faroese di segale.
Ogni forchettata mi riempiva il cervello, se non la bocca. Scomposi il sapore, cercando di distinguere le erbe e le spezie, canticchiando tra me e me la canzone di Simon and Garfunkel Parsley, Sage, Rosemary and Thyme. Prezzemolo, salvia, rosmarino e timo. Cercavo di svuotare la mente, di non pensare.
Ci provavo, ma ovviamente non ci riuscivo.
Ogni morso era insaporito da ricordi e domande, alcune volute, altre no. Vedevo le immagini nella mia mente come titoli di giornale e mi sforzavo di capire se li avevo scritti o li avevo letti.
Ricordi inaffidabili appannati dall’alcol e dalla paura. Ero uscito in strada barcollando, gli occhi accecati dalla rabbia, vagando per i vicoli con un obiettivo. Mi sforzai di rivedere i cartelli stradali nella testa, di ricordare dove ero stato e dove non ero stato.
Il locale e i lastroni del porto erano le uniche mie due certezze. Nel mezzo, ero in difficoltà.
Sapevo che se mi fossi fissato su quel pensiero sarei impazzito. Dovevo sopravvivere e rimuginare troppo avrebbe reso le giornate soltanto più lunghe e complicate. Era comunque meglio che avessi dimenticato certe cose.
Spostai la mia attenzione sul cibo, cercando di costringere la mia mente ad andare altrove. Le mie difese erano deboli, il pensiero di Karis e Dam aveva invaso il mio cervello. Il volto di lui e quello di lei. Il corpo di lui, insanguinato e ferito; quello di lei, nudo e caldo. Cercai di respingere la marea, di creare una diga per difendermi. E all’improvviso il passato da cui avevo cercato in ogni modo di fuggire mi sembrò preferibile al presente.
Pensai a mio padre e ai suoi occhi quando aveva letto il mio nome sui giornali.
Quell’uomo così orgoglioso al mio primo gol con la maglia della squadra della scuola, che aveva espresso in silenzio la sua soddisfazione assistendo alla cerimonia di consegna del diploma, ora non riusciva quasi più a guardarmi. Mi costrinsi a sopportare il dolore di quel ricordo, indossando un’armatura protettiva piena di spuntoni all’interno. Non meritavo di scappare da quello che avevo fatto senza subire la giusta punizione.
Un’ora dopo stavo ancora lottando con i miei pensieri quando si aprì la porta.
Era Mørkøre, che si intromise nella mia solitudine con un sorriso amichevole.
«Ha visite. Se vuole.»
Mi alzai in piedi di scatto e mi ci volle un momento per rispondere: avrei balbettato, cercando di controllare l’emozione.
Aspettavo quel momento da quando i poliziotti si erano presentati all’azienda ittica. Lo speravo ogni volta che si apriva la porta.
«Sì. Chi è?»
Mørkøre scosse la testa come per scusarsi. «Non è lei, mi dispiace. È un francese, un certo Gotteri.»
Ebbi un tuffo al cuore ma annuii comunque, felice in ogni caso. «Sì. Lo incontrerò.»
Serge mi aspettava a un grande tavolo di legno; uno sguardo stanco lasciò il posto a un sorriso forzato. Mørkøre rimase in un angolo in silenzio, guardava altrove ma teneva le orecchie ben aperte.
«Come stai, scozzese?»
Allargai le braccia. «Sono qui, lo vedi anche tu.»
«Posso portarti qualcosa per farti star meglio?»
«Certo. Una bottiglia di whisky e il mio passaporto.»
Un rumore attutito sfuggì dalla gola di Mørkøre, come se fosse stato sul punto di rispondere alla mia richiesta e si fosse fermato.
«Vedrò cosa posso fare» replicò Gotteri, cercando il mio sguardo per degli indizi. «Va male, amico mio. Molto male. Sulle isole non si parla che di te.»
«Che sorpresa. E sono convinti della mia colpevolezza?» Esitò. «Non tutti. La polizia danese mi ha interrogato perché sanno che sono tuo amico. Hanno interrogato anche Karis.»
Al sentire il suo nome ebbi un sussulto. «Come sta? Sta bene?»
Gotteri scrollò le spalle. «Non lo so. Non le ho parlato. Ci ho provato, ma suo padre, il pastore, ha detto che non avrebbe parlato con nessuno.»
«Ti sarai fatto un’idea.»
«Suo padre sembrava angosciato. Ma lei starà bene. Sei tu che mi preoccupi.»
«Non devi. Assicurati solo che lei stia bene. D’accordo?»
Gotteri mi guardò in modo strano. Cercava di dare un senso a quello che vedeva e sentiva. «Se posso, senz’altro. Cosa ricordi di quella notte? Ho sentito che eri molto ubriaco.»
Qualunque cosa ricordassi, non avevo intenzione di condividerla con lui. Ora ero io a scrollare le spalle. «Non molto. Cos’altro hai sentito?»
«Della rissa con Aron, poi del litigio che avete avuto tu e Karis. La gente dice che sei uscito dal Natúr come se avessi una missione da compiere. Che eri furioso.»
Altri buchi nella memoria si riempirono di ricordi sgradevoli.
«Lo sai anche tu che è un posto piccolo, amico mio. Tutti hanno mille occhi e tutti conoscono qualcuno che ti ha visto uscire dal locale. Non si mette bene per te. Sono sicuro che ti ricordi qualcos’altro su quello che è successo.»
