CAPITOLO XVI
ASLAN salì nella sua camera e ordinò per telefono una seconda mezza bottiglia del vino che avevano servito a tavola. Ella contava di concedersi in camera sua una bella serata, tranquilla ed euforica.
«Un solo bicchiere, signora, o due?» chiese al telefono la voce cortese del cameriere di turno.
«Uno solo.»
Beckford, dopo avere accompagnato Aslan all’ascensore, andò al bar per non lasciar soffrire di nostalgia il whisky già trangugiato. Nello stesso tempo contava di potervi forse trovare qualche ospite dell’albergo che si sentisse troppo sola o il cui marito fosse in quel momento occupato a prestare la sua attenzione al canto di una vera o falsa sirena e in quella sera fosse introvabile. Al bar di un albergo non mancano le occasioni. Tutto quel che occorre è denaro e pazienza.
Aslan, nella vestaglia che copriva il leggerissimo abito da camera, chiuse la porta della stanza da letto, accostò il tavolino, su cui c’erano la bottiglia di vino sturata e un bicchiere, al largo divano della stanza di soggiorno, riempì il bicchiere e prendendo in mano un romanzo, si sdraiò lunga distesa sul divano.
Era ancora troppo presto per mettersi a dormire. Del resto, agitata com’era, non poteva trovare sonno e specie ora che, sola nella sua camera, lasciava che le mulinassero nella mente i particolari della relazione fattale da Beckford.
Non avrebbe mai preveduto, né aveva mai ritenuto possibile, che il suo progetto apparentemente così innocente potesse provocare nel paese tanta agitazione.
Bevve un sorso, aprì il libro che intendeva leggere, guardò la prima pagina, lo richiuse e cominciò a sognare ad occhi aperti: per lei il canale o la ferrovia (non importava quale delle due soluzioni alla fine avesse trionfato) era una impresa come la costruzione di una grande nave, o di un edificio di cinquanta piani, o di una diga gigantesca. E ora, invece, l’impresa da lei progettata aveva messo in moto tutta l’opinione pubblica, dando via libera ai più contrastanti pareri politici, economici e finanziari. Riflettendovi, quasi aveva paura di se stessa. «Al diavolo una buona volta», e si chiese: «Perché mi è venuta questa idea pazzesca di promuovere una iniziativa che dalla maggior parte della gente è considerata una chimera? Un progetto, che la maggior parte degli uomini considera inattuabile, anche se io personalmente sono fermamente convinta del contrario? Certo avrei fatto meglio a tener lontane le mani da questo affare e, invece di mettermi a lottare con i politici e i senatori, condurre una vita tranquilla, lontana da eccitazioni, senza essere coinvolta nella politica nazionale e probabilmente in quella internazionale. Sicuramente, come hanno sempre fatto, ora si faranno avanti gli inglesi, menando, come al solito, grande scalpore per il fatto che questo progetto contrasta coi loro interessi economici, politici e marittimi. Così il nostro governo si vedrà costretto, per non mettere in pericolo la sua già fragile amicizia con la Gran Bretagna, a negarci la concessione per questo o altro analogo progetto. Tanto più che noi siamo pur sempre, anche se sotto un altro nome, una colonia britannica, che deve rispettare e adempiere tutti i desideri dell’Inghilterra. E perciò noi dobbiamo accontentarci del canale di Panama. E ciò è tanto più facile da prevedere in (pianto l’Inghilterra quasi completamente domina il canale di Panama dalla Giamaica, dalla Guiana britannica e da Belice. In nessun caso bisogna pestare i piedi all’Inghilterra, perché, vedi, in Oriente è in agguato l’anticristo, il nemico giurato di ogni morale e di ogni civiltà.»
Così sognava Aslan e i suoi sogni la portarono a occuparsi del problema dell’eccesso di popolazione del Giappone, e nel medesimo istante in cui essa credette di averne trovato un’eccellente soluzione, e già incominciava a pensare al problema degli arabi cacciati via o fuggiti da Israele, sentì bussare alla porta.
