39
L’automobilista che mi raccolse in mezzo alla strada per riportarmi in città non aveva chiaramente idea di chi fossi. Dubito che mi avrebbe fatto salire se avesse saputo che ero sospettato di un omicidio. Solo dopo un paio di chilometri, quando forse riconobbe il mio accento, scattò qualcosa nella sua mente. Dalla sua espressione mi accorsi che stava mettendo insieme i pezzi; sbarrò gli occhi e si mise a fissare risolutamente la strada. La conversazione si ridusse al minimo e mi scaricò a Tórshavn alla prima occasione, senza accompagnarmi a Dalavegur come ci eravamo accordati. Si fermò al terminal del traghetto, tirò il freno a mano e restò immobile guardando nervosamente davanti a sé finché io non colsi il suggerimento, aprii la portiera e scesi.
«Grazie» riuscii a malapena a dire prima che ripartisse, lasciandomi lì con la stessa rapidità con cui mi aveva scaricato Gotteri. Avrei anche potuto trovarlo divertente, se non fosse stato per i dubbi sulla mia sanità mentale che mi erano venuti visto che continuavo a ridere del casino in cui ero finito.
Mi incamminai verso la parte alta della città. Mentre risalivo Dalavegur considerai l’idea di tornare al capanno senza affrontare gli Hojgaard. Potevo nascondermi lì dentro interpretando il fatto che non avessero cambiato la serratura come il segno che mi accettavano ancora. Ero tentato, ma non sarebbe stato giusto, era da codardi. Non potevo essere sicuro di come mi avrebbero accolto, ma sapevo che erano brave persone, e soprattutto discrete.
Ma dovevano anche vivere nella loro comunità e ospitare un uomo accusato di omicidio era forse chiedere troppo. Ricordai le parole di Martin: se avessi portato guai, mi aveva detto, la vergogna sarebbe ricaduta su di lui. Era l’ultima cosa che volevo.
Respirai profondamente e mi avvicinai alla casa quadrata color giunchiglia. Dietro si addensavano nuvoloni scuri.
Hvirla, il cane da pastore degli Hojgaard, era in giardino, il naso all’aria a fiutare i cambiamenti del tempo. Quando mi vide, abbaiò una volta sola per avvertire chi era in casa, poi venne verso di me agitando la coda. Almeno c’era qualcuno contento di vedermi.
Mentre lo accarezzavo sulla schiena e sulle orecchie come spesso avevo visto fare a Martin, la porta si aprì. Hvirla stava ancora girando su stesso per la felicità, quando Silja scese i due gradini che portavano in giardino. Sembrava stanca e turbata. Non c’erano segni di suo marito.
«Hvirla, koma!» esclamò. Il cane scansò la mia mano e trotterellò verso di lei, sedendosi al suo fianco e muovendo la coda. Silja aveva legato i capelli in una coda di cavallo, indossava un paio di jeans e un maglione faroese a scacchi.
«Martin è al lavoro.» Si scostò una ciocca di capelli davanti agli occhi, ma la brezza gliela scompigliava di nuovo. «Tutto bene?»
La domanda mi colse di sorpresa, anche se non avrebbe dovuto. Silja Hojgaard aveva molto più diritto di preoccuparsi del suo benessere che del mio, ma era nella sua natura informarsi di come stessero gli altri. Forse aveva tutti i motivi di temere per la sua sicurezza. All’improvviso notai la paura. Era per quello che era così stanca e mi dispiaceva. Mi chiesi se fosse davvero il caso che continuassi a restare lì, se non rappresentassi davvero un pericolo per lei e per sua figlia.
«Sì, sto bene. Grazie, Silja. Se preferisci che me ne vada, lo capisco. Oppure posso tornare quando c’è anche Martin.»
Riprese a giocherellare con i capelli, poi lasciò perdere e permise al vento di fare ciò che voleva. Mi guardò come se fossi una creatura sconosciuta. Sollevò appena le spalle in un misto di accettazione e rassegnazione.
«No, è tutto a posto. Vuoi stare ancora nell’altra casa? Se vuoi, è okay.»
Mi sentii piccolissimo di fronte alla sua generosità. Sarebbe stato molto più semplice se mi avesse invitato ad andarmene, se avesse detto che non poteva prendersi il rischio o affrontare l’imbarazzo o che non aveva il coraggio di pensarmi a vivere lì, nella loro proprietà. Invece mi permetteva di restare, riempiendomi così di vergogna.
«Davvero per Martin non è un problema dopo tutto quello che è successo?»
Esitò, stava per dire qualcosa ma mi rivolse solo uno sguardo triste. «Se vuoi resta. È okay.»
