CAPITOLO V
INSTANCABILMENTE bombardati da un’abile propaganda, gli impauriti americani dopo molti sforzi, fatiche e strombazzamenti, si erano finalmente convinti che era loro dovere ficcare il naso negli affari degli altri popoli. Veramente, i padri di questa grande nazione, gente saggia e lungimirante, che non sapevano mai fingere, da più di centocinquant’anni avevano ammonito il popolo di non immischiarsi negli affari di nazioni straniere, specie in quelli degli europei. Ma questa pessima e maledetta mania di obbligare gli altri a professare credenze e ideologie, che si seguono e si ritengono le migliori, e destinate a guarire una volta per tutte il mondo intero, portò gli americani a credere che fosse loro sacro dovere imporre a nazioni povere e accecate la salvezza, la salvezza mercé l’unica dottrina veramente apostolica, la democrazia stile USA, la sola schietta e genuina, e mercé la libertà tipo USA, la sola in grado di assicurare benessere e felicità.
Questo era il motivo per cui Holved Suthers, studente di scienze tecniche al quarto anno dovette lasciare l’istituto, e volente o nolente, essere incorporato come uno schiavo in un reggimento d’artiglieria. Dopo dieci settimane di dure esercitazioni venne trasportato con altre misere pecorelle in Francia, dove col grado di sergente, eternamente immerso nel fango e nella sporcizia, attese che la tempesta passasse il più presto possibile per poter riprendere gli studi interrotti. Sei giorni dopo la promozione a sottotenente, la guerra nel fango cessò inaspettatamente a suon di trombe e tamburi così com’era incominciata.
Holved, strappato ai suoi studi del tutto impreparato, dovette superare un mucchio di difficoltà prima di rimettersi in carreggiata. I professori, ai cui insegnamenti egli s’era abituato e le cui spiegazioni afferrava istantaneamente, avevano dovuto cedere il posto ad altri insegnanti, i quali trattavano le materie d’insegnamento in tutt’altra maniera. Un nuovo direttore era stato nominato, il quale aveva riveduto dalla base il programma di studi, e per Holved fu difficile, per non dire quasi impossibile, coltivare le materie scelte in origine, nel modo consueto. Le lezioni cadevano in ore destinate ad altre materie più importanti per i suoi esami finali, ma meno giovevoli al completamento delle sue nozioni. Ciò comportava delle lacune che potevano essere colmate soltanto con grandi difficoltà, e forse non lo potevano affatto.
Nonostante tutte queste contrarietà egli superò gli esami, senza valersi delle facilitazioni, di cui godevano i reduci. E ora poteva chiamarsi ingegnere diplomato.
Alcune amicizie ch’egli aveva coltivato mentre era alle armi, nel fango e nel sudiciume, lo aiutarono a prendere contatto con aziende disposte ad accoglierlo come socio in imprese già avviate.
Così entrò in rapporti con altre ditte e all’età di trentacinque anni era vicepresidente di un’impresa di costruzioni di Pittsburgh. Prima dei quaranta, controllava la The Round Island Trans Globe Tunnel and Subway Corporation di New York, il cui consiglio d’amministrazione lo nominò suo presidente, un po’ per il nome e per l’energia dimostrata, e un po’ perché col possesso delle azioni di maggioranza in ogni caso poteva decidere chi dovesse essere scelto per tale carica.
Quando raggiunse i cinquantanni, altre due aziende importanti recavano sulla carta intestata il suo nome come presidente e altre quattro come vicepresidente, mentre in alcune altre figurava come membro del consiglio d’amministrazione. Soltanto il suo agente di borsa sapeva in quali altre imprese e società Holved possedeva azioni.
Durante questo quasi quarto di secolo della sua ascesa finanziaria Holved si era sposato due volte e due volte aveva divorziato. Non aveva figli. Ciascuno di questi matrimoni non gli aveva dato altro che una donna, con la quale la vita in comune era stata un inferno. Nessuna di esse possedeva un patrimonio, ma ciascuna lo ricevette il giorno del divorzio. L’importo della liquidazione non venne calcolato sulla base dello stipendio mensile che le mogli percepivano nel giorno del loro matrimonio, ma in base al patrimonio del marito, un patrimonio alla cui conservazione o al cui incremento esse non avevano minimamente contribuito.
