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Karis e i suoi amici se ne andarono circa un’ora dopo, ma non prima di aver prosciugato il samovar di birra fino all’ultima goccia dorata. Mentre mi passavano accanto, uno di loro menzionò il Sirkús, il locale funky anni Settanta all’angolo occidentale del porto, dall’altra parte della strada rispetto all’Hotel Tórshavn. Una parte di me avrebbe voluto seguirli. Seguire lei. Ma non aveva senso.

Mi sentivo intrappolato dalla presenza di quel tipo grande, grosso e arrabbiato che aveva terrorizzato Karis. Era appoggiato a uno dei pali di sostegno del locale con una birra in mano e mi sfidava a incrociare il suo sguardo. Se me ne fossi andato, sarebbe stato come dirgli che aveva spaventato anche me, e non volevo dargli questa soddisfazione. Avevo soltanto due opzioni, sfidarlo o ignorarlo, e la cosa mi faceva infuriare.

Nel bar entrò un altro uomo e si mise accanto a lui. Era una sua versione leggermente più bassa e un po’ meno muscolosa, però aveva gli stessi capelli e occhi scuri. Forse era suo fratello. Il tizio più robusto gli disse qualcosa, il fratellino si girò verso di me e sogghignò. Si scambiarono un cenno d’intesa. Uscire in quel momento era un’idea doppiamente pessima: non volevo trovarmi nei vicoli bui e tortuosi di Tinganes con quei due.

Attacco o fuga. Il solito vecchio dilemma.

Il mio istinto aveva quasi deciso, quando inaspettatamente comparve un terzo uomo. Era magro e biondo, con un paio di jeans e una camicia bianca di cotone. Passò davanti ai due con un gran sorriso sul volto abbronzato e si sedette accanto a me. Stava diventando un’abitudine.

Mi mise una mano sulla spalla come se fossimo vecchi amici, e quando cercai di scrollarmelo di dosso la premette più forte. Si spostò per stare esattamente di fronte a me, mi sorrise e si avvicinò per parlarmi.

«Sei tu lo scozzese, vero? Sono venuto a salvarti il culo.»

«Cosa? Come fai a...»

«Non importa.» Aveva l’accento francese. «L’importante è che non ti fai pestare da quel Neanderthal e da suo fratello. Non vuoi, no?»

Lanciai un’occhiata alla coppia che continuava a fissare me e il mio presunto salvatore. Bisbigliavano con fare cospiratorio e annuivano nella mia direzione.

«Li conosci?»

«Quello che ha spaventato la bella Karis Lisberg si chiama Aron Dam. È una testa calda. L’altro è suo fratello Nils. Creano solo problemi. È meglio non conoscerli, credimi.»

«Ma sembra che loro vogliano conoscere me.»

Scoppiò a ridere. «Sì, sembra proprio così. Sono Serge Gotteri, il tuo nuovo amico.»

Mi offrì la mano e io gliela strinsi con cautela. Rise di nuovo.

«Non ci sono molti stranieri a Tórshavn, dobbiamo restare uniti» mi disse. «Dai, ti offro una birra e vado a scambiare due parole con i Dam.»

«Senti, posso uscirne da solo. Non devi...»

Lui sorrise e mi guardò sorpreso. «Credi di riuscire ad affrontarli entrambi?»

«Non ho intenzione di fare a botte.»

Gotteri reagì con una gallica scrollata di spalle. «Saggia decisione. Vado a parlarci io.»

«No, aspetta...»

Ma se n’era già andato. Si avvicinò ai due tizi e iniziarono una fitta conversazione. Dopo qualche scambio di sguardi e qualche stretta di mano, il più alto, Aron Dam, mi lanciò un’ultima occhiata, poi i fratelli finirono quel che restava delle loro birre e uscirono dal locale.

Gotteri allargò le braccia come a dire: “Visto?”. Sorrise di nuovo e si girò verso il bancone. Un paio di minuti dopo tornò con due boccali.

«Cosa gli hai detto?» chiesi.

«Sono sicuro che preferiresti non saperlo.»

«E invece voglio saperlo.»

«Gli ho detto che sei gay.»

«Cosa?»

«È tutto a posto, non devi ringraziarmi. Allora, perché sei venuto a vivere in questo posto dimenticato da Dio? Qui è anche più freddo e umido che in Scozia.»

«Perché gli hai detto che sono gay?»

«Per salvarti da un pestaggio, te l’ho spiegato. Sei gay? Non credo. Ho visto come guardavi Karis. Non importa. Perché sei qui?»

«I francesi sono tutti matti come te?»

«Sì, penso di sì, ma non altrettanto belli. Anche tu devi essere un po’ matto, però. Almeno io sono venuto qui per lavorare, mentre tu il lavoro l’hai trovato solo quando sei arrivato. Non hai scuse.»

