CAPITOLO I

«HA ridotto quel pover’uomo tutto una poltiglia.» «E forse è un disoccupato.» «Di nuovo una di queste ricche fannullone che non sanno come impiegare i loro milioni.»

«Con un po’ dei loro sporchi dollari tutta la faccenda sarà accomodata.»

«E il pover’uomo rimarrà sciancato per tutta la vita.»

«Ammesso che sopravviva all’incidente…» «… e non esali l’ultimo respiro mentre lo trasportano all’ospedale.»

«Impiccati. Avvelenati col gas. Sulla sedia elettrica! Ecco come dovrebbero essere trattati questi assassini che vanno come pazzi con le loro auto, se dipendesse da me.»

«Ben detto, signora. Là, dietro al volante c’è una che ha l’aspetto per bene…»

«Sì, e non ha visto come si è mutata in una belva assetata di sangue.»

«Possibile che la velocità non sia mai troppa?» «Che cosa importa loro se mettono uno o due o magari anche tre persone sotto le ruote, pur di arrivare dieci secondi prima al loro cocktail e alla loro canasta.»

Queste parole eccitate vennero improvvisamente interrotte da due poliziotti che arrivavano di corsa per informarsi perché tanta gente si fosse riunita all’angolo della Trentaquattresima Strada. La strada a quell’ora era più animata del solito, benché non vi regnasse mai la quiete.

La gente che stava lì, di solito aveva sempre fretta, ansiosa per il timore di giungere troppo tardi.

Ma ora la sua curiosità era più forte del timore di perdere mezzo minuto.

Prima che i due uomini in uniforme cercassero di farsi strada nel gruppo per indagare sul motivo dell’assembramento, già s’erano messi ad agitare in tutte le direzioni i loro sfollagente per far capire a ognuno che ora l’autorità aveva preso nelle sue mani l’affare e da ora in poi a ogni onorato cittadino erano garantiti l’ordine, la legge e la sicurezza.

Questi cittadini possedevano però certi diritti, codificati a chiare parole nella costituzione, e uno di questi era il diritto inalienabile di andare e di stare dove loro piacesse e quanto loro piacesse, e questo diritto non poteva essere negato o limitato.

Ma i due poliziotti non se ne davano pensiero. Erano irlandesi e conoscevano la costituzione americana soltanto per sentito dire.

Agitando eloquentemente i loro sfollagente, gridavano: «Circolare! Non fermarsi!

Ehi, signore, dico a lei, circolare! Non stare fermi! Circolare! Non arrestare il traffico! Circolare, circolare! Via, via!»

Così dicendo penetrarono fino al centro del sensazionale avvenimento, là dove una signora al volante doveva essere riuscita a ridurre in poltiglia un passante.

La signora intanto era scesa dalla sua elegante Cadillac portandosi davanti a essa.

Il suo viso era bianco per lo spavento. Credeva d’aver messo il giovanotto sotto le ruote della sua automobile.

Invece il giovanotto stava in piedi vicino alla ruota anteriore destra della vettura, sorridendo con aria amichevole e confidenziale alla giovane donna, mentre col fazzoletto si puliva il viso di qualche spruzzo d’olio.

La giovane donna, ancora pallida, lo guardava con occhi spalancati, come se avesse dinanzi uno spettro.

«Ma lei… lei… è vivo, signore?» balbettò infine. «È effettivamente vivo?»

«Certo che sono vivo, signora. Perché dovrei essere morto? Per ora non lo sono», e si tolse dal taschino un pettine, con cui, specchiandosi nel parabrezza dell’auto, si ravviò i capelli alquanto scomposti.

«Se avessi potuto esser fatto fuori così facilmente», disse, riponendo il pettine nel taschino, «non sarei mai ritornato dalla Corea. Mi può credere, signora.»

Dopo queste parole si mosse per continuare il cammino interrotto.

«Ma davvero non è ferito, signore, davvero?» domandò ancora una volta la signora, ritrovando a poco a poco la sua calma.

«Nemmeno un po’, signora. Non stia a preoccuparsi per me. Good-bye, signora. E’

stato un piacere incontrarla.»

«Rimanga qui, lei… lei… Il suo nome?» gridò in quel momento il lungo poliziotto irlandese, che finalmente a furia di urti, spinte e gomitate si era fatto largo attraverso la folla dei curiosi.

Trasse di tasca un libretto e leccò la punta della matita, fedele a una vecchia abitudine dei suoi compatrioti.

«Come si chiama? Dove abita? Quanti anni ha? Dove lavora?»

«Questi sono affari miei privati che non la riguardano.»