Se dei due sfortunati matrimoni fosse colpevole il marito oppure la moglie, è cosa che non ci interessa. Ciascuna delle mogli, poi, attribuiva ogni colpa a Holved ed entrambe si consideravano vittime innocenti che avevano patito ogni ingiustizia, ch’erano state trattate senza pietà e quasi spinte al suicidio.
Il suo secondo matrimonio l’aveva unito a una hostess. Una donna straordinariamente bella e dal corpo snello come una Diana. Ella offriva ai viaggiatori dell’aereo il suo sorriso più melato, possedeva l’attenzione e la gentilezza d’un portiere d’albergo svizzero e la pazienza d’una madre di tredici figli. Ma una volta sposata, non mostrò a Holved in ogni occasione che un ghigno diabolico. Il divorzio da lei costò a Holved la bella somma di un quarto di milione di dollari. Quando tutto fu finito, egli tirò un sospiro e giurò a se stesso che non si sarebbe mai più ammogliato, per quanto seducente e affascinante avesse potuto essere la nuova accalappiatrice.
Holved aveva ora cinquantacinque anni. Ma chiunque l’avesse visto, quando in una seduta di consiglio dirigeva la discussione o elaborava nuovi progetti coi suoi ingegneri, tutt’al più gliene avrebbe dato quarantacinque.
Aveva concluso un contratto per la costruzione sulla costa occidentale di parecchie nuove stazioni moderne per linee di autobus transcontinentali. Nell’aereo che lo riportava a New York, scelse un posto vicino al finestrino per poter leggere, comodamente appoggiato nell’angolo, o semplicemente socchiudere gli occhi, distendere i nervi e una volta tanto non dover pensare per alcune ore all’acquisto di una nuova impresa di costruzioni.
Accanto a lui sedeva una giovane signora, alla quale non prestò alcuna attenzione.
Anche lei sembrava assente. La gente che viaggia da New York a Parigi in aereo, spesso durante tutto il viaggio non scambia nemmeno una parola. E del resto a che scopo?
La hostess serviva la colazione. Holved sollevò la tazza di caffè nello stesso istante in cui l’aereo cadeva in un vuoto d’aria precipitando verso destra. Il caffè si versò sull’abito chiaro della signora al suo fianco. Entrambi si guardarono spaventati.
Holved divenne rosso come un ragazzino. Tenendo ancora in mano la tazza vuota, balbettò: « Pardon, signorina. Mi rincresce moltissimo; molto, molto spiacente».
«Ma non è colpa sua. Sarebbe potuto capitare anche a me. L’atmosfera sembra essere molto instabile a giudicare dai brandelli di nuvole che vagano là in fondo.»
«È quasi sempre così, quando si attraversano le Montagne Rocciose.»
La hostess era già accorsa con un asciugamano umido per prestare il primo soccorso al bell’abito costoso.
«Prego, venga con me alla toeletta e vediamo che cosa si può fare», disse alla giovane signora con un cenno d’invito.
Entrambe scomparvero.
Holved si muoveva inquieto sul suo seggiolino. Voleva disfarsi il più rapidamente possibile del vassoio con la tazza vuota. Ma ecco la seconda hostess comparire per riempirgliela di nuovo, mostrandogli il suo dolce sorriso, magistralmente ammaestrato. Dietro la maschera sorridente egli scorse però il ghigno satanico della sua seconda moglie, che in certe circostanze avrebbe potuto uccidere a cuor leggero, perché era riuscita ad accalappiare il potente magnate dell’industria che egli era con niente altro che il suo dolce sorriso. Con un dolce sorriso che tre mesi dopo il suo matrimonio non era più capace di abbozzare. Almeno in sua presenza.
La giovane donna ritornò e riprese il suo posto accanto a Holved.
«La hostess si è data la pena anche di ricorrere al ferro da stiro. Niente da fare. In ogni caso, arrivata a New York, avrei mandato l’abito in tintoria.» «Com’è gentile e delicato da parte sua, trattare con tanto tatto questo penoso incidente», pensava Holved. «Un’altra probabilmente avrebbe fatto fuoco e fiamme e gridato come un’ossessa che voleva un abito nuovo, mentre questa mi fa sbalordire dicendo che intende mandare l’abito in tintoria.» Prese la tazza di caffè tenendola stretta con le due mani prima di portarla alla bocca. Sbirciando di fianco con la tazzina alla bocca, guardava in maniera alquanto comica la ragazza. «Vede come si fa presto a imparare.
Non mi capiterà più in avvenire di essere così maldestro.»
