CAPITOLO XVII

PUNTUALMENTE, alle sette, Beckford si trovava nell’atrio con la sua valigia, che un ragazzo dell’albergo con evidente sforzo teneva nelle mani.

Dieci minuti dopo era seduto nell’automobile accanto ad Aslan.

Guidava lei, sebbene egli si fosse offerto di condurre la vettura; ma Aslan con tono asciutto aveva rifiutato l’invito.

Durante tutto il tragitto non fu scambiata fra loro nemmeno una parola. Entrambi seguivano taciturni i loro pensieri.

Egli si esaltava nella deliziosa consapevolezza del vincitore che ritorna a casa col capo cinto d’alloro. Finalmente era riuscito a farne la sua amante. E non era stato necessario usarle violenza. Gli era venuta incontro come una pecorella affamata che voglia farsi cibare.

Quando la parola violenza fece capolino nella sua mente, si ricordò delle parecchie violenze che aveva dovuto usare in diverse occasioni per raggiungere la meta desiderata.

Ricordando quei casi e riflettendo sui particolari, finì col convincersi che una qualsiasi prostituta o puttanella occasionale, trovata per la strada, gli aveva promesso e procurato maggior godimento che non una delle nobildonne, con cui s’era illuso di dover usare violenza.

«Per fortuna tutto questo è sorpassato», pensava Beckford, mentre la macchina correva verso la City. «Per ora, e speriamo per molto tempo, non avrò più bisogno di ricorrere a una ragazza del bar o della strada. È passata, se Dio vuole. Ora ho ciò che ho sempre desiderato. Un’amica elegante, di grande distinzione. Forme divine. E per di più, come gradita aggiunta: un mucchio di denaro. Un mucchio. E che mucchio, per tutti i santi del paradiso! Finalmente un’amante mia. E chi sa quanto le sono mancato! Maritata da anni con quel vecchio babbeo. Certamente ha passato i sessanta. Pensa soltanto alle sue costruzioni. Giorno e notte. Costruzioni. Se volessi ricominciare a fare la boriosa, niente da fare, tesoro. Ti farò vedere io chi comanda qui.» Così folleggiava guardando nell’azzurro, mentre l’auto filava dolcemente e quasi senza rumore.

Intanto era calata la notte. Nel buio i suoi pensieri continuavano a girare intorno ai particolari del suo prossimo tête-à-tête con Aslan. Che questo incontro intimo dovesse avvenire il giorno dopo, era cosa che dipendeva soltanto da lui, ormai signore e padrone.

Raggiunsero le prime strade della periferia, già illuminate.

Aslan diminuì la velocità.

«Non c’è più benzina?» chiese Beckford, messo subito di malumore per essere stato così improvvisamente distolto dalle sue piacevoli riflessioni.

«Niente affatto», rispose Aslan. «Il serbatoio è ancora quasi pieno per metà.»

Continuando la corsa a velocità notevolmente ridotta, Aslan volgeva gli occhi ora a destra ora a sinistra. Doveva essere certo una strada o una casa che cercava.

Beckford, sempre dietro ai suoi sogni, si ridestò

ora del tutto. Credette finalmente d’avere compreso.

«Sta cercando un albergo che non dia nell’occhio per passarvi la notte con me», pensò soddisfatto.

Finalmente Aslan parve avere trovato ciò che cercava. Ma evitò anche soltanto di lasciar sospettare a Beckford che cosa stava rimuginando.

Beckford, voltandosi da tutte le parti fino quasi a storcersi il collo, non vide alcun albergo, né elegante né ordinario.

Aslan portò l’automobile vicino al marciapiede e fermò il motore. Qui il traffico non era intenso, e se fosse stato necessario, avrebbero potuto fermarsi l’intera notte senza essere disturbati da nessuno.

Aslan si appoggiò comodamente alla spalliera.

Nella luce proveniente dalle vetrine e dalle lampade stradali, Beckford vide sul suo viso il medesimo sorriso misterioso che in quel pomeriggio lo aveva tanto irritato, il sorriso che poteva significare tutto o niente, ma in nessun caso nulla che stesse fra il tutto e il niente.

Senza guardarlo, senza voltarsi verso di lui, senza cambiare la sua comoda posizione, ella incominciò a parlare con una ironia sferzante nella voce: «Signor Beckford, per tutta la lunga strada dall’albergo sin qui lei non ha pensato ad altro se non che mi avrebbe dominato, che ora io sono la sua amante e lei il mio gigolò o non so che cos’altro possa avere immaginato. Ho ragione, signor Beckford?»

