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«Hai la mia attenzione.»
Girai la testa, ma nella foschia non riuscivo a vedere Gotteri. Era lui quell’ombra di un grigio più scuro in controluce?
«Non muoverti. Nemmeno in direzione della mia voce. Il vento e la nebbia sono traditori. Potresti cadere giù dalla scogliera senza nemmeno accorgertene.»
Il mio cuore batteva fortissimo e tornai con la mente alla discesa in corda doppia che avevo fatto a Vestmannabjørgini. Non avevo nessuna voglia di ripeterla senza protezioni. «Okay. Cosa suggerisci di fare?»
«Ci sediamo e aspettiamo. A meno che tu non voglia rischiare di prendere la direzione sbagliata.»
«Il meglio che ti viene in mente è stare seduti in cima a una scogliera alta settecento metri, con questo vento e una tempesta in arrivo?»
Dall’etere mi raggiunse la parvenza di una risata. La sua voce era diversa; era serissimo. «Non siamo seduti sul bordo di una scogliera. Tu ci sei. Io sono lontano almeno tre metri. La scelta è solo tua.»
Imprecai a bassa voce, mi accovacciai lentamente e mi sedetti. Il terreno era umido e irregolare, ma solido. Stesi cautamente un braccio e poi l’altro, dando dei colpetti per terra fin dove riuscivo ad arrivare. Mi trascinai centimetro dopo centimetro finché non mi trovai dove pensavo che fosse Gotteri. Non poteva aver prodotto la nebbia che ci aveva intrappolato, ma non mi sembrava casuale che mi avesse condotto proprio lì. Non sapevo che cosa volesse, ma di sicuro quella situazione non mi piaceva.
«Tu conosci il tempo di qui molto meglio di me, Gotteri. Quando credi che schiarirà?»
«E chi lo sa, amico mio. Potrebbero volerci cinque minuti come cinque anni. Ma non credo ci vorrà molto. Giusto il tempo di fare una bella chiacchierata.»
Una folata di vento mi colpì la schiena e mi terrorizzò. Istintivamente mi aggrappai al terreno, strappando qualche filo d’erba.
«Perché hai così voglia di chiacchierare, Serge? Perché così tante domande?»
«Perché mi piace sapere che cosa mi succede intorno. Per sentirmi al sicuro.»
Forse era il vento, o forse la nebbia, ma Gotteri non era dove pensavo che fosse. O si era spostato o io ero andato nella direzione sbagliata. Sentii di nuovo la sua voce gelida.
«Che cosa hai detto alla polizia? Devono averti fatto un sacco di domande su quella sera. Non crederanno certo che ti sei ubriacato e sei tornato subito a casa. Tu ci crederesti? È andata così?»
Erano due domande completamente diverse. Se fossi stato un poliziotto, avrei creduto che ero andato dritto a casa? Quasi certamente no. Ma era ciò che avevo fatto? Ogni sera mi avvicinavo sempre più alla risposta. Dovevo soltanto capire la differenza tra realtà e immaginazione. Siccome non c’ero ancora riuscito, ignorai la domanda di Gotteri. «Alla polizia ho detto quel che è successo. Loro hanno verificato e mi hanno rilasciato. Che altro vuoi sapere?»
Scoppiò a ridere. «Tutto. Vivo qui. Sai che ci sono pochissimi stranieri alle Fær Øer. Succede una cosa del genere... e guardano diversamente anche me. Sanno che sono tuo amico e pensano: “Ehi, forse è coinvolto anche lui. Forse anche il francese ha ammazzato Aron”.»
«E l’hai ammazzato?»
Gotteri non sembrò gradire la domanda. Il fatto che non rispondesse mi incoraggiò a proseguire. «L’hai ammazzato tu, Serge? Vuoi sapere quello che ho fatto o non ho fatto io, ma tu dov’eri quella notte?»
Replicò arrabbiato con una scarica di parole in francese di cui non capii nulla. Era la prima volta che lo sentivo parlare nella sua lingua. Avevo toccato un nervo scoperto che gli aveva scatenato una specie di crisi da sindrome di Tourette. Dopo un breve silenzio, cercò di cambiare discorso. Il suo tono era diverso, più basso, più freddo, più duro.
«Parlami della Scozia, Callum.»
E questo cosa significava?
«Piove molto. Mangiamo un sacco di cibo spazzatura e beviamo troppo.»
«Non questa roba per turisti. Parlami di quei ragazzini che si sono fatti male...»
Fu come se avesse allungato una mano in mezzo alla nebbia e mi avesse dato uno schiaffo, che mi fece istintivamente spalancare la bocca. In un misto di ansia e rabbia pensai che forse non era una brutta cosa se uno di noi due fosse finito giù dalla scogliera.
«Basta, Serge. Non parlerò più finché non ti vedrò in faccia.»
Una risata amara. «Ti piaccio così tanto?»
«No. Ma per darti un pugno devo vederti bene. E adesso chiudi quella cazzo di bocca.»