Fui tentato di chiederle se mi stava nascondendo qualcosa, ma non ero sicuro di volerlo sapere.
«Silja... non devi sentirti obbligata. Se preferisci che me ne vada lo capisco. Non voglio complicarvi le cose. Tu e Martin siete stati splendidi, mi avete dato un posto dove vivere. Vi sono debitore.»
Il sole fece capolino tra le nuvole e lei si protesse gli occhi con il dorso della mano. In quello stesso istante notai Rannva che sbucava dalla porta d’ingresso; si intravedeva solo la sua testolina bionda. La salutai e qualche istante dopo mi salutò anche lei.
Silja se ne accorse e fece un passo verso destra, mettendosi tra me e sua figlia, impedendoci così di vederci. Sentii una stretta allo stomaco. L’espressione di Silja la tradì, sembrava a disagio per la sua reazione istintiva, ma non così a disagio da spostarsi di nuovo.
«John... il tribunale ha detto che sei libero. E io mi fido di loro, non della gente di Tórshavn che parla male di te. Resta, per favore.»
Avrei voluto abbracciarla, o almeno stringerle la mano per ringraziarla, ma avevo paura che qualsiasi cosa avessi fatto sarebbe stata male interpretata. Sentivo il suo disagio lottare con la sua educazione. Aveva vinto quest’ultima e non volevo che niente alterasse il risultato.
«Oh... un’altra cosa.» Silja sembrava imbarazzata. «Puoi restare gratis. Senza pagare. Non... non hai più il lavoro. Martin è dispiaciuto, ma...»
«È tutto okay. Capisco.»
«Dopo... quando tutto sarà finito... riavrai il posto.»
Chissà se la fine sarebbe mai arrivata. Per il momento mi bastava questo piccolo dono.
Pochi minuti dopo uscimmo da casa degli Hojgaard. Silja portava una pila di lenzuola e asciugamani puliti, dopo aver gentilmente declinato la mia offerta di aiutarla. Rannva e Hvirla ci seguivano a ruota, la bimba borbottava qualcosa e il cane strofinava il naso contro le sue mani.
Tórshavn spariva sotto di noi man mano che le nuvole si avvicinavano, minacciando pioggia. Non ci dicemmo nulla; si sentivano solo la voce di Rannva, Hvirla che abbaiava di tanto in tanto e il sussurro del vento. Silja era più a suo agio nel silenzio di me, che ero sempre sul punto di pronunciare l’ennesima scusa forzata.
Il capanno apparve dal fianco della collina, il sole che si rifletteva sulle finestre era l’unico vero indizio che la struttura non era un fenomeno naturale. Era la mia precaria abitazione.
Ma c’era anche qualcos’altro. Qualcosa che al mattino non c’era. Qualcosa che mi scombussolò.
Lo notai per primo, merito della mia vista o perché ero più attento di Silja, ma non capii subito che cosa fosse. Per un attimo pensai, in modo illogico, che gli Hojgaard avessero ridipinto la porta per il mio ritorno. Il buonsenso però avrebbe dovuto dirmi che non era così che veniva trattato il figliol prodigo.
Avvicinandoci, ci rendemmo conto di cosa era successo. A Silja sfuggì un gemito e portò una mano alla bocca. Si fermò, mentre io affrettai il passo.
La porta del capanno era rossa. Grondava. Il legno era impregnato di colore rosso, ma non era vernice.
Davanti alla porta c’era una pozza di sangue appiccicoso che inzuppava la terra. Puzzava. Un odore dolciastro e nauseante, con un sentore di chiodi arrugginiti e vecchie monetine. Era così intenso che mi fece rivoltare lo stomaco e la mente in egual misura, risvegliando i ricordi e le mie viscere. Mi si mozzò il respiro e dovetti girarmi per prendere fiato.
Silja era immobile con la bocca e gli occhi spalancati. Aveva tirato Rannva vicino a sé, e la bimba aveva affondato il suo volto di agnellino nel maglione della madre. Dietro di loro, Hvirla girava su se stesso nervosamente, fedele al suo nome, in un vortice di confusione.
Silja si inginocchiò e sussurrò qualcosa all’orecchio di Rannva, che corse via senza voltarsi chiamando il cane. Scesero insieme giù per la collina, rotolando spensieratamente nell’erba.
Il sangue era stato rovesciato sulla porta a secchiate. Aveva impregnato il legno e c’erano schizzi dappertutto. Un gesto compiuto con rabbia. La stessa rabbia che sentivo montare dentro di me.
«Silja, mi dispiace moltissimo. Io...»
«No!» mi interruppe, anche se le tremava la voce. «No. Non sei stato tu. È sbagliato. È male. Stanotte stai a casa nostra. Domani sistemiamo. È molto male.»