«Ma io l’arresto per aver disturbato il traffico, capisce?»

«Be’, stia a sentire, caro signore», intervenne la giovane signora, «se c’è qualcuno qui da arrestare perché ha disturbato il traffico, quella sono proprio io!»

Intanto anche il secondo tutore dell’ordine era riuscito ad avvicinarsi, menando lo sfollagente nei fianchi della gente.

«Ah, così», esclamò rivolgendosi alla giovane donna. «E chi è lei? Ha travolto con la sua vettura questo giovanotto, e questo le costerà un sacco di soldi. Dove abita?»

Il primo poliziotto, che intenzionalmente non aveva badato a lei, incoraggiato dalla presenza del compagno di servizio si rivolse a quella signora così elegante che guidava una Cadillac di lusso, e le chiese nome e indirizzo.

«Giusto», disse il primo poliziotto, «sì, giusto, come si chiama lei?»

«Come io non mi interesso degli affari suoi, così lei non si impicci di quelli miei.

D’accordo?»

«Ebbene, la cosa le costerà non soltanto un sacco, ma due sacchi di soldi, giacché vuol saperlo.»

«Perché non tre, dato che siamo qui a buttare via sacchi di denaro?»

La giovane signora aveva appena finito di parlare che nella Trentaquattresima Strada si sentì l’urlo lacerante della sirena di un’ambulanza che si avvicinava a grande velocità, certo chiamata da qualcuno per telefono.

Con stridore di freni, l’ambulanza si fermò a ridosso della Cadillac di lusso.

Lo sportello posteriore si spalancò rumorosamente. Tutti quelli che avevano qualcosa a che fare con l’ambulanza, sentirono il dovere di farlo gridando, urlando, tempestando. Bisognava pur impressionare la gente!

Due infermieri balzarono dalla vettura con una barella ancora piegata.

«Dov’è il cadavere?» chiese l’occhialuto assistente medico al primo poliziotto.

Nello stesso tempo si chinò strisciando sotto l’automobile in cerca della presunta vittima rimasta schiacciata sotto le ruote.

«Ecco qui il cadavere», rispose il poliziotto accennando il giovanotto.

Immediatamente i due infermieri si precipitarono su quest’ultimo, il quale difendendosi disperatamente con le mani e coi piedi, faceva appello alla costituzione rifiutandosi con tutte le forze di lasciarsi trascinare nell’ambulanza.

«Gran Dio!» gridava come un ossesso, difendendo accanitamente la sua libertà democratica, «lasciatemi stare, maledizione! Non sono né morto né ferito.»

«Se è morto o se sta per crepare, è cosa che dobbiamo stabilire noi, non lei. Ha capito?» gridava l’assistente medico. «Per noi lei è morto, almeno finché non saremo convinti ch’è ancora vivo. E ora non fiati… altrimenti le faremo sentire qualcosa sulla pera.»

Furono queste le ultime parole che il giovanotto poté udire, perché già si trovava sulla lettiga, nell’interno dell’ambulanza. La porta venne richiusa con fracasso e l’ambulanza riprese a correre di gran carriera per le vie della città, facendo ancora funzionare l’urlo lacerante della sirena; prendeva le curve così strette che la «vittima schiacciata» fu scagliata fuori della lettiga un paio di volte. Il giovanotto dovette chiamarsi fortunato, poiché l’ambulanza rasentò più volte così da vicino autobus e camion che più tardi, a buon diritto, poté dire a se stesso di essere stato a un pelo dalla morte almeno una decina di volte.

All’angolo dove pochi minuti prima un povero disoccupato era stato spietatamente ridotto in pezzi da una lussuosa automobile, la folla si volatilizzò rapidamente, dopo che ciascuno era rimasto convinto che in questa città di otto milioni di abitanti un corpo umano straziato non viene lasciato come se nulla fosse, in pasto a cani e ad avvoltoi o, perché serva all’adempimento del loro dovere professionale, a fotografi e a cronisti. No; mai. Qui abbiamo un’amministrazione civica moderna, la quale fa ogni sforzo per facilitare la vita agli uomini tormentati, per renderla loro piacevole e per riabilitare al lavoro feriti e ammalati.

Soltanto poca gente, che in quel momento non aveva nulla di più importante da fare, stava ancora lì sull’angolo per guardare che cosa i due poliziotti irlandesi, a cui nel frattempo si erano aggiunti altri quattro colleghi, avrebbero fatto di quella signora elegante e della sua ancor più elegante vettura di lusso. Due dei poliziotti presero posizione strategica davanti all’automobile, temendo che la signora con un audace salto da acrobata riuscisse a svignarsela e correre via, sottraendosi a ogni responsabilità.