Non poteva essere il cameriere. Per il servizio in camera avrebbe telefonato.
Bussarono un’altra volta.
«Chi è?» chiese Aslan, senza muoversi dal divano.
«Io, Beckford, signora.»
«Che cosa vuole, signor Beckford? Spero sappia che è tardi.»
«Sì, sono le dieci e mezzo. Ma ho una importantissima notizia da darle.»
Aslan credette di capire dalla voce ch’egli avesse bevuto più whisky di quanto gli fosse lecito. Ma poteva ingannarsi. Per saperlo, avrebbe dovuto conoscerlo meglio e da più tempo.
«C’è tempo fino a domattina, a colazione.»
«È veramente cosa urgente, signora, e non dovrei aspettare fino a domattina.»
Questa risposta suscitò in lei curiosità. Aprì la porta, non tanto per sentire la notizia tanto importante, quanto piuttosto per porre fine a quel colloquio attraverso la porta.
Altri ospiti potevano essere indotti a fraintendere quella conversazione.
Non appena Aslan aprì uno spiraglio, Beckford entrò rapido e risoluto nella camera, come se temesse che Aslan all’ultimo momento potesse respingerlo e chiudergli l’uscio in faccia.
Molti, spesso moltissimi, avvenimenti diversi, sorprese, fatti che si susseguono senza un filo logico e giudizi inesatti di situazioni debbono concomitare fra loro perché avvenga qualcosa d’imprevisto, di inatteso, d’indesiderato.
Beckford si trovò nella camera e richiuse l’uscio dietro di sé.
In quell’istante Aslan si chiese stupita perché Beckford non le avesse telefonato prima di venire direttamente in camera sua. E si chiese anche perché non gli avesse detto attraverso la porta che poteva comunicarle per telefono quanto riteneva così importante da disturbarla a un’ora tanto inoltrata.
Ma ormai era troppo tardi. Beckford era in camera sua, solo con lei. Certamente lei avrebbe potuto telefonare alla direzione dell’albergo che mandasse qualcuno per invitare l’intruso ad andarsene. Ma avrebbe peggiorato le cose a suo scapito; Beckford non poteva trovarsi in camera sua se lei non gli avesse aperto la porta; a meno che egli avesse chiesto in direzione con aria innocente la chiave dell’appartamento, e avesse aperto l’uscio durante la sua assenza e l’avesse aspettata in camera; ma se ciò fosse avvenuto a sua insaputa e senza il suo consenso, avrebbe dovuto immediatamente avvertire la direzione per evitare che questa potesse fraintendere la sua condotta.
Qualunque cosa Aslan facesse o pensasse di fare, il fatto era che Beckford si trovava nella sua camera, con la porta chiusa dietro di sé, e che lei, con null’altro indosso che una sottile camicia da notte e una leggerissima vestaglia, gli stava dinanzi.
Quel che aveva indistintamente intuito dalla voce di Beckford quando le parlava dall’esterno, divenne ora per lei una certezza: Beckford non era proprio ubriaco nel pieno senso della parola, ma non era nemmeno del tutto sobrio. La quantità di whisky ingurgitata dava evidenti segni di sé. La facoltà di giudizio di Beckford era senza dubbio indebolita, ma Aslan capì che egli sapeva ciò che faceva. Egli non tentò nemmeno di simulare una piena ubriachezza per avere una scusa il giorno dopo. Con gli ubriachi si è spesso, anche se a torto, indulgenti.
Se egli avesse incontrato al bar una di quelle donnine disposte a tutto o meglio ancora una moglie incompresa, gli avvenimenti di quella tarda sera avrebbero avuto un corso completamente diverso.
Nel pomeriggio sulla terrazza dell’albergo, sotto l’influenza dell’aria tepida e del mormorio delle onde marine invitanti al sonno, Aslan si era lasciata cullare da vaghi pensieri. Ricordava di avere giudicato Beckford un bell’esemplare di animale umano ben costruito, mentre era sdraiata sul divano e si stringeva nella sua vestaglia.
Pensò di chiedergli: «Qual è la notizia importante, signor Beckford, che doveva portarmi così tardi?»
