2
Tre mesi prima
Fu il vento di giugno a sospingermi sulle isole Fær Øer. Una burrasca mi raccolse e mi scaricò sul primo lembo di terra asciutta stretto tra cielo e mare. In linea retta verso nord rispetto a dove ero partito, a 0 e a 360 gradi dal luogo che mi ero lasciato alle spalle.
Settecento chilometri a nord di Glasgow, 670 a ovest della Norvegia e 650 a sud dell’Islanda: quando si dice “in mezzo al nulla”. Tanto andava bene un posto qualsiasi, l’importante era che fosse lontano da dove venivo.
Uscii dal minuscolo aeroporto e mi guardai intorno. Non vidi niente. E non solo perché il terminal era avvolto dalla foschia e da una pioggerella leggera: non c’era letteralmente niente. A parte l’autobus che in un’ora mi avrebbe portato a Tórshavn, si scorgevano soltanto i contorni spettrali di alcune auto e, più in là, quelle che potevano essere le ombre verticali dei pali del telefono.
Sistemai i bagagli nella pancia dell’autobus, trovai un posto vicino al finestrino, appoggiai la testa al vetro e fissai la notte estiva finché il motore, rombando, prese vita.
Alcuni passeggeri cominciarono a chiacchierare e senza volerlo mi sintonizzai sulla loro conversazione. Non sulle parole, per me incomprensibili, ma sul suono.
L’accento ricordava il gaelico. Era come ascoltare i pescatori di Galway, sulla costa occidentale dell’Irlanda, o i contadini delle Ebridi. Una cadenza melodiosa che rischiarava la nebbia serale.
Sull’aereo partito da Copenaghen, dove avevo fatto scalo venendo da Glasgow, avevo ascoltato quella cantilena senza sosta. Era l’ultimo volo della giornata e diversi passeggeri si erano tirati su con un po’ di birra e vino. Il corridoio centrale era pieno di faroesi allegri e rubizzi: sembrava di stare a un convegno di contadini. Non avevano smesso di bere nemmeno dopo il decollo. L’alcol gratis scorreva a fiumi e le hostess facevano avanti e indietro in continuazione per soddisfare le richieste. Forse per questo i faroesi erano riusciti – almeno apparentemente – a mantenere il sangue freddo quando si era scatenata la tempesta. La nostra scatoletta di alluminio volante veniva sballottata di qua e di là, ma loro non battevano ciglio e ordinavano altri drink.
Le ali dell’aeroplano sbattevano come le ciglia di una ragazza; a volte sembrava di essere a pochi metri dalle cime verdi delle montagne che spuntavano all’improvviso dalle nuvole. Man mano che ci avvicinavamo alle Fær Øer, volando in cerchio alla ricerca di un modo per atterrare, le creste appuntite apparivano sempre più spesso, sorgendo dal mare infuriato che faceva capolino in mezzo alla nebbia densa come latte.
L’orizzonte cambiava a ogni istante, in angolature del tutto innaturali. Il mare era a un passo. Il vento ruggiva schiaffeggiando i fianchi dell’aereo come un asciugamano bagnato contro due gambe nude, quasi a dimostrare quello che avrebbe potuto farci se solo avesse voluto. Gli schiaffi più dolci rovesciavano l’aereo di lato, quelli più violenti lo facevano precipitare in modo preoccupante, e lo stomaco ci saliva in gola.
Alte torri di roccia in equilibrio improbabile si allungavano verso di noi. In un lampo avevamo superato le isole. Se me ne fosse importato qualcosa, mi sarebbe passata la vita davanti agli occhi.
Una donna di mezza età seduta dall’altra parte del corridoio accarezzava febbrilmente un crocifisso che aveva al collo e borbottava tra le lacrime una preghiera al suo dio. Anche lei, come me, non doveva essere del posto. I locali si erano di sicuro già trovati in una situazione simile, oppure erano talmente ubriachi da non farci caso. Un uomo in giacca e cravatta si era girato verso il suo vicino e aveva scrollato le spalle con un sorrisetto sul volto vissuto.
Poi le cose erano peggiorate.
Probabilmente eravamo finiti proprio al centro di una corrente a getto, perché l’aereo scendeva in picchiata più velocemente di prima, quasi capovolgendosi. Tazze e bicchieri erano sparsi per tutta la cabina.
In quei tre lunghissimi secondi di caduta libera avevo trovato il tempo per formulare tre pensieri. Uno: se il karma esiste davvero, la punizione sarà una gran rottura di palle. Due: mi piacerebbe finire il whisky prima che il bicchiere voli via. Tre: sto per morire.
C’è qualcosa di consolante quando ci si accorge che è arrivata la fine. Soprattutto se la sopravvivenza non è esattamente la prima delle preoccupazioni. Tre secondi per contemplare i propri errori, valutare i rimpianti e constatare che, in fin dei conti, non sono poi tantissimi.