Ella si soffermò a lungo sul suo fare così giovanile e rise apertamente. «Forse non più col caffè. La prossima volta capiterà forse col vino rosso.»
«Dio me ne guardi. Il vino rosso mi piace, ma dopo l’incidente non berrò più vino rosso in aereo. Naturalmente, lei permetterà che io le mandi un abito nuovo, se vorrà essere tanto cortese da favorirmi il suo indirizzo.»
«Molto gentile, signore, ma dubito assai che un uomo possa scegliere per me un abito che mi piaccia; tanto meno, poi, un abito che effettivamente io mi decidessi a portare. Gli uomini hanno un gusto orribile. Non sono mai in grado di scegliere per sé una cravatta o il conveniente colore dell’abito.»
Egli sorrise. Paternamente, si sarebbe detto. «E che cosa pensa di me? Vesto con quel cattivo gusto, che lei attribuisce a tutti gli uomini?»
Ella fece cadere il suo sguardo su di lui, lasciandolo scivolare fino in basso, come per farsi un giudizio completo. «Direi: così, così. Non particolarmente elegante e non proprio privo di buon gusto. Così, così. Mezzo e mezzo. Per poter veramente giudicare, dovrei sapere se è il suo sarto che sceglie la stoffa e il taglio, o sua moglie o il suo cameriere.» Holved pensò di dover dire che non era ammogliato. Ma inghiottì le parole. Non accennò nemmeno che aveva un cameriere, un autista e una governante. Disse fra sé: «Perché dovrei? Fra qualche ora saremo a New York e io non la rivedrò mai più. Inoltre non ho nessun interesse a rivederla. Perché? A che scopo? Una terza moglie? No. Ne ho avuto più che abbastanza di due. E poi è troppo giovane per me. Avrà sì e no venticinque anni.» «Lei parla tanto di buon gusto, signorina. Ma quando vedo che sorta di spauracchi per lo più le donne portano in testa, le parole ‘ ridicolo, orribile, spaventevole ’ mi sembrano ancora troppo blande.»
«Ha ragione. Ma quando le donne vedono gli uomini con le loro cravatte sgargianti, con le loro camicie sportive, che sembrano ideate in un manicomio e dipinte da un ragazzo di otto anni dall’intelligenza arretrata, allora le donne pensano esattamente lo stesso e dicono: orribile, spaventevole. Ma, per sua norma, una donna ama essere guardata e non arretra dinanzi al più orribile cappello fin tanto che è lei sola in tutta la città a portarlo e ad attirare su di sé, per via di quel cappello, gli sguardi di tutti i passanti, e specialmente le occhiate delle altre donne che scoppiano dall’invidia.»
Come se volesse cambiare argomento, ella accennò col capo a un libro che sbucava fuori della tasca del seggiolino davanti a lui. «Posso chiederle che cosa legge in viaggio?»
«Quando viaggio mi porto sempre in giro due o tre libri. Ma per lo più, quando ho finito il primo capitolo e sto per incominciare il secondo, giunge l’avviso: ‘Allacciarsi le cinghie per l’atterraggio’ e allora metto il libro nella cartella e raramente ho poi l’occasione di riprenderlo in mano.» Tirò fuori il libro. «Architettura dei toltechi», disse, guardando il titolo e porgendole il libro.
«Lei è architetto, se la mia domanda non è indiscreta?»
«In certo senso, sì. Ho da fare con l’edilizia. E come sa, i toltechi, un popolo indiano scomparso dal Messico, erano grandi costruttori, che ci possono insegnare molto. Se avessero saputo fondere e forgiare il ferro, e se avessero conosciuto la chiave di volta e la ruota, avrebbero di gran lunga superato gli europei e gli asiatici nell’arte del costruire.» Ella si mise a sfogliare il libro. «Anch’io ho a che fare coi toltechi, coi maya, gli aztechi, gli inca e simili civiltà trapassate», disse, restituendogli il libro.
«Studia archeologia o antropologia o storia?» «Niente di tutto ciò. Ne sono ben lontana.» «Ben lontana? Quanto? se mi è lecita la domanda.»
«Be’», rispose, «non è possibile misurare la distanza in metri.»
E cosi dicendo faceva scorrere la mano sull’abito sgualcitosi, come se volesse lisciarlo. Seguendo con gli occhi il movimento della mano, Holved pensava tra sé ch’essa era più ragazza che donna.
