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La strada da Tórshavn all’aeroporto di Vágar mi sembrava molto più corta rispetto a quando ero arrivato. Anche le giornate erano più corte, piccoli intervalli di azzurro in mezzo a una lunga striscia di oscurità. Era un vero e proprio sconvolgimento per quelle isole: la luce inesorabile stava lasciando il posto alla morsa di un lungo inverno.
Immaginai tutti quelli che avevano fatto parte della mia assurda estate allineati lungo il percorso che mi salutavano riconoscenti. Martin Hojgaard, pieno di rimorso per non essersi fidato di me e devastato per la fiducia che, sbagliando, aveva accordato a Esmundur Lisberg. Tummas Barthel, che stringeva felice tra le mani la confezione di Ardbeg che gli avevo fatto recapitare, il minimo che potevo fare per le informazioni che mi aveva dato su Serge Gotteri. Broddi Tunheim, il bravo ispettore che aveva sbrogliato la matassa e si era assicurato che la violenza subita da Karis non diventasse di dominio pubblico.
Qualcuno se n’era già andato. Innanzitutto Gotteri, il bugiardo, l’imbroglione. L’uomo che mi aveva salvato la vita tirandomi fuori dal mare privo di sensi era tornato in Francia, progettando senz’altro di continuare le sue battaglie altrove, ma non prima di avere fatto a botte con Nils Dam in mezzo alla strada. Se le erano date di santa ragione, spinti entrambi dalla furia della vergogna, con l’obiettivo di farsi del male. Nils non aveva rivelato a nessuno di essere stato prigioniero nella stazione baleniera. Non poteva. Aveva troppe cose da nascondere e la sua colpevolezza mi assicurò il suo silenzio.
Anche i poliziotti danesi erano tornati a casa. L’ispettore Nymann ebbe la decenza di offrirmi almeno una stretta di mano, che accettai. Nicoline Munk mi lasciò il suo biglietto da visita, con un invito scritto a mano ad andarla a trovare a Copenaghen.
La pioggia batteva forte mentre ero sull’autobus che risaliva serpeggiando le colline e i fiordi ora così familiari, inzuppando i verdi e i marroni e alimentando le cascate che si tuffavano dalle vette. L’autista riusciva a vedere al massimo a una decina di metri davanti a sé, ma conosceva così bene il percorso che avrebbe potuto guidare anche bendato. La pioggia ci lavava tutti quanti, ci ripuliva dai peccati commessi e lasciava la terra pronta a ricominciare da capo.
Karis non era venuta a salutarmi e non potevo biasimarla. Per come la vedeva lei, se non fosse stato per me suo padre sarebbe stato ancora vivo. E aveva ragione.
Ma avevo fatto l’unica cosa possibile. Non mi sarei rassegnato ad accettare la sua confessione, sapendo che era una bugia. Uccidere è sempre sbagliato, ma Karis avrebbe avuto tutto il diritto di ammazzare Aron: se fossi stato sicuro che era lei l’assassina, avrei mantenuto il segreto senza problemi.
Quando le avevo parlato della persona con l’impermeabile rosso che mi aveva messo in tasca il coltello, avevo riconosciuto subito la sua espressione: terrore puro. Era l’impermeabile rosso di suo padre, che lei spesso prendeva in prestito. Forse aveva realizzato proprio in quell’istante che era stato lui a uccidere Aron. E io avevo capito che non era stata lei.
Per salvare Karis avevo dovuto dimostrare che il colpevole era suo padre. Una vita salvata per una vita perduta. E anche un amore perduto. Ma quello nessuno avrebbe potuto salvarlo.
Che fossi riuscito a salvare anche me stesso era quasi una felice coincidenza. Avevo fissato negli occhi Nils Dam con un coltello in mano quando avevo bisogno di sapere la verità, ed ero riuscito a ottenere la risposta giusta. Non ero la persona che temevo di essere. Nils era sopravvissuto, e di conseguenza anch’io.
Quando l’autobus entrò nel minuscolo parcheggio dell’aeroporto nella campagna di Vágar, pioveva a dirotto. I passeggeri andarono verso il terminal di corsa. Io invece non mi affrettai, lasciai che la pioggia mi sferzasse il viso godendomi quella sensazione sulla pelle.
Ero quasi dentro, quando sentii un’auto arrivare a tutta velocità. Mi girai e vidi la Toyota verde di Tunheim. La portiera del passeggero si aprì e scese qualcuno. Anche se mi dava le spalle, riconobbi immediatamente i capelli scuri e il ciuffo. Era Karis.