Non so in cosa fossimo incappati, ma eravamo riusciti a superarlo e il pilota aveva ripreso il controllo dell’aereo. Forse solo per condurci all’inferno. La donna dall’altra parte del corridoio aveva una crisi isterica, mentre i faroesi ridevano; per lo meno quelli che si degnavano di avere una reazione. La maggior parte era riuscita abilmente a tenersi stretto il bicchiere di liquore e qualche mignon di rinforzo. Un uomo in abito grigio e con la cravatta storta aveva fatto segno a una hostess seduta con le cinture allacciate di portargli un’altra vodka. Lei aveva risposto di no e lui si era stretto nelle spalle in un misto di delusione e rassegnazione. Non condividevo la loro stessa fiducia che tutto si sarebbe risolto per il meglio, ma me ne importava altrettanto: cioè poco.
Mi ero così trovato a riflettere sui rispettivi vantaggi della morte e della birra. La scelta non dipendeva da me, ma almeno era un modo per passare il tempo mentre il vento e il destino decidevano che cosa ne sarebbe stato di noi. Morte o birra? Morire su quel volo o raggiungere le Fær Øer, dove si diceva che la birra fosse particolarmente buona? Entrambe le opzioni avevano il loro fascino, anche se la morte era una scappatoia che non potevo scegliere senza portarmi dietro un aereo carico di innocenti. Non ho mai pregato in vita mia. Forse poteva essere un buon momento per cominciare, ma la birra mi sembrava una motivazione decisamente frivola per chiedere un intervento divino. Comunque, non era fondamentale, perché non credevo. In niente.
Fa’ una scelta, mi ero detto, e mi era tornato in mente Trainspotting di Irvine Welsh. Scegli la vita. Scegli la birra. Scegli la morte. Scegli di chiudere gli occhi e di lasciare che la coscienza si divori la tua vita di merda finché non ti strozzi. Scegli.
Non ce n’era stato bisogno. In mezzo alla coltre di nebbia era comparsa una specie di pista: al terzo passaggio, il vento aveva deciso premurosamente di presentarsi con un’angolazione favorevole e il pilota aveva sfidato l’impossibile riuscendo a tenere l’aereo in linea con la pista di atterraggio. Il terreno ci veniva incontro velocissimo, poi gli pneumatici avevano colpito l’asfalto con un paio di sobbalzi e lo strillo di una strega. Una voce solitaria aveva esclamato un trionfale: «Føroyar!». Nella cabina si era levato un educato applauso, tipo il battito di mani un po’ brillo che accompagna l’atterraggio in Spagna di un volo di turisti proveniente da Glasgow.
Gli altri erano tornati a casa. Io ero semplicemente arrivato lì. Forse non era il momento giusto per chiedersi perché.
La strada dall’aeroporto di Vágar a Tórshavn procedeva serpeggiando in mezzo alla campagna verde e la pioggia bagnava i finestrini dell’autobus. Ogni tanto, senza preavviso, comparivano piccoli villaggi di non più di una decina di case. Casupole squadrate, segnate dalla furia degli elementi. Davano tutte sul mare, forse per vedere in anticipo la prossima ondata di maltempo.
In giro non c’era nessuno, nemmeno lungo la strada. Però contai un sacco di pecore, uccelli marini e cavalli. Scorsi anche il lampo marrone di una lepre di montagna che scorrazzava su e giù per una collina erbosa. Ma di esseri umani, neanche l’ombra.
All’improvviso la strada si inabissò; l’autobus infilò una discesa ripida ed entrò nella bocca nera di una galleria. Avevo letto su internet che quasi tutte le diciotto isole dell’arcipelago erano collegate da tunnel sottomarini, ma fui colto comunque di sorpresa. Nel giro di pochi secondi ci ritrovammo sotto l’Atlantico in un passaggio scavato nella roccia che sembrava infinito. Era come viaggiare nella pancia di un serpente gigantesco. L’idea di non vedere luci in fondo al tunnel mi era tristemente familiare.
Poi cominciammo a risalire sbuffando e, dopo una svolta, riemergemmo su un’altra isola dalla seconda bocca di quel serpente a due teste.
La stessa cosa si ripeté diverse volte. Su alcune isole trascorremmo solo qualche minuto prima che il mare ci inghiottisse di nuovo, lasciandoci sott’acqua per diversi chilometri. Più che da un’isola all’altra, passavamo da un cunicolo all’altro.
In superficie il paesaggio era una festa continua di verdi e marroni, con macchie color ruggine che spuntavano nella penombra. I fianchi delle colline erano punteggiati di rocce grigie e tagliati da pigri torrenti che scorrevano verso valle. La nebbiolina era regolarmente interrotta da cascate di un bianco brillante che scendevano dalle vette più alte cercando di ricongiungersi al mare. Un campo di battaglia di forze contrapposte, una lotta tra terra e acqua.
