24
Quando il giorno successivo andai al lavoro in auto con Hojgaard, Samal e Petur le mani mi tremavano ancora al pensiero di quello che era successo. Ero furioso che qualcuno avesse violato la mia casa e mi sentivo in colpa perché ero stato io a portarlo nella proprietà di Martin. Non gli raccontai dell’uccello morto, ma il ricordo mi spinse a parlare della mattanza di Hvalvík. Uccelli che non potevano più volare e balene che non potevano più nuotare, morti per cause a loro incomprensibili.
«Non è soltanto una questione culturale» mi spiegò Hojgaard mentre guidava. «È una cosa molto più semplice. La caccia alla balena è sempre stato un modo per procurarsi il cibo. Tutto qua. Ricorda che viviamo su isole lontanissime da qualunque altro posto. In Scozia avete le mucche nei prati e i polli nelle fattorie. Noi no, noi abbiamo i pesci nel mare e le balene. Quelli che si intromettono per interrompere la caccia sembrano averlo dimenticato, ma noi abbiamo bisogno di mangiare.»
«Chi si intromette?»
Scosse la testa. «Gli hippy del mare, come li chiamo io. Marine Machine. Si definiscono “un’associazione per la conservazione della vita marina”. Vengono qui con le loro barche, interrompono la caccia, spaventano le balene, privano i faroesi della carne. Prima era molto difficile per loro riuscire a intervenire: la mattanza può avvenire in una qualunque delle ventitré baie sparse per le isole ed è difficile sapere dove andare. Negli ultimi mesi invece hanno causato un sacco di problemi, ne spuntano in continuazione, e la gente è preoccupata.»
«Ma l’uccisione delle balene...» Rividi davanti a me la scena, con i corvi che volavano in circolo sopra gli animali morti. «Sembra una pratica così barbara...»
Martin scosse la testa amareggiato, senza togliere gli occhi dalla strada. «Come credi che siano morte le mucche del tuo hamburger? O i maiali del tuo bacon? Pensi che muoiano nel sonno poi arriva il cuoco e li affetta? Anche se il cibo che mangi viene ucciso lontano dai tuoi occhi è la stessa cosa. A meno che tu non sia vegetariano, e so che non lo sei, non puoi dire nulla.»
«Ma...» Mi rendevo conto che la mia era un’argomentazione debole.
«E poi gli animali vengono uccisi in fretta. Il taglio della colonna vertebrale è il modo più umano. E più rapido. Pensi che sia meglio sparargli in testa come alle mucche? Almeno le balene hanno vissuto libere tutta la loro vita, non nelle gabbie come i polli.»
«Okay, ma ammetterai che massacrare degli animali è una strana tradizione.»
«Vallo a dire agli americani, che tutti gli anni, per la cena del Giorno del Ringraziamento, ammazzano quarantacinque milioni di tacchini.»
Mi appoggiai allo schienale e rimasi in silenzio.
Quando scesi dall’auto di Hojgaard all’ingresso dell’allevamento, mi girai istintivamente verso sinistra in direzione di Risin og Kellingin. Era un mio rituale quotidiano per evitare di dare per scontato quel che mi circondava. I faraglioni non si vedevano, inghiottiti dalla nebbia, ma era rassicurante sapere che erano comunque lì.
Io, Samal e Petur entrammo negli spogliatoi, a quell’ora pieni di uomini e donne pronti a iniziare il turno. Quasi tutti avevano già la tuta impermeabile. Eppure, c’era qualcosa che mi lasciava perplesso: era come se stessero aspettando il nostro arrivo.
Feci del mio meglio per ignorarli e andai al mio armadietto. Petur era a meno di un metro da me, il suo armadietto era accanto al mio. Sentii la prima zaffata mentre tiravo fuori la chiave dalla tasca. Qualche secondo dopo la sentì anche Petur e accartocciò la faccia per il disgusto. Aprì lo sportello e la puzza ci travolse con tutta la sua forza. Sentii delle risatine soffocate alle nostre spalle. Ecco il perché del comportamento strano dei nostri colleghi.
L’armadietto di Petur era pieno per quasi mezzo metro di interiora e teste di pesce, una ripugnante poltiglia di sangue e budella che traboccò fuori e gli cadde sui piedi. Le tute e le protezioni appese all’interno erano sporche di sangue. La puzza era insopportabile.