«Tipo che ho ucciso Aron Dam?»
Sostenne il mio sguardo. «Be’, sì, proprio quello. L’hai ucciso?»
«Grazie di essere venuto, Serge. Adesso torno in cella. È stata una giornata molto lunga.»
La mia seconda e ultima visita fu quella di Elin Samuelsen, che venne a trovarmi più tardi quello stesso giorno.
«C’è già una data per l’udienza?» chiese Mørkøre mentre mi accompagnava lungo il corridoio.
«Domattina.»
«Okay. Allora ci rivediamo domani sera.»
«Grazie per l’incoraggiamento.»
Mørkøre stava ancora ridacchiando tra sé quando aprì la porta della stanza delle visite.
La verità era che mi aspettavo che avesse ragione.
Elin Samuelsen era seduta nello stesso posto di Gotteri e si agitava inquieta con un fascio di carte svolazzanti tra le mani. Si alzò in piedi e mi offrì una stretta di mano umida e molliccia. Il suo nervosismo non mi aiutava per niente.
«Come sta, signor Callum?»
«Lei cosa pensa? Sono stati tutti molto gentili con me, ma spero che mi abbia portato qualche buona notizia.»
Arrossì appena e mi guardò come per scusarsi. «No, nessuna. Mi dispiace. Sono qui per spiegarle che cosa succederà in tribunale domani. Cosa deve aspettarsi.»
«Posso aspettarmi che mi rilascino?»
«È possibile.»
La sua totale incapacità di mettere anche un solo briciolo di ottimismo nelle sue parole era quasi divertente. “Possibile” non era mai suonato tanto improbabile.
L’avvocato mi parlò della procedura, di chi ci sarebbe stato in tribunale e di chi no, di quello che avrei dovuto e non dovuto fare. Sentivo le sue parole sulla soglia del mio inconscio, poi svanivano una dopo l’altra come fantasmi nella notte.
«Ha parlato con Karis?» la interruppi.
Lei alzò lo sguardo, chiaramente sorpresa. «Intende Karis Lisberg? Mmm... sì, le ho parlato.»
Certo che intendevo Karis Lisberg. E chi altri?
«Come sta?»
Elin Samuelsen recuperò i suoi appunti, più per istinto o per difesa che per una reale necessità di controllarli, perché a metà del gesto si fermò e mi guardò.
«Era... sconvolta. Ovviamente è stato molto difficile per lei. Ha pianto.»
Le sue parole misero alla prova la mia resistenza, erano minuscole frecce infuocate dritte contro la mia coscienza.
«Che cosa ha detto?»
«Che se n’è andata dal locale perché era arrabbiata con lei per quello che aveva fatto ad Aron Dam. Che la sua violenza l’aveva spaventata. È tornata a casa e ha saputo solo al mattino quello che era successo.»
Feci un respiro profondo. «Glielo ha chiesto?»
L’avvocato esitò, fingendo il più possibile di non conoscere la risposta.
«Sì. Ha detto che... non lo sapeva. Le sembrava incredibile, ma al locale aveva visto in lei una rabbia che non si aspettava. Mi ha detto di sì, che potrebbe essere lei l’assassino.»
Stare seduto sul letto a fissare le pareti, con un sacco di tempo a disposizione, non è salutare per una mente in difficoltà. Soprattutto se si è bloccati in un paese straniero, accusati di un crimine che non si è sicuri di avere commesso. Immobile a guardare il vuoto, speravo di trovare delle risposte e invece trovavo solo domande.
Mi faceva male la testa per lo sforzo di ricordare quel che era successo dopo che ero uscito dal Café Natúr. La cosa più difficile era farmi strada tra i fumi dell’akvavit. Dovevo sbrogliare i miei ricordi confusi, separare quelli veri dai falsi, quelli che ricordavo davvero e quelli che ricordavo di avere sognato.
I buchi su quello che era avvenuto al Natúr erano stati riempiti dalle parole di Tunheim e Nymann, e poi da Gotteri. Ormai avevo ben presente la rissa con Dam e il litigio con Karis. Così come l’uomo senza vita disteso in quella pozza di sangue. Lo vedevo ogni volta che chiudevo gli occhi. La sua gola squarciata. Gli occhi vitrei.
Non sapevo il motivo per cui quell’immagine si era impressa nella mia mente: forse era per le foto che la polizia mi aveva mostrato, oppure perché avevo visto realmente quella scena.
Il resto non riuscivo a recuperarlo, per quanto ci provassi. Dovevo verificare ogni più piccolo barlume di ricordo.
Era reale o un’illusione? Oppure era qualcosa che mi terrorizzava? Io ero terrorizzato. Terrorizzato di essere l’assassino di Aron Dam. Terrorizzato all’idea che la storia si ripetesse.
Quattro pareti. Quattro pareti bianche. Mi urlavano contro come schermi su cui erano proiettati dei film frutto della mia immaginazione o dei miei ricordi. Quando non si può fare altro che pensare, il tempo diventa un nemico quanto i pensieri.
L’unico elemento a mio favore era che, se avessi aspettato abbastanza a lungo, sarebbe arrivato il conforto del buio. Mi avvolsi nell’oscurità, indossando le ombre come fossero il mio cappotto preferito. Almeno così non avrei visto quelle pareti.
Ma anche l’oscurità portava dei problemi: primo, il sonno non voleva saperne di arrivare. Secondo, alla fine arrivò.