«No… eh… be’… ho pensato… eh… a quel che fra noi…»

Egli balbettava miserevolmente, perché si era trovato sbalzato di sella in modo del tutto impreparato.

Il tono tagliente di Aslan lo strappò di colpo dal trono, sul quale aveva sognato durante il viaggio. Quel tono duro e ironico, egli l’aveva imparato a conoscere in precedenti occasioni. Lo ricordava molto bene: ogni qualvolta Aslan lo usava, seguiva un tuffo nell’acqua gelata, e doveva passare del tempo prima che egli fosse in grado di riacquistare in sua presenza una notevole sicurezza di sé.

«Soltanto uno così inesperto della vita reale come lei, signor Beckford, poteva raffigurarsi qualcosa di così incredibilmente idiota. Per chi mi ha preso? Per una delle sue sgualdrinelle? È veramente offensivo per me, profondamente offensivo, quel che ha pensato di me. Ognuno dei suoi pensieri era un insulto personale.»

«Ma, signora, in nessun modo ho pensato qualcosa che potesse offenderla. Proprio al contrario, signora, io sento per lei un rispetto così profondo, sincero.»

«Ba…ba…ba! Non dica bugie così sfacciate! Nemmeno nella più piccola fibra del suo essere lei è un gentiluomo. Lei non è capace di rispetto per la donna, che le si è data, non importa per quale motivo. Lei è un sergente dei marines e rimarrà tale fino alla fine dei suoi giorni. Credo di averglielo già detto un’altra volta.»

«Ma allora non capisco, signora, perché… perché…» e non trovava le parole adatte.

«Perché le ho reso la cosa così facile; è questo che voleva dire?»

«Esattamente, signora, ma non trovavo l’espressione giusta.»

«E ora non si spaventi, signor Beckford, e non s’infuri se le dico perché le ho reso la cosa così facile.»

«Yes, signora?»

«Avevo bisogno per la quiete del mio spirito, diciamolo una buona volta, di una cavia, sa, uno di quei porcellini che si usano per gli esperimenti scientifici. E in lei ne ho trovato uno veramente eccellente. Sì, il migliore che avessi potuto trovare.» «Un porcellino d’India? Non capisco, signora, che cosa intende dire.»

«Lei non comprende mai niente. Ed è soltanto per questo che merita compassione.

In una circostanza che risale a parecchio tempo fa le promisi… no, non promisi nulla, ma le accennai che in certe circostanze non esattamente previste, io mi sarei potuta dare a lei… per suo godimento, se così desidera interpretarlo. Ma qualunque sia la sua interpretazione, nessun danno ne avrà il mio spirito che riguarda la mia promessa, io non le sono più debitrice. Anzi ho mantenuto due volte quel che era stato previsto per una volta sola. Esatto, signor Beckford?»

«Esatto, signora, e io, a essere sincero, gliene sono grato.»

«Lasci stare la gratitudine. Sono io che debbo esprimerle i miei ringraziamenti sinceri, allo stesso modo che l’umanità tormentata dalle malattie dovrebbe erigere monumenti alle cavie, ai porcellini d’India, alle scimmie, ai cani, ai topi per tutto quel che questi innocenti animali da esperimento hanno fatto, sofferto e sopportato per gli uomini.»

Beckford fece scorrere gli occhi sulla strada e a poco più di venti passi notò con sua gioia un bar.

«Mi scusi, signora, ho urgente bisogno di un w hisky. Ritorno subito. Ma debbo riprendere le mie forze per fare da cavia.»

«Non si dia pensiero; aspetto. Per favore dica ai cameriere di portarmi un doppio

bitter.»

Beckford portò con sé in più un grosso doppio whisky, e riprese posto nella vettura.

«Molto probabilmente racconterò a mio marito quel ch’è accaduto, signor Beckford», disse Aslan improvvisamente, dopo avere sorseggiato il bitter.

«Sì, lei è in tutto e per tutto… be’, non so come dire», esplose Beckford.