Petur fece un passo indietro, tanto per la sorpresa quanto per l’odore, e arrossì per la rabbia e l’umiliazione. Quelli intorno a noi scoppiarono a ridere e allora persi la pazienza. Mi girai con uno sguardo accusatorio; chiaramente tutti sapevano dello scherzo. Alcuni ebbero la decenza di voltarsi o di mostrarsi almeno imbarazzati, altri non riuscirono a nascondere la loro soddisfazione. Solo una persona sostenne il mio sguardo senza ridere; aveva sul viso un ghigno beffardo: Toki Rønne.
Era un prepotente, era sempre di cattivo umore, e si era rivelato un problema sin dal primo giorno. Urtava chiunque avesse la sfortuna di trovarsi sulla sua strada. Era sempre acido e aggressivo, e continuava a nutrire una specie di rancore nei miei confronti e nei confronti di quegli operai che pensava di poter tormentare facendola franca. In quel momento mi resi conto che avevo sopportato il suo atteggiamento troppo a lungo.
Se ne stava lì a gambe larghe, le braccia muscolose incrociate al petto, e fissava Petur con strafottenza, sfidandomi a dire qualcosa in sua difesa. Andai verso di lui, abbandonando qualunque discrezione e qualunque desiderio di ricomporre i contrasti. Qualcuno notò la mia espressione e le risate si interruppero all’istante. Un paio di colleghi provarono a mettersi in mezzo per fermarmi, ma li spinsi via. Samal e Petur cercarono invano di trattenermi.
«Callum, no» insistette Petur, prendendomi per un braccio. «È esattamente ciò che vuole. È molto forte e cattivo. Non farlo. Non per me. Per favore.»
«No, ne ho abbastanza.»
Ora di fronte a me c’era solo Toki, con le braccia lungo i fianchi. Era diversi centimetri più basso di me, ma probabilmente pesava dieci o quindici chili in più. Era tozzo e muscoloso come un sollevatore di pesi. Ma questo non mi avrebbe fermato.
Ero a poco più di un metro da lui quando sorrise mostrando i denti come un lupo, alzò una delle sue grosse mani e disse con un grugnito basso: «Nei. Uttanum!». E con un secco movimento del pollice indicò alle sue spalle. Fuori. Non era un gesto sconosciuto per chi come me era cresciuto a Glasgow, e probabilmente era un segno di sfida universalmente noto. Toki non era così stupido da fare a botte dentro l’azienda, non voleva rischiare di farsi licenziare. Mi aveva costretto a fare esattamente ciò che voleva, spingendomi proprio nella situazione che avevo cercato di evitare.
«Nessuno attacca briga con Toki» mi era stato detto appena avevo cominciato a lavorare lì. Non era solo prepotente e aggressivo, era violento. Samal mi aveva raccontato che un altro operaio, un tipo tranquillo di nome Atli, era diventato la vittima costante delle sue prepotenze, finché un giorno era sbottato e gli aveva detto in termini inequivocabili dove doveva andare. Toki non aveva replicato, ma poco tempo dopo lui e Atli si erano ritrovati da soli nella cella frigorifera e Atli ne era uscito con il braccio rotto in due punti. Aveva detto a tutti che se l’era chiuso nella porta. Il giorno dopo aveva lasciato il lavoro e non era più tornato. Petur era placido e tranquillo come Atli, non aveva intenzione di combattere.
Seguii quel teppista verso le alte porte del magazzino che si aprivano sulla banchina. Sapevo che lì fuori a quell’ora non c’era nessuno. Saremmo stati soltanto io e lui e avrebbe potuto usare qualunque cosa come arma. Sempre che ne avesse bisogno. Toki oltrepassò le spesse strisce bianche di PVC e uscì all’aperto. Gli andai dietro.
Appena fuori, feci un passo verso di lui, che mi dava ancora le spalle, e gli mollai un calcio nel polpaccio con tutta la forza che avevo. Stavo solo seguendo le regole con cui ero cresciuto: se il tuo avversario è più grande e più grosso di te, gioca sporco.
Toki crollò a terra con un ruggito furioso, imprecandomi contro mentre si girava sulla schiena. Allungò una delle sue zampe da orso verso le mie gambe, ma mi spostai verso sinistra di un paio di metri e gli sferrai una pedata in un fianco. Lui urlò tanto per la rabbia quanto per il dolore.
Ero in piedi sopra di lui e mi godevo la scena di vederlo strillare come un maiale sgozzato.
«Lo so che parli inglese» gli dissi. «E adesso hai imparato anche un po’ di scozzese. Se non cominci a comportarti bene sarò costretto a darti qualche altra lezione. E sarà molto tosta. Chiaro?»