Gotteri tentò di farmi qualche altra domanda a cui non risposi, finché finalmente mollò il colpo. Ma non restò in silenzio, si mise a cantare. Portata dalla brezza cominciai a sentire la sua versione, sorprendentemente intonata ma surreale, di Non, je ne regrette rien di Edith Piaf. A parte il fragore dell’acqua, non si sentiva nient’altro.
Dopo circa mezz’ora, e svariate ripetizioni del ritornello, la nebbia si diradò e riuscii a vedere Gotteri: era sdraiato sulla schiena a qualche metro da me e canticchiava ancora. Mi girai e scorsi vicino a me la terra che piombava nel nulla. Effettivamente ero distante dal bordo poco più di un metro.
Dieci minuti dopo la foschia si era completamente dissolta, ma non ci eravamo ancora scambiati una parola. Gotteri era accigliato, come se la nebbia fosse una sua alleata e gli mancasse già. Si alzò in piedi e si mise in marcia, e con un movimento brusco del braccio mi fece segno di seguirlo.
Facemmo un rapido giro del villaggio, un nucleo compatto di case nere dalle pareti catramate e edifici più piccoli separati da sentieri fangosi. Il suo isolamento era accentuato dalle dimensioni ridotte e dallo spazio aperto che lo circondava. Il vento soffiava come per proteggerlo, cantando o ululando dietro ogni angolo, sempre più invadente man mano che passavano i minuti.
Io e Gotteri ci tenevamo a qualche metro di distanza l’uno dall’altro, ma percorrevamo la stessa strada circolare intorno al minuscolo centro abitato di Gásadalur. Le persone di qui avevano vissuto al limite estremo della civiltà e solo di recente era stato dato loro un tunnel di collegamento con il resto dell’umanità.
Dopo avermi fatto fare il tour guidato del paesino, il francese, sempre scontroso, tornò verso la scogliera. Camminavamo paralleli al bordo, senza osare avvicinarci, con le raffiche di vento che ci spingevano diabolicamente all’indietro verso il villaggio. Almeno ora splendeva il sole e non c’erano più dubbi su dove finiva la terra e cominciava l’oblio. Un passo falso e saremmo morti. Una caduta vertiginosa.
Proseguimmo finché non ci trovammo sull’arco opposto della scogliera, con la cascata e il villaggio di fronte a noi. Gotteri appoggiò a terra l’attrezzatura senza dire una parola e mi lanciò un’occhiataccia mentre preparava la macchina fotografica e gli obiettivi. Immaginai che fossimo arrivati dove aveva intenzione di lavorare.
Mi girai e capii perché ci eravamo fermati proprio lì: la vista era straordinaria.
La cascata scendeva dalla cima della scogliera e si tuffava nel verde impetuoso dell’oceano. Scendeva dritta, uno scroscio bianco contro il grigio scuro del basalto, rombando nell’aria fino a schiantarsi, acqua contro acqua.
Sotto c’erano caverne buie scavate nella roccia, recessi oscuri e inquietanti dietro la cortina d’acqua. Sopra e dietro il villaggio, le montagne creavano un minaccioso sfondo verticale di verdi e marroni. Le casette nere sembravano puntini insignificanti disposti su un panorama a loro estraneo. Il mare e la terra erano infinitamente più grandi e solidi di qualunque cosa fatta di legno e bitume.
Ero talmente incantato dal paesaggio che non mi ero nemmeno accorto che Gotteri si era spostato con la macchina fotografica in mano. Poi lo vidi avvicinarsi attentamente al bordo della scogliera e sdraiarsi su un triangolino d’erba a circa tre metri dal precipizio. Puntò l’obiettivo verso le pareti di fronte, dove centinaia di pulcinelle di mare avevano fatto il nido su una serie di minuscole sporgenze. Quei piccoli uccelli neri, rossi e arancioni erano ancora più piccoli se paragonati a ciò che li circondava, ma tutti insieme erano i padroni delle rocce.
Il vento mi schiaffeggiava il collo, mi costringeva a ripararmi con le braccia e a fare un passo avanti e uno indietro per restare in equilibrio. Le raffiche soffiavano sopra il corpo disteso di Gotteri, scompigliandogli i capelli; poi aumentarono di intensità in direzione della cascata. Mi allontanai di un passo dal precipizio, preoccupato. Gotteri aderiva perfettamente al terreno stringendo sicuro la macchina fotografica che vibrava. Poi accadde.
La cascata di Gásadalur era molto capricciosa. Si gettava a testa in giù nell’oceano, ma a un certo punto si sollevò in un arco amplissimo e ricadde su se stessa. Una montagna d’acqua, una celebrazione della potenza del suo creatore, un fenomeno ancora più drammatico e spettacolare di quando si tuffava nel mare.
Mentre la ammiravo a bocca aperta, il vento spinse la cascata all’indietro, che andò a schiantarsi sulla cima della scogliera, una forza della natura sovrastata da un’altra e ricacciata indietro per ricominciare da capo.