Procedevamo paralleli ai fiordi, con le alture che ci fissavano minacciose affondando le cime in nuvoloni scuri. Quando la nebbia si diradava, dietro le colline spuntavano altre colline, e montagne dietro le montagne; lava su lava, come in una mischia di rugbisti. Dove i fiordi o il mare avevano creato baie naturali si vedevano delle casupole sparse, comunità nate per caso dalla necessità.
Poi, inaspettatamente, comparvero i primi indizi di un centro semiurbano: un’officina, un negozio, una serie di segnali stradali, una fila di case ravvicinate, i riflettori di un campo da calcio, capannoni industriali, attraversamenti pedonali e uffici. L’autobus imboccò una tangenziale, superò una rotonda, girò a sinistra e ci scaricò su una spianata di cemento, una tela su cui erano dipinte le ombre umide del porto. Benvenuti a Tórshavn.
Immobile, con le valigie ai piedi e la pioggia che mi colpiva la faccia quasi orizzontalmente, tremavo per il freddo. In teoria doveva essere una sera estiva. I miei compagni di viaggio marciarono in fila verso i taxi e le auto che li aspettavano, e nel giro di qualche secondo restai solo. Ero stato io a decidere di andare lontano, adesso non avevo alcun diritto di lamentarmi.
In meno di cinque minuti raggiunsi il centro della città e trovai l’Hotel Tórshavn, un edificio alto e rosso alle pendici di una collina ripida a poca distanza da un’altra area del porto. Sarebbe stato casa mia, almeno finché non trovavo un altro posto dove vivere.
Entrai, mi scrollai la pioggia dal giubbotto e appoggiai i bagagli. Il receptionist, un ragazzo magro con i capelli scuri, mi sorrise cortesemente e mi chiese come poteva aiutarmi. Gli risposi che avevo prenotato una singola e lui cominciò a scorrere il registro.
«Può dirmi il suo nome, per favore?»
«Callum. John Callum.»
«Ah, sì. Ecco. È a Tórshavn in vacanza o per lavoro, signor Callum?»
«Nessuna delle due. Sono venuto a vivere qui.»
Il ragazzo alzò la testa dai fogli e mi guardò stupito. «Davvero?»
La camera era minuscola ma funzionale. Da una parte c’era un letto a una piazza e mezzo, scostato dal muro e privo di testata. La porta dell’armadio, stretto, sbatteva contro il televisore appeso alla parete: era tutto ravvicinato. Dalle finestre filtrava una debole luce, nonostante fosse tardi. Chiusi le tende oscuranti, facendo finta che fosse notte, e mi versai un generoso bicchiere del whisky di malto che avevo comprato in aeroporto. Dopo un film in tv e diverse visite alla bottiglia riuscii a incastrare il mio metro e ottanta abbondante in quello spazio ridottissimo e a addormentarmi.
Ebbi l’impressione di svegliarmi dopo cinque minuti, strappato al sonno da alcuni colpi battuti sul muro. Mi alzai a sedere ma mi girava la testa. Mi guardai intorno cercando di capire dove diavolo fossi. Sentii in bocca il sapore amaro delle parole che mi erano morte sulla punta della lingua, la frase che avevo interrotto e subito dimenticato. Ero fradicio di sudore e avevo il respiro affannato. Cercai di riprendermi e di riflettere.
Il mio faticoso silenzio bastò a interrompere il benvenuto furioso dalla stanza accanto. Sentii un ultimo lamento, una protesta in una lingua straniera che non doveva essere né un augurio di buonanotte né un complimento particolarmente lusinghiero. Il sonno e l’incubo che doveva averlo accompagnato erano scomparsi.
Mi alzai in piedi, scostai le tende e con sorpresa mi accorsi che il giorno era già cominciato. Sarebbe stato molto lungo.
Entrai barcollando nella doccia, sopportai le punture acute dell’acqua calda, mi rivestii e scesi nella hall. Il receptionist alzò lo sguardo, sconcertato, mentre varcavo le porte automatiche e uscivo per le strade di Tórshavn.
Andai dove mi portava il vento. Su per una strada deserta e giù per un’altra, con la luce e la pioggia che mi battevano sulle spalle, in cerca di qualcosa ma senza sapere bene cosa. Quel posto trasmetteva un’inquietante sensazione di solitudine che non era turbata né dal passaggio delle auto né dagli esseri umani, e che non faceva che aumentare il mio disorientamento.
Mi fermai davanti alla vetrina di un negozio che vendeva abiti tradizionali fatti a mano. Appeso al muro, sopra una pila di maglioni pesanti, notai un grande orologio bianco. Erano le due e mezzo.
Era ancora notte fonda ed ebbi un tuffo al cuore.
Avevo il morale a pezzi, ma almeno le gambe stavano bene.
Ripresi a camminare.