Mi ritrovai a terra senza accorgermene. Sentii un gran male allo stinco solo dopo essere finito per aria. Toki mi aveva colpito con un piede, ma la sensazione era quella di essere stato travolto da un tronco d’albero. Poi mi ritrovai con due mani enormi strette intorno al collo; mi teneva per il colletto e mi sbatteva su e giù contro la banchina di cemento. A quei colpi fece seguire un pugno nello stomaco, tanto per gradire.
Ero ancora stordito quando mi sollevò sulle sue spalle come se fossi un bilanciere. Avanzò lentamente ma con decisione in direzione del molo, le sue gambe possenti sopportavano bene il carico. Il bastardo voleva buttarmi nell’oceano.
Riuscii ad allungare il braccio destro, impegnando ogni muscolo per prendergli la faccia. Toki sentì la mia mano e aumentò il passo, determinato a lanciarmi in acqua. Gli infilai le dita negli occhi e lui cacciò un urlo. Mi strinse più forte il collo e la gamba ma io piantai le dita ancora più in profondità. Lui provò a sollevarmi per buttarmi in mare ma io spinsi più forte, come se gli volessi cavare gli occhi dalle orbite. Piegò le ginocchia con un grido di sconfitta e mi scaricò con violenza sul molo. Mi alzai all’istante, nonostante l’anca mi facesse un gran male. Toki si sfregò la faccia e, ancora mezzo cieco, si scagliò su di me. Io feci un passo di lato, mi lasciai superare e gli diedi un calcio forte, ma non troppo, sulla gamba. Poco di più e gliel’avrei rotta. Quindi gli diedi una gomitata in testa che lo fece cadere in ginocchio e sentii l’aria uscirgli dal petto come un pallone che si sgonfiava.
Sul molo c’erano dei contenitori bianchi pieni di materiale di scarto: le interiora e le teste di pesce con cui Toki aveva riempito l’armadietto di Petur. Ne presi una bella manciata; mi traboccava dalle mani. Toki era ancora in ginocchio quando lo afferrai per il collo con la mano sinistra, costringendolo ad aprire la bocca, e con la mano destra gli ficcai in gola quella poltiglia sanguinolenta di teste, viscere e intestini.
Toki aveva gli occhi fuori dalle orbite, cercò di fermarmi ma io gli strinsi la gola ancora più forte e gli cacciai altre interiora in bocca. Fin dove mi sarei spinto?
«Basta!» esclamò una voce alle mie spalle. «Smettila, Callum.»
Non mollai la presa, ma mi girai. Hojgaard era a meno di un metro da me; dietro di lui c’era un gruppetto di operai. Aveva lo stesso sguardo furioso e incredulo della notte in cui avevo svegliato la sua famiglia con i miei incubi.
L’ultima manciata di interiora di pesce mi cadde di mano sul cemento insanguinato e mollai la presa sulla gola di Toki. Lui si accasciò in avanti, si appoggiò sul robusto avambraccio, poi crollò a terra. Il suo sollievo non durò a lungo, perché Hojgaard si avvicinò e gli diede un colpo sulla schiena a mano aperta, facendolo tossire e costringendolo a sputare un groviglio di quella poltiglia. Poi lo investì con una raffica di parole in faroese, lo invitò con la forza ad alzarsi in piedi e a tornare dentro.
«Gli ho detto che l’ho colpito perché non volevo che soffocasse» mi spiegò Hojgaard quando lì fuori eravamo rimasti soltanto io e lui. «Ma è vero solo in parte. Gli ho anche detto che aveva ricevuto già abbastanza richiami e che se fosse successo di nuovo se ne sarebbe dovuto andare.» Si guardò intorno per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando. «Se avessi fatto a botte con un altro, saresti stato licenziato anche tu. Immediatamente. Almeno per questo gli devi essere riconoscente. Gli altri mi hanno raccontato che cosa ha fatto a Petur. Ma che ti serva da avvertimento. Capito?»
Annuii, asciugandomi sui jeans i resti appiccicosi di pesce.
«Bene.» Martin annuì a sua volta. «Tutto okay?»
«Sì.»
«Non devi fare parola con Silja di quel che è successo. Non approverebbe. Ma quello che hai fatto con gli scarti di pesce... Ah...» Hojgaard scosse la testa incredulo e rise di cuore. «Avrei pagato molte corone per assistere. Avresti dovuto vendere i biglietti. Dove hai imparato a fare a pugni?»
Mi strinsi nelle spalle. Non credo che volesse sapere la risposta.