Per procedere sicuri, ognuno dei sei monturati guardiani della strada scrisse il numero della Cadillac nel suo taccuino di appunti. Bisognava che ciascuno potesse provare al proprio tenente dove si trovava in quella mezz’ora e che «era stato presente» al fatto. Dei quattro comparsi successivamente, uno domandò al primo se avesse chiesto alla signora il nome e l’indirizzo e se avesse preso nota della risposta.

«Gliel’ho chiesto», rispose il collega quasi bisbigliando, «ma il tono della sua risposta mi ha consigliato di trattarla con i guanti. Guardate la macchina! Prudenza ci vuole con chi guida vetture di questa marca. È gente che procura sempre grattacapi.»

«Abbiamo il suo numero. Non c’è bisogno d’altro», disse il secondo.

«Daremo il numero facendo i tonti all’ufficio distrettuale, e in dieci minuti il capo avrà il suo nome, il suo indirizzo, la sua età, le sue impronte digitali, i nomi e gli indirizzi dei suoi amanti, i locali notturni da lei preferiti, la quantità di whisky importato che consuma annualmente, e l’importo della sua assicurazione.»

Senza essere molestata da nessuno dei sei poliziotti, i quali non sapevano come comportarsi in un caso così delicato, la giovane signora era salita tranquilla nella sua vettura. Con la punta del piede premette sulla messa in moto e il motore cominciò a ronzare leggermente, più discreto di un’ape.

Stava per ingranare la marcia quando, col sorriso sulle labbra, sporse un po’ la testa fuori del finestrino.

«I signori», disse proprio ‘ signori ’, «hanno ancora qualcosa d’importante da chiedermi prima che mi allontani?»

«No, no, naturalmente nulla», balbettarono i sei e si guardarono in faccia imbarazzati, come se ognuno volesse sapere dall’altro perché mai si trovassero lì.

La giovane schiacciò leggermente l’acceleratore. A questo punto i sei salutarono militarmente mostrando i denti com’era stato loro insegnato al corso di polizia e com’erano soliti esercitarsi dinanzi allo specchio per riuscire simpatici.

La giovane contraccambiò il saluto con un lieve cenno e partì.

Dopo quattro semafori si fermò davanti a una drogheria e scomparve per alcuni minuti in una cabina telefonica che sapeva di muffa per informarsi in quale ospedale il giovanotto era stato portato.

Al giovane era stata assegnata una camera dell’ospedale, nella quale dovette attendere prima di essere trasportato nella sala d’operazione per dare agli assistenti medici la gradita occasione di ficcare le dita nel suo corpo e di tagliuzzarlo. Nel corso delle diligenti indagini mediche probabilmente gli si sarebbero rotte alcune costole che poi bisognava incollare di nuovo insieme. Poi si sarebbe aspettato con tutta tranquillità la guarigione o la morte.

«Del resto», gli spiegarono con un sorriso incoraggiante, «vede, signore, tutto ciò non le costerà un soldo. La Cadillac, in caso di colpevolezza, è fortemente assicurata contro gli infortuni e ogni richiesta di risarcimenti. Abbiamo potuto stabilire per ora un grave choc nervoso. In questo magnifico ospedale lei potrà fare vita da generale sudamericano, splendida e gioconda, senza dover fare nulla. La società d’assicurazione dovrà pagare tutto. Questo ospedale, detto in confidenza, versa in difficoltà finanziarie.»

Al che il giovanotto replicò che non aveva affatto l’intenzione di vivere splendidamente e giocondamente a spese altrui, e insistette nel voler lasciare subito l’ospedale e andarsene per i fatti suoi.

«Questo lei non lo può fare, né noi glielo possiamo permettere», risposero i medici.

«Qui siamo noi a decidere. Lei ha subito un infortunio che le può costare la vita, se dovesse risultare che lo choc nervoso che l’ha colpito avrà delle conseguenze; cosa assolutamente possibile, anzi probabile. Noi siamo responsabili della sua salute e della sua vita dinanzi alle autorità sanitarie e alla società d’assicurazioni, e a noi non è lecito sottrarci a questa responsabilità. Dato ch’è stato portato qui, lei non può andare via così, senz’altro, per i fatti suoi. In nessun caso. Perché, vede, la direzione di questo istituto che gode della più alta considerazione, andrebbe incontro a un procedimento penale, costoso e lunghissimo, per trascuratezza dei suoi doveri professionali. Perciò, si metta a letto, si riposi e non appena avremo finito di trattare una dozzina di casi analoghi al suo, verrà il suo turno.»