«Pazza, intende dire? Niente affatto. La cavia mi serviva per apprendere come si comporterà mio marito, quando saprà che un altro uomo mi ha… bene, quando saprà ciò che è avvenuto nell’albergo, e col mio consenso. Ma l’apprendere questo ha poco o quasi nulla a che fare con me personalmente. Il compito suo come cavia, che del resto ha adempiuto egregiamente, era anche un altro. Debbo confessare che sono straordinariamente contenta della vivisezione eseguita. È stato un successo di gran lunga superiore a quello che mi ero ripromesso.» «E la vivisezione ha voluto farla con me, la sua cavia?»

«Sì, con lei. Volevo e dovevo avere una determinata risposta su un certo problema che mi assilla da tempo. Una risposta che potevo avere soltanto per via empirica, cioè attraverso una mia diretta esperienza personale. Vede, signor Beckford, io sono una donna maritata insolitamente felice. Non saprei mai tradire mio marito.»

«E la scorsa notte? E oggi nel pomeriggio?»

«Evidentemente lei è di parere contrario su questo punto. È perfettamente comprensibile. Ma la verità è che io non sono venuta meno alla fedeltà a mio marito.»

«E perché mi viene a raccontare tutto questo?» «Voleva che le spiegassi l’esperimento che ho voluto fare, non è vero? Voleva sapere come e perché la vivisezione aveva avuto luogo, non è vero?» «Naturalmente, dato che questa vivisezione è stata praticata su di me.»

«Ora vengo alla conclusione. Deve sapere che io ho sposato mio marito a ventiquattro anni. Sono giunta al matrimonio intatta. Noti il passaggio: lei forse non lo crederà, ma nel nostro paese si sposano più ragazze ancora vergini di quanto non si creda in generale.»

«Su questo punto mi dispiace di non poterla seguire, signora. Fino a oggi non ho ancora incontrato una vergine, nemmeno fra i sedici e i diciassette anni», replicò Beckford, prendendo una grossa sorsata del suo doppio whisky come se volesse annegarvi dentro ingrati ricordi.

«Dipende dalla sua cerchia di conoscenze, signor Beckford. E per dirle qualche altra cosa che probabilmente riterrà inverosimile: mio marito mi diede quattro settimane di tempo prima che noi celebrassimo la cosiddetta prima notte di matrimonio. Incredibile, vero? Tuttavia, dopo esserci veramente compresi, imparai con mia grande meraviglia che l’età non deve essere giudicata dal numero degli anni che si leggono nel certificato di nascita. Non era altro che brama di sapere. Io desideravo sapere quale differenza c’è, in circostanze come questa, fra un uomo maturo di natura ed energia media, sarei disposta a dire giovanile, e un giovane atleta muscoloso, nel pieno delle sue forze, come lei, signor Beckford, benché lei sia già alquanto molle e flaccido. Di proposito ho voluto fare due esperimenti di vivisezione.

Il primo la notte scorsa, quando lei era alticcio e un po’ timido, perché era la prima volta che succedeva. E il secondo esperimento oggi nel pomeriggio, quando non aveva bevuto e non era più timido, anche perché le resi la cosa enormemente facile.»

«Ebbene, e così?»

«Vuole sapere il risultato dei due esperimenti di vivisezione?»

«Ardo dalla voglia, signora.» «Signor Beckford, il risultato è tremendamente negativo per lei. Non può immaginare neanche lontanamente di poter entrare in concorrenza con mio marito, signor Beckford. Questo esperimento, fatto con la sua volonterosa collaborazione, non avrei potuto pagarlo con denaro o in altra maniera.

Grazie al suo contributo volonteroso ho imparato qual è il vero valore di mio marito sotto ogni aspetto. Finalmente capirà, spero, che non ho tradito mio marito, ma ho suggellato la mia fedeltà a lui in maniera più forte e duratura che mai. La ringrazio molto, signor Beckford, per l’amichevole collaborazione prestatami in questo esperimento per me così importante.»

«Sono io che debbo ringraziarla.» «Come vuole. Non mi offendo. Guardi là», e Aslan accennò una costruzione in mezzo alla strada, «ecco la stazione della metropolitana. La porterà

in molto minor tempo a casa di quanto potrei farlo io con l’auto, dato il traffico serale.»

Beckford si recò al bar, pagò e disse al cameriere che poteva andare a prendere i bicchieri. Quindi s’incamminò verso la stazione della metropolitana. Non appena giunse a Manhattan, andò al più vicino bar, per prendere al volo qualche libellula o all’amo qualche donna che si sentisse sola o incompresa dal marito, nella speranza di rinverdire il suo orgoglio maschile cosi profondamente mortificato.