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Io e Gotteri tornammo indietro lungo il Sentiero del Postino, ma non insieme. Eravamo a dieci metri di distanza l’uno dall’altro ma avrebbero potuto essere chilometri. Sembrava nervosissimo, procedeva a bocca chiusa con lo sguardo fisso davanti a sé.

Io stavo covando la mia rabbia. L’unica cosa che minava il mio risentimento riguardo alle sue domande era che io per primo avrei voluto sapere le risposte. Ero sconvolto, furioso con lui perché non mi credeva, eppure incapace di riporre la stessa fiducia in me stesso; furibondo con lui per avermi chiesto dei “ragazzini che si erano fatti male”, ma allo stesso tempo turbato perché era successo davvero.

Salimmo in silenzio, senza scambiarci neanche una parola, fino alla Líkstein, la “pietra tombale”, dove ci fermammo a malincuore per una pausa. Gotteri ce l’avevo davanti, per cui riuscivo a guardarlo senza che lui avesse lo stesso vantaggio. Ma sapeva che lo stavo fissando, e la cosa lo innervosiva moltissimo.

All’improvviso, girò la testa di scatto e mi lanciò un’occhiataccia. «Avevi detto che appena la nebbia fosse salita mi avresti parlato. Quando saresti riuscito a vedermi in faccia. Ecco, adesso mi vedi. Parla!»

Feci una serie di lunghi respiri, tenendolo in attesa. «Perché tutta questa voglia di interrogarmi, Serge? Perché vuoi sapere a tutti i costi dov’ero, cosa ricordo, cosa sa la polizia? E perché mi hai trascinato qui in mezzo al nulla?»

Si stizzì. «Callum, io...»

«Non mi importa, Serge. Dimmi perché cavolo ti interessa così tanto, oppure finiamola qua. Continui a ripetere che sei mio amico. Agli amici non si fanno gli interrogatori.»

Fece un passo verso di me, stringendo i denti. Ero sicuro che stesse per aggredirmi. Ci fissavamo, pronti a buttare giù l’altro dalla cima del mondo.

Il puntino verde di Gásadalur era lontanissimo sotto di noi, e sentii che una parte di me moriva dalla voglia di scagliare Gotteri giù lungo il sentiero. Forse se ne accorse, o forse stava fantasticando anche lui di farlo, ma con un sogghigno e un cenno arrogante nella mia direzione mi superò come una furia e riprese a scendere dalla collina in direzione di Bø, dove avevamo parcheggiato l’auto.

«Ti piace fare le domande, ma non ti piace rispondere. Eh, Serge?» gridai alla sua schiena mentre si allontanava. «Bene. Colloquio finito.»

Lui agitò in aria un braccio con fare sprezzante. Lo seguii in una specie di muta processione giù per la montagna.

Quando tornammo in piano e notai la sua Škoda, Gotteri era una cinquantina di metri avanti a me, camminando veloce spinto dall’indignazione. Si mise al volante e sbatté la portiera.

Lo raggiunsi in meno di un minuto. Temevo il lungo viaggio di ritorno, che sarebbe stato ancora più lungo per il silenzio che lo avrebbe accompagnato. Forse sarei riuscito a negoziare una tregua, magari avrei provato a cambiare argomento e a parlare di fotografia, di calcio o del tempo. Forse.

Appena appoggiai la mano sulla maniglia della portiera dal lato del passeggero, sentii il rombo del motore e uno stridore di pneumatici. L’auto scattò in avanti e Gotteri accelerò sul terreno accidentato immettendosi sulla strada. Si dileguò nel giro di un secondo. Sentivo il rumore del motore farsi sempre più lontano fino a scomparire.

Mi avvolse un silenzio improvviso, schiacciante. Ero ai piedi della montagna, solo, talmente attonito che scoppiai a ridere. Risi così forte e così a lungo che dopo un po’ cominciai a chiedermi non soltanto come diavolo sarei tornato a Tórshavn, ma anche se non stessi impazzendo.