Così dicendo, gli assistenti che dovevano compiere nell’ospedale il loro biennio di pratica prima di poter fruire del titolo pieno e di essere sguinzagliati sull’umanità incosciente, scomparvero.

Un quarto d’ora dopo qualcuno bussò alla porta.

«Avanti», esclamò il giovane alquanto infastidito, credendo di essere nuovamente importunato.

S’affacciò una signora.

«Ah, è qui, giovanotto?» esclamò nel vederlo. «Ho dovuto cercarla in questo labirinto come una sciocca. Nessuno visibile in nessun posto.»

Il giovane avvicinò l’unica sedia. «Vuole sedere, prego, signora?»

«Grazie», e sedette, mentre il giovane prendeva posto sull’orlo de! letto.

«Così, è atterrato qui. Male. Probabilmente dovrà passare qui un bel po’ di tempo, da quel che vedo.»

«Non ho nemmeno la più piccola scalfittura. Non è il caso di parlare d’infortunio.»

«Certamente no. Ma secondo i concetti medici correnti, in casi come il suo si ritiene che possano manifestarsi disturbi in seguito allo spavento provato.»

«Spavento? Io? Spavento? Ma chi lo dice? Sono stato cinque anni in Corea, e là nelle prime tre settimane ho dimenticato che cosa sia la paura.»

«E sta bene. Ma, vede, c’è di mezzo l’assicurazione. In un caso come il suo, la cosa più sensata è semplicemente di svignarsela. Squagliarsi. Dileguarsi. Non lasciarsi prendere, caro amico! Non lasciarsi prendere! Correre come se avesse alle calcagna il diavolo.»

«Se ben comprendo, qui sono prigioniero. Persino le finestre hanno le inferriate.»

«Giusto, qui è prigioniero. Prigioniero della società d’assicurazioni. La quale società agisce nel suo interesse e deve agire così per difendersi da pretese di risarcimento astronomiche, che lei potrebbe aumentare dopo alcuni mesi.»

«Ma io non penso affatto ad avanzare domande di risarcimento. Non sono infortunato, e nemmeno spaventato.»

«Nessuna società d’assicurazioni può accontentarsi di una dichiarazione del genere. Anche se lei, oggi sottoscrivesse di non sollevare una qualsiasi pretesa di danni, né oggi né in seguito, questo non basterebbe alla società. Lei potrebbe cadere nelle mani di un avvocato, uno di quelli che costruiscono la loro esistenza su questo genere di affari loschi. Costui, servendosi di testimoni pagati, dimostrerebbe che lei ha sottoscritto la rinuncia mentre si trovava in stato di choc dovuto all’incidente e soltanto per poter lasciare l’ospedale.»

«E così, io qui sono privato di ogni libertà di movimento?»

«Certamente, giovanotto, fino a tanto che un’accurata indagine medica non avrà stabilito inequivocabilmente che lei non ha subito nessun danno che possa avere conseguenze sulla sua salute. Soltanto se questa attestazione, convalidata da tre medici responsabili, verrà rilasciata, la società d’assicurazioni sarà protetta da ogni tentativo di ricatto.»

«Ma io ho altre cose da fare, più importanti che stare accoccolato, sano e vegeto, in questo ospedale che sa di acido fenico, tra queste nude pareti dove non c’è nemmeno una pia immagine a mettermi di buon umore e a farmi compagnia.»

«Dove lavora presentemente?» «Nel senso che lei intende, signora, io non lavoro.

Ho fatto cinque anni di servizio militare. Nel corpo dei marines. Quando il teatro, così lo chiamava il comando supremo, fu finito e io ero in attesa di essere congedato e spedito finalmente a casa per poter guarire in pace e tranquillità delle mie ferite, ricevetti l’ordine improvviso di restare per aiutare a organizzare e istruire l’esercito sudcoreano di nuova formazione per ogni futura eventualità. Al presente ricevo una pensione di reduce che cesserà fra pochi giorni.»

«Come ogni reduce congedato con onore dall’esercito, lei dovrebbe prepararsi, se non erro, a una nuova professione a spese del governo.»

«Questo vale per i reduci della guerra 1941-45. Non per i reduci della Corea. Noi riceviamo soltanto una pensione mensile per circa tre anni. All’atto del congedo in realtà ci venne detto esplicitamente che dovevamo impiegare questa pensione intelligentemente per prepararci a una professione che ci facilitasse il nostro ritorno alla vita borghese.»

«E lei ha seguito, penso, questo ragionevole consiglio? Oppure no?»