«Io sono», continuò senza guardarlo, «da tre anni a capo dell’ufficio di supercontrollo WWGLS Film Corporation. Ho un mio ufficio privato, due locali con tre segretarie e cinque assistenti. Non riesco a immaginare un lavoro di maggiore soddisfazione. Ho a mia disposizione una biblioteca enorme, e ogni viaggio di servizio, come questo, mi viene abbondantemente retribuito, comprese tutte le spese, albergo, vitto, tassì, bibite, divertimenti. La compagnia ha bisogno di me più di quanto io abbia bisogno di essa.»
«Lei dice supercontrollo. In quale senso o con quali scopi finali lei compie indagini e ricerche? Forse per film gialli?» domandò Holved.
«Spesso anche per film gialli, sicuro. Ma principalmente sono responsabile del fatto che in un film, ad esempio in un film che si svolge nell’epoca di Riccardo II, i costumi siano non soltanto storicamente esatti, ma che anche ogni arma, la forma delle sedie, dei letti, dei catini, delle culle sia autentica. Debbo stabilire se le legioni romane sotto Cesare marciavano in colonne chiuse e con ugual passo oppure in ordine sparso. Mi è costato un mucchio di fatica, e alla compagnia un mucchio di dollari, stabilire con esattezza quando per la prima volta venne introdotto l’uso della forchetta, del tovagliolo, del fazzoletto, del tacco alto, del codino, della parrucca, della crinolina, e in quale precisa occasione e in quale determinata località. Non è il pubblico, ma sono i critici che si precipitano volentieri su questi peccati di omissione, per se stessi di secondaria importanza, non tanto per criticare, quanto piuttosto per mettere in luce la loro erudizione.»
Holved rideva. «Debbo però dirle che si tratta di una responsabilità terribilmente complicata. Forse le capiterà anche di dover stabilire quante tonnellate di cemento e quanti metri quadrati di lastre di vetro per finestre sono stati impiegati per un edificio di dodici piani.»
«Esatto.»
«Ha già dovuto rispondere a un quesito del genere?»
«Non proprio a questo, ma a quesiti analoghi. Due mesi or sono ho visto nella nostra sala di proiezione la prima rappresentazione di prova di un western, in cui un cercatore d’oro doveva camminare per tre giorni in un deserto prima di giungere a una misera fattoria. Aveva caricato il suo bottino e i suoi attrezzi su un pony. Secondo il racconto del film, il valore del bottino era di centocinquantamila dollari. Finita la proiezione, mi recai nel mio ufficio. Dopo un quarto d’ora spiegai al direttore di produzione che sarebbero stati necessari per lo meno tre o quattro ponies per trascinare quel carico di polvere d’oro e che se un cercatore d’oro in questa marcia di tre giorni attraverso il deserto dell’Arizona non avesse trovato l’acqua almeno due volte, né lui né il suo pony avrebbero mai raggiunto la fattoria. Le modifiche introdotte non danneggiarono nessuno e alla compagnia costarono meno di trecento dollari. Tutto quanto si ridusse a modificare il dialogo, diminuire il carico della polvere d’oro al valore di diciottomila dollari e limitare la marcia a due giorni e una notte; una marcia ancora diabolicamente dura, ma possibile.
«Se la compagnia non avesse introdotto queste modifiche, avrebbe sicuramente ricevuto non meno di duecento lettere, in cui il presidente, il regista e l’autore del racconto sarebbero stati definiti perlomeno idioti.
«Da ciò vede quanto è importante il mio lavoro. Non è soltanto questione di come si presenta il materiale autentico, ma anche di dove si deve cercarlo.»
«Ciò che non capisco», osservò Holved, «è come mai il regista non noti simili errori grossolani.»
«Il regista non può curarsi di queste cose. Per lui sono cose secondarie. Gli viene dato il copione, ed egli deve metterlo in scena in base alle indicazioni che esso contiene. Deve concentrare l’attenzione sul complesso del lavoro e non può ogni dieci minuti interrompere il filo dei suoi pensieri e domandare a qualcuno che per caso è lì presente: ‘ Ascolti, caro amico, mi saprebbe dire a che età un giovane deve presentarsi per il servizio militare in Bosnia? ’ Lei capisce certamente che qui, come del resto in ogni impresa di qualche importanza, è assolutamente necessaria una divisione del lavoro.»