Attraversò il parcheggio, facendo schizzare l’acqua dalle pozzanghere. Io appoggiai la valigia mentre lei mi correva incontro. Si fermò all’improvviso, a pochi passi da me. Sembrava piccola piccola, aveva i capelli fradici e l’acqua le colava lungo le guance. Fece per avvicinarsi, invece indietreggiò, allontanandosi o forse allontanando me. Restò immobile, gocciolante, con gli occhi rossi.
«Non posso restare, Karis.»
«Lo so, John. E non voglio che resti. Volevo solo dirti che mi dispiace.»
«Chiamami Andrew. Di cosa ti dispiace?»
Fece per rispondere, ma era evidente che anche solo pensare le parole che avrebbe voluto dire le faceva male. «Di tutto.»
«Di avermi usato?»
«No, io... Sì. Sì.»
«Non c’è mai stato altro tra noi?»
«No! No, te lo giuro. Ma adesso penso di sapere, nel profondo...»
Era sconvolta, ma non le avrei risparmiato questo dolore. Erano parole che dovevamo sentire entrambi. Tornai di nuovo con la mente alla conversazione che avevamo avuto sulle scogliere a Vestmanna, quando mi aveva chiesto una prova, perché voleva sapere che cosa avrei e non avrei fatto per amore.
«Mi hai detto che almeno tuo padre lo aveva fatto per te... Ha ucciso Aron. Era quello che avrei dovuto fare per la persona che amavo?»
Karis cominciò a dire qualcosa, ma la confusione le annodò la lingua.
«È così, Karis? Volevi che uccidessi Aron per te.»
Le lacrime le scorrevano lungo le guance. Era sconvolta.
«No, non razionalmente. Oh, mio Dio. Io... ho avuto tempo di pensare. Molto. E penso che avrei voluto qualcuno che mi amasse abbastanza da cancellare il dolore che provavo. Per vendicarmi. Per...»
«Ucciderlo. Hai pensato che io ne fossi capace?»
Scrollò le spalle, impotente. «In te c’era qualcosa. Sembravi turbato, mi sono chiesta perché fossi venuto qui. Da cosa stavi scappando. Ne ero attratta.»
«Essere attratti dai rispettivi demoni non è esattamente una buona base da cui partire per costruire un rapporto, no?»
Non disse nulla ma era come se avesse detto tutto.
«Ti amavo, Karis.»
«Mi dispiace moltissimo.»
«Non devi dispiacerti. È tutto a posto. Odiavo me stesso e pensavo che non mi sarei mai più innamorato. Tu mi hai aiutato a risolvere entrambe le cose.»
«Mi puoi perdonare?»
«È colpa sua, non tua. Ma ho capito che tra noi era finita nel momento in cui mi hai detto che l’avevi ucciso tu. Sapevo che stavi mentendo, ma sapevo anche che ti eri preparata al rischio di mandarmi in prigione.»
«Dovevo proteggere mio padre!»
«Certo. Perché lo amavi più di quanto potessi amare me. Perché aveva fatto per te ciò che più desideravi al mondo.»
Abbassò lo sguardo e annuì.
«Torna a casa, adesso, Karis. E cerca di perdonare te stessa. È Aron il responsabile di tutto quello che è successo, non tu.»
Tunheim veniva lentamente verso di noi sotto la pioggia, ma tenendosi ancora a una rispettosa distanza. «Si prenda cura di lei, Broddi. Mi raccomando.»
«Certo... Andrew. E lei faccia lo stesso.»
Karis fece un mezzo passo in avanti, quasi inciampando, e mi accarezzò dolcemente una guancia. Sorrise e nei suoi occhi vidi qualcosa della ragazza scatenata e imprevedibile che mi aveva conquistato. Sbatté gli occhi e il sorriso svanì. Si girò e tornò alla macchina insieme a Tunheim.
Ero ancora fermo lì, fradicio fino alle ossa, quando l’auto fece manovra e uscì dal parcheggio. Tunheim mi fece un cenno con una mano e Karis mi sorrise dal sedile del passeggero. Ora non c’era più niente da vedere, a parte i profili spettrali dei pali del telegrafo. Ricordai che quando ero arrivato avevo visto la stessa scena, e avevo pensato di essere finito in mezzo al nulla.
Mi sbagliavo. Era tutt’altro che il nulla. Avevo ritrovato me stesso, abbastanza a fondo da tornare a casa con un carico più leggero. Potevo affrontare il giudizio della gente perché avevo capito che il vero motivo della mia paura non era ciò che gli altri pensavano di me, ma ciò che io sapevo di me stesso. Ora, finalmente, potevo conviverci.