«Non mi mancò la buona volontà, signora. Quando mi si chiese quale professione m’interessava, mi tornarono alla memoria le terribili inondazioni della mia città natale e mi pronunciai per la costruzione di argini e canali. E devo riconoscere che l’esercito mi ha aiutato in ogni modo.»

«E così, lei ora è costruttore di argini?» chiese la signora mostrando il massimo interesse.

«Sono così lungi dall’esserlo come il giorno del mio congedo.»

«Non riesco a capire, poiché la preparazione non deve esserle costata nemmeno un dollaro.»

«Non proprio, signora. Una parte considerevole della pensione se ne andò per le spese di studio, per i libri, il materiale di lavoro, i viaggi all’istituto tecnologico e per tutto quanto è annesso e connesso con gli studi. Ma non fu questo il motivo per il quale dovetti interromperli. Limitai le mie spese. Mi mancava la necessaria tranquillità d’animo.» «Non riesco a capire.»

«Molto semplice, signora, semplice come… come… oh, scusi, signora, quasi stavo per dire cose che non si devono, in presenza d’una signora. Ma vede, nella mia ingenuità io credevo, dopo aver consumato per sei settimane, circa, il fondo dei pantaloni sui banchi di un’aula scolastica, che mi avrebbero portato in aperta campagna con ingegneri o altro personale tecnico, dove argini e dighe aspettavano di essere costruiti col mio aiuto.» «E questo non avvenne?»

«Neanche per sogno. Nell’esercito il periodo d’addestramento durò sei settimane e tre giorni. Quattro settimane dopo mi trovai nel mezzo di battaglie furiosissime in Corea. In una settimana imparai meglio e più rapidamente di quel che avrei appreso in tre mesi di manovre. Pratica, signora, pratica: questa è la parola.»

«E la pratica non l’ha avuta all’istituto tecnologico?»

«Nemmeno per idea. Sono da quattordici mesi in quell’istituto. Studio come un forsennato come si fa a costruire argini e dighe; ma in quattordici mesi non ho udito una sola volta la parola argine, diga o canale.»

«Ciò nonostante, deve avere imparato qualcosa in questi lunghi mesi.»

«Sì, ho imparato ad annoiarmi mortalmente. Niente altro che calcoli, radici quadrate e radici cubiche, potenze di ogni grado, peso specifico di terra asciutta e terra bagnata, di cemento e di ferro, la pressione su un metro quadrato espressa in chilogrammi e grammi; a seconda che essa si eserciti dall’alto, dal basso, da questo o quel lato, l’azione della pioggia, della neve e delle comete sulla pressione e il problema di quanto tempo, espresso in secondi, una precipitazione di quarto grado impiega a riempire fino all’orlo una scatola di latta rotonda, alta dieci centimetri e del diametro di sei centimetri. Ma di argini, dighe, canali e di come proteggersi dalle inondazioni non ho sentito nulla. Temo che gli insegnanti dell’istituto mi considereranno in grado d’imparare qualcosa sulle dighe quando avrò compiuto settantacinque anni.»

La signora aprì la borsetta cercandovi qualcosa. Lo faceva unicamente per non dover continuamente guardare in faccia il giovane, che l’interessava sempre più.

Ma il giovane interpretò il gesto alla sua maniera. «Non vorrà forse cacciarmi in mano un biglietto da cento dollari», pensava fra sé. «Se cerca di farlo, mi troverò in un bell’imbarazzo. Che me ne faccio del suo denaro. Per qualche settimana ancora mi corre il sussidio e poi…»

Era ancora intento nei suoi pensieri, quando la signora si alzò dalla sedia e chiudendo la borsetta con disappunto disse: «Purtroppo non ho con me il mio biglietto di visita. Non importa. Lei dovrà rimanere qui almeno ancora tre giorni per un esame a fondo. Posso mandarle qualche libro?»

Il giovane esitò, poi disse: «Molto gentile, signora. Se non le reca troppo disturbo, accetto volentieri.»

«Quali libri preferisce?»

«Dato che dovrò lasciare la scuola per non macchiarmi di atti di violenza contro uno o due professori, e poiché dopo quattordici mesi di studio assiduo vorrei infine sapere qualcosa di dighe, argini e canali, bene, signora, mi mandi qualche libro, in cui si parli di canali, non con tavole di logaritmi, ma con escavatori a vapore, bulldozers e tonnellate di dinamite.»

«Capisco», disse la signora sorridendo e avviandosi verso la porta. «Le farò sapere qualcosa. Domani.» E con un breve: «Arrivederci, giovanotto!» usci da quella cella all’acido fenico.