«A chi lo dice! Divisione del lavoro. Se non ci fosse divisione del lavoro, io non sarei in questo aereo, che in poche ore mi porta dalla costa del Pacifico a quella dell’Atlantico, certo in una continua
sia pur leggera tensione nervosa, perché l’uomo non è nato uccello, ma tuttavia con una certa comodità, con un certo agio, con una certa rilassatezza e una sicurezza quasi al cento per cento. E così, se ho ben compreso, e per quanto riguarda la sua compagnia, senza il suo lavoro, senza la sua faticosa collaborazione, nessun film giungerebbe in porto.»
«Be’, se non avessi questo posto nella ditta, qualcun altro farebbe il mio lavoro, forse altrettanto bene, forse anche meglio di me. Che ne so?»
«E ora parliamo pure di me. Nel mio caso le cose stanno diversamente. Io sono l’unico padrone, con una limitazione: finché la Borsa tiene duro.»
«E se la Borsa non tiene duro, un colpo e il problema è risolto?» soggiunse lei.
«Ecco, qui lei sbaglia completamente, signorina. Io ho abbastanza riserve, altre riserve, altre azioni e altro denaro, per poter rimanere a galla. Le azioni sono di preferenza il giocattolo preferito di coloro, i quali credono che si possa diventare ricchi in una notte, senza faticare, senza lavorare. Io non gioco alla roulette con le azioni che posseggo. Io lascio che le mie azioni lavorino per me, per quanto duramente io stesso lavori. E quando dissi: ‘ Finché la Borsa tien duro ’, intendevo dire che potrei subire perdite notevolissime, senza per ciò andare mai in rovina.»
«Buono a sapersi», disse la signorina, «che nel nostro paese ci sia della gente come lei.»
«E come lei… Sono persuaso che va a New York per il solo e unico motivo di stabilire quando e come un sarto ha cucito per la prima volta bottoni a un vestito.»
«Ha quasi indovinato. Ma in un caso del genere me la sbrigo con poco. Quando non sono sicura se i merovingi si abbottonavano o agganciavano o allacciavano i manti con cui coprivano l’armatura, allora incarico il nostro costumista di coprire la linea dove i lembi del manto si congiungono in modo «che non si vedano né bottoni né ganci né cinture, e lascio indovinare al pubblico: cosa, questa, che lo diverte enormemente. Gli spettatori desiderano indovinare che cosa il gangster voleva dire alla sua Molly nel momento in cui una pallottola ben diretta lo mette a terra, ponendo così fine al film; essi cercano d’immaginare con chi la Molly se ne andrà. La gente non ha piacere che il regista del film li consideri tutti idioti, a cui si debba gridare ogni pensiero ad alta voce nell’orecchio, affinché comprendano qualcosa del film.»
Holved l’interruppe ridendo: «Lei ha sbagliato professione. Avrebbe dovuto scegliere la carriera diplomatica».
«Per ora mi piace più questa.» «Purtroppo, se ben comprendo, essa non le permetterà di raggiungere un posto più elevato. Penso che con la sua attività presente abbia già raggiunto l’apice.»
«E lei si trova già all’apice della sua carriera?» «Né oggi né domani. Non vivo nel passato. E neppure nel presente. Vivo esclusivamente nel futuro. Ciò che sta dietro di me, l’ho dimenticato, e non sciupo il mio tempo a ricordare il passato e quanto è avvenuto. È tempo perso, e fa invecchiare anzitempo. Soltanto chi non vede alcun futuro dinanzi a sé, scrive le sue memorie. Quando un giorno abbandonerò questo mondo, lo abbandonerò per sempre e non sbucherò fuori come uno spettro dal passato in biografie o memorie. Una volta morto, voglio riposare in pace.»
«Lei mi piace», disse la giovane donna, «veramente mi piace. Peccato!» «Peccato, che cosa?»
«Che non abbia quarantanni. Credo che andrei perfettamente d’accordo con lei.»
«Sa quanti ne ho? Cinquantacinque.» «Quanti press’a poco ne pensavo. Io ventiquattro.»
«Ventiquattro e una posizione di tanta responsabilità e così ben retribuita nell’industria cinematografica?»
«Perché no? Ventiquattr’anni è già una bella età. Ma non proprio piacevole. Manca l’esperienza», disse traendo un leggero sospiro, come fanno le scolarette di tredici anni, quando palpitano per il tenore lirico o per il divo del cinema.
«Com’è giovane», pensava Holved, «vorrei proprio sapere se è sposata o divorziata o vedova. Se fosse sposata, non avrebbe bisogno di lavorare, soprattutto in una professione così snervante e impegnativa.»