Ma la prima parola le morì sulle labbra. A che scopo domandare?
Sentì un nodo in gola, causato evidentemente dalla crescente agitazione.
Beckford, indeciso circa ciò che doveva fare, divenne malsicuro come un sedicenne che si trovi per la prima volta con una ragazza. Ma qualcosa doveva pur fare, pensava nel suo cervello semi annebbiato.
Guardò Aslan e le si fece vicino.
La toccò con le ginocchia e le premette sempre più forte al suo corpo.
Un istante dopo la sua mano annaspava sotto la camicia da notte. Come per respingerlo e sfuggire alla sua presa, Aslan si voltò un po’ di fianco. Ma questo movimento offrì a lui il destro di cercare più in alto. Con la sinistra ella cercò di liberare il suo corpo da quella mano. Questo debole gesto significava che poteva difendersi se l’avesse voluto seriamente.
Lasciò che tutto avvenisse senza provare il minimo piacere. Senza appagamento.
Non fu nemmeno sufficiente a raffreddare la sua eccitazione surriscaldata. Un fiammifero avrebbe impiegato più tempo a bruciare fino alla fine, e avrebbe dato più fuoco.
Ora egli la voleva accarezzare.
Ma ella si voltò di scatto, venendo a giacere su un fianco e lo cacciò via con una forza che egli non avrebbe mai supposto in lei, sferrandogli un calcio nel sedere sicché il forzuto sergente del corpo dei marines fece un volo fino alla porta, dove inciampò e cadde.
«Quella è la porta, signor Beckford. Good night.»
Cercò di riassettare l’abito volgendole le spalle e lasciò la stanza senza rispondere, anzi, senza nemmeno guardarla.
Aslan si alzò e richiuse la porta.
Quando fu nel corridoio, Beckford cercò di ricomporsi. Tutto ciò che seppe dirsi, fu: «Gran Dio, questa donna, che calci sa dare! Nel corpo dei marines potrebbe giungere agli alti gradi».
Il giorno seguente alle tre del pomeriggio le telefonò per chiederle se non lo invitava a prendere il tè in camera sua.
«Okay, alle quattro e mezzo», rispose deponendo il ricevitore senza aggiungere una parola.
Quando Beckford puntualmente alle quattro e mezzo comparve nella camera di soggiorno di Aslan, il tè era già servito e il cameriere scomparso. Insieme col tè erano stati portati diversi panini imbottiti e una bottiglia di cristallo con del cognac.
L’insicurezza da cui Beckford fu colto quando si trovò solo con Aslan, egli cercò di nasconderla con un comportamento volutamente spavaldo. Ma dovette subito rinunziarvi, per non rendersi ridicolo. Aslan finse di non accorgersi; troppo chiaro che quel comportamento Beckford se lo era imposto per fare su di lei un’impressione di straordinaria virilità e farle intendere che dalla notte precedente aveva assunto verso di lei un diverso atteggiamento.
Aslan parlava e agiva come se non ricordasse assolutamente nulla di quanto era successo fra loro nella notte.
«Forse era così ubriaca che non ricorda che cosa sia avvenuto in realtà», cercava di spiegare a se stesso il comportamento indifferente di Aslan. Era quella di sempre: una personalità a lui di gran lunga superiore, che nello stesso tempo era sua datrice di lavoro, dalla quale egli dipendeva economicamente.
Aslan versò il tè e porgendogli il vassoio coi panini imbottiti, gli disse in tono indifferente e come se non volesse attribuire molto peso a ciò che voleva sapere:
«Che cos’era dunque la notizia così importante che ieri sera mi voleva comunicare?»
«Oh, yes, signora. Quasi l’avevo dimenticato. Credo infatti che ieri sera, agendo così stoltamente, fossi in stato di completa ubriachezza.»
«È possibile», disse Aslan, centellinando il suo tè, «ma certamente appena un po’.
Un’altra zolletta di zucchero?»