L’accento di Gotteri era pesante come una nuvola di fumo di Gauloises e morbido come un sorso di cognac Camus. Il suo sorriso perenne era ammaliante come un gattino e ugualmente irritante.

«Che cosa fai?» domandai, sospirando tra me e chiedendomi come fossi finito a parlare con quel tizio.

«Faccio il fotografo per il “National Geographic”. Sono bloccato qui da cinque mesi, ma mi sembrano cinque anni. Non vedo l’ora di tornare a New York. Non stupirti se ti sembro fuori di testa. Se fra cinque mesi non sarai impazzito anche tu sarò sorpreso. È questo posto a ridurti così. Dormi la notte?»

Stavo per rispondergli di sì, ma la mia esitazione si rivelò fatale.

«No. Immaginavo... Fa diventare matti, eh? Qui peggio dell’inverno c’è solo l’estate. Sempre che tu riesca a distinguerle. Un posto bellissimo, eh, per carità. La mia macchina fotografica lo adora. E la gente è splendida. Be’...» Fece un cenno con la testa in direzione della porta da cui erano usciti i fratelli Dam. «Quasi tutti.»

«Quindi ti hanno spedito qui?»

«Sì. A fotografare uccelli. È pur sempre un lavoro, no? A proposito di uccelli... cos’hai fatto in faccia? Sembrano segni di artigli.»

Portai istintivamente la mano alla guancia e sentii le cicatrici rimaste dall’aggressione degli skua. «Ho disturbato una coppia che faceva il nido sulle colline. Colpa mia.»

Gotteri mi guardò incuriosito. «Non sei molto bravo a difenderti.»

Buttai giù un bel sorso di birra e scrollai le spalle. «Non ho fatto attenzione.»

«Mmm. Sii più cauto in futuro. Quindi sei stato sulle colline. Hai la macchina?»

«No. Vado a piedi.»

«Ah, male. Le colline intorno a Tórshavn sono belle, ma c’è molto altro da vedere. Ti accompagno io. Ti faccio fare un giro delle isole e...» Mi puntò un dito in faccia. «Ti difenderò dagli uccellini.»

Mio malgrado, scoppiai a ridere. Forse avevo bisogno di sentire qualcuno dalla mia parte.

«Okay. Perché no?»

Il volto di Gotteri si aprì in un sorriso. «Bon! Andiamo domani, allora. È sabato. Non lavori, giusto? Giusto. Ti passo a prendere alle otto. Per cominciare andremo a visitare la valle di Ambadalur, sulla punta settentrionale dell’isola di Eysturoy. Ti piacerà. Siamo alle Fær Øer, quindi vestiti per tutte e quattro le stagioni.»

Guardai l’orologio. «Okay. C’è tempo per un’altra birra. Ma... forse potresti dirmi una cosa...»

Serge rise. «Riguarda Karis, eh? Sì. È una ragazza interessante. Molto sexy, vero? Ma è una tipa un po’ strana. Ti piace? Certo che ti piace.»

Era così ovvio? Il cambio repentino di umore e la sua improvvisa uscita di scena avevano aggiunto qualcosa al suo fascino.

«Mi sa di sì» risposi. «Sai se esce con qualcuno?»

«Non lo so, ma usciva con qualcuno. Aron Dam. Dio solo sa che cosa ci trovasse in lui.»

«Davvero? Mi ha detto che non era il suo ragazzo.»

«Credo che si siano lasciati. Meglio così. È un brutto tipo.»

«Parlami di lui.»

«Fa il pescatore, come quasi tutti su queste isole. Anche suo fratello era pescatore, ma adesso lavora per la compagnia petrolifera che sta facendo le trivellazioni al largo della costa. I faroesi sono molto amichevoli, te ne sarai già accorto. Sono tranquilli, non si lasciano prendere dalle emozioni e si sforzano di andare d’accordo con tutti. Aron e Nils Dam sono diversi, sempre arrabbiati. La pesca è andata male, il tempo ce l’ha con loro, il governo non fa nulla... È sempre colpa degli altri. Penso che quando alle Fær Øer è stato distribuito il brutto carattere, se lo siano preso tutto loro. Comunque, stavi andando a ordinare delle birre, giusto?»

Andai al bancone. Dopo aver bevuto uscimmo barcollando nella notte chiara. Ci mettemmo d’accordo per incontrarci nell’area del molo vicino al Café Natúr alle otto. Serge prese la strada di casa sua e io quella che saliva lungo la collina, oltre l’Hotel Hafnia, verso quella che ormai era la mia casa.

Due volte ebbi l’impressione di scorgere una presenza nella penombra, ma non riuscii a capire se c’era davvero una persona che mi fissava o se erano semplicemente l’alcol o la mia paranoia. Fissai le ombre, ma restavano immobili. Se qualcuno mi stava seguendo, allora si muoveva soltanto quando gli voltavo la schiena.