Poi disse ad alta voce: «Mi sembra, signorina, che lei sia di continuo in viaggio in tutti i punti cardinali del paese.»
«Non proprio di continuo; però assai spesso. Quasi come un viaggiatore di commercio.»
Ella si alzò, stirandosi alquanto il vestito. Cambiando tono disse: «Farò due passi per sgranchirmi. Quando si sta tanto tempo seduti, si dimentica quasi di avere le gambe e di saper camminare».
Egli approvò con un cenno e la ragazza incominciò ad andare su e giù per tutta la lunghezza dell’aereo.
Quando dopo una decina di minuti ritornò, Holved dormiva dolcemente e in apparenza senza pensieri, tenendo chiuso sulle ginocchia il libro sull’architettura indiana e coprendolo con le mani, come se temesse che qualcuno potesse portarglielo via, mentre era appisolato.
Ella ebbe tempo di studiare il suo viso. Provava una certa soddisfazione nel poterlo esaminare così a lungo e senza essere notata.
«Strano», pensava, «si può scrutare meglio nel volto di uno che dorme il suo vero carattere che non quando è sveglio e cerca continuamente di nascondersi dietro un sorriso stereotipato, un aggrottare della fronte, l’ammiccare degli occhi, o quando si pizzica l’orecchio o si liscia i capelli.»
Vedendolo dormire così tranquillo, si fece l’opinione che nel sonno aveva un aspetto di gran lunga più amabile e più benevolo di quand’era sveglio. Sembrava più giovane, ogni tensione era scomparsa dal viso.
«È del tutto diverso», diceva tra sé, «da tutti quei grandi uomini dell’industria cinematografica, sempre agitati che sembrano morsi dalla tarantola. Sempre dare addosso, imprecare, maledire e balbettare scuse. Nessuno è sicuro se entro le prossime ventiquattr’ore conserverà ancora lo stesso posto, compresa io stessa.
Ognuno ti è amico, se sei ben visto in alto, dal capo, ma sei una pezza da piedi se il capo o uno dei suoi favoriti ti ha guardato di traverso. Timore persistente di perdere il pane quotidiano o (pianto meno di essere costretto a vendere la casa che ti sei comperata l’anno prima… Francamente», così continuava sul filo dei suoi pensieri,
«per quanto mi riguarda personalmente, hanno più bisogno loro di me che non io di loro, finché pensano di fare film.»
Soddisfatta, si adagiò sul cuscino odorante di sapone fresco e di flit, che la hostess le aveva posato dietro la schiena, e gettando un ultimo sguardo sull’uomo che al suo fianco dormiva tranquillo, si addormentò anche lei.
Si svegliò quando la hostess andava da un passeggero all’altro per accertarsi che ciascuno si fosse allacciata la cinghia e che sigari, sigarette e pipe fossero spenti.
L’altoparlante gracchiò qualcosa che nessuno comprese. Ma ogni passeggero con un po’ d’esperienza di volo sapeva di che si trattava. Bisognava prepararsi a scendere.
Ognuno dei viaggiatori era sinceramente lieto che il viaggio fosse finito.
A fianco a fianco, vestiti col leggero soprabito primaverile, Holved e la signorina aspettavano che venisse loro consegnato il bagaglio dall’ufficio controllo.
«Voglio dirle sinceramente, signorina, è stato per me un piacere avere avuto al mio fianco una compagna di viaggio così simpatica e così bella», disse Holved improvvisamente.
«E io», rispose lei, «non avrei potuto desiderare come vicino una persona più interessante, signor… signor…?»
«Il mio nome è Suthers, Holved Suthers. Non porto mai con me il mio biglietto di visita. Ma…» e trasse dalla tasca un libretto, ne strappò un foglio, vi scrisse alcuni numeri e glie lo porse.
«Il mio indirizzo privato e il mio telefono privato, se le potrò essere utile in qualcosa.»
«Aslan Norval, il mio nome», disse lei. «Mi può telefonare… prego, la matita e un foglietto.»
Scrisse rapidamente alcuni numeri sul pezzetto di carta.
«Il primo numero è quello del mio ufficio, il secondo quello della mia abitazione», disse restituendo a Holved la matita e il foglietto. «Nessuno di questi due numeri si trova sull’elenco telefonico. Sono assolutamente privati.»
In quel momento vennero consegnate a entrambi le valige. Si trovarono bruscamente separati da due diversi facchini sulla scala semovente. Li accolsero due diversi tassì, e ognuno partì verso una direzione diversa.