Aveva la speciale abilità di farmi sentire peggio cercando di farmi sentire meglio. Ogni suo gesto gentile uccideva un po’ della mia anima. Non potevo permettere che ammazzasse anche quel poco che restava.
«No. Resterò qui.»
«Ma non puoi... Il sangue...»
«Silja, tu e Martin avete già fatto tanto per me. Non peggiorerò le cose. E non permetterò al responsabile di questo gesto di mandarmi via. Resterò qui finché voi sarete d’accordo.»
Sembrava dubbiosa, cercava di evitare con lo sguardo la porta intrisa di sangue. «Okay. Ma voglio pulire. Vado a casa e vedo di cosa ho bisogno.»
«No, faccio io. È colpa mia.»
Silja ci pensò su un secondo poi scosse cupamente la testa. «Insieme. Faremo prima.»
Né io né Silja riuscimmo a eliminare completamente il liquido appiccicoso che era penetrato nel legno. Lo strato superficiale venne via senza troppi problemi, lasciando una pozza rugginosa sul terreno, ma il resto dovette essere trattato più volte con vigore. Silja si occupò della parte più bassa della porta e io di quella superiore. Le mie mani si muovevano più velocemente, con più energia delle sue. Lei mi guardò un paio di volte, consapevole del mio sforzo rabbioso, ma distolse subito gli occhi.
«È sangue di pecora.» Era stanca e amareggiata. «Una cosa terribile. Alle Fær Øer rispettiamo le pecore. Ci danno da mangiare e ci tengono al caldo con la lana. Ci prendiamo cura di loro e loro si prendono cura di noi. Non è giusto ucciderle per... per questo.»
Quella parola si insinuò tra noi. Silja non mi aveva mai chiesto se ero stato io a uccidere Aron Dam. Né sembrava che le interessasse saperlo.
Lavorammo in silenzio, finché non le feci la domanda che mi tenevo da un po’.
«Silja, mentre non c’ero... è venuto qualcuno?»
Lei si fermò e mi guardò, scostandosi i capelli dal viso con un gomito per non toccarli con le mani macchiate di sangue.
«Se penso chi intendi, no.»
«Karis Lisberg.»
Scosse la testa. «No, mi dispiace.»
Rannva e Hvirla continuarono a giocare sul pendio, tenendosi a distanza dal sangue, dalla porta e da me. Silja possedeva una tranquilla determinazione e uno stoicismo difficile da ignorare.
Se a quella porta fosse stato inchiodato Gesù Cristo in carne e ossa, dopo un paio di minuti di sorpresa l’avrebbe tirato giù, lavato e si sarebbe data da fare per ripulire tutto. Invidiai la sua calma e la sua tolleranza: mi sarebbe piaciuto ritrovarle anche dentro di me, invece ero preda di un groviglio di emozioni contrastanti.
Alla fine, capimmo che la porta non sarebbe tornata come prima senza una nuova mano di pittura; le sue venature striate di rosa testimoniavano che il sangue è più denso dell’acqua.
Entrambi avevamo le mani macchiate. Guardai le mie e non riuscii a non pensare che erano del colore della colpa. Lei si accorse che le fissavo.
«Se vuoi lavarle, dentro c’è l’acqua calda. L’avevo messa se ti liberavano. Adesso vado, tra poco torna Martin.»
Silja, sua figlia e il cane tornarono giù lungo la collina; stavolta Rannva correva davanti a sua madre, fermandosi di tanto in tanto per farsi raggiungere e per lanciare delle occhiate incuriosite a quell’uomo con le mani insanguinate.
Quando mi trovai all’interno dei confini angusti e spogli del capanno mi sentii meglio. Non era una prigione. La mia galera erano ancora le diciotto isole delle Fær Øer da cui non me ne potevo andare, ma sentivo che quella piccola parte era casa mia. Mi allungai sul letto sfondato e fissai il soffitto.
Volevo dormire, ne avevo bisogno, ma temevo il sonno. Dalla morte di Aron Dam le notti si erano fatte sempre più corte e gli incubi sempre più intensi. I sudori e i tremori sembravano non conoscere fine e mi stavano prosciugando. Non avrei saputo dire quanto avevo dormito davvero dal momento dell’arresto. Quando non sognavo Aron Dam, Liam Dornan o gli altri, sognavo di non riuscire a dormire. O almeno così pensavo. Era tutto mischiato, come il sole velato e l’oscurità in controluce che mi sfidavano a determinare con precisione dove finisse il primo e dove cominciasse la seconda.
Chiusi gli occhi. Forse non sarei riuscito a distinguere l’assenza di sonno dagli incubi, ma ero pronto ad affrontarli entrambi.