«Che non ricordi effettivamente nulla di nulla?» si chiese Beckford, quando Aslan, senza alcun accenno, e senza la minima sfumatura nella voce, volle fargli intendere che degli avvenimenti della notte precedente ricordava soltanto che lui aveva dimenticato di comunicarle la notizia tanto importante.
«È davvero così importante quel che mi voleva riferire? Oppure era soltanto un pretesto per venirmi a disturbare a così tarda ora?»
«Era molto importante, signora, ed è tuttora molto importante. Due giornali hanno pubblicato lettere dei loro lettori, nelle quali si avanza la proposta che lei, signora, debba presentarsi come candidata alle prossime elezioni presidenziali, con l’unico programma dì costruire sul suolo americano un collegamento diretto fra i due oceani, come quello da lei sostenuto. I lettori affermano che questo programma raccoglierebbe su di lei un numero di voti di gran lunga superiore a quelli che potrebbero mettere insieme tutti gli altri candidati.»
«Invoco da tutti gli dèi noti e ignoti che abbiano a preservarmi da un così atroce destino», disse Aslan ridendo. «Penso che non sarà necessario che io debba portarmi candidata, nemmeno per la camera, per giovare al nostro progetto. Il nostro progetto sarà attuato, se non da noi, da qualcun altro, e se non durante la mia vita, certo dopo la mia morte. Ma io sono convinta che non occorrerà aspettare tanto tempo.»
Cambiando tono continuò: «Parliamo d’altro, signor Beckford. Alle sette riparto per New York. Se vuole, può venire con me. Arriveremo prima delle dieci.» «Well, signora; per me va bene.» Beckford si versò un cognac e riempì il bicchiere di Aslan.
Il tè era esaurito e poiché Beckford non sapeva che altro dire, come gli capitava quasi sempre in questi casi, Aslan incominciò seriamente ad annoiarsi, come era solita dopo avere trascorso più di mezz’ora con lui, per cui Beckford si sentiva di troppo.
Il sole inondava la camera, caldo e accecante. Aslan si alzò, andò all’ampia finestra e calò le
cortine. Subentrò subito un’atmosfera di piacevole benessere.
«Penso che debbo andare, signora», disse Beckford esitando alquanto come se aspettasse qualcosa. «E molte grazie per il suo invito.»
«Arrivederci, signor Beckford. E non dimentichi di trovarsi alle sette nell’atrio dell’albergo, anche se contava di rimanere qui ancora un giorno o due. Naturalmente, per ragioni di studio», aggiunse Aslan, non senza dare alla sua voce una lieve sfumatura ironica.
«Non ci penso affatto. Sapesse quale piacere viaggiare con lei ed essere di ritorno stasera!»
Non faceva però alcun cenno d’andarsene. Al tavolino, dove il tè era stato servito, si versò un altro bicchierino di cognac e lo bevve in un sorso.
Aslan, stando ancora alla finestra, si voltò e guardò fisso Beckford, sinceramente stupita che egli fosse ancora lì, incerto sul da farsi.
«Mi ha detto un minuto fa che doveva andarsene, signor Beckford.»
Aslan si allontanò lentamente dalla finestra come se avesse l’intenzione di avvicinarsi a Beckford per fargli capire ancor più chiaramente che la sua presenza non le era ulteriormente gradita.
Si mosse verso la stanza da letto per cambiare l’abito e fare le valige.
Lo sguardo di Beckford cadde sul libro che stava sul tavolino vicino alla testata del divano.
«Posso vedere, signora, che cosa sta leggendo?» chiese, con voce vibrante.
«Perché no? Nessun segreto», rispose Aslan, compiendo un mezzo giro intorno al divano e avvicinandosi al tavolino con un gesto come se volesse porgergli ella stessa il libro.
Beckford, che si trovava vicinissimo al divano, e anche ad Aslan, tanto che i due corpi quasi si toccavano, si voltò e Aslan si trovò come incuneata fra Beckford ed il divano.
E come aveva fatto nella notte scorsa, egli premette le sue ginocchia fortemente contro quelle di lei. Aslan tacque, ma lo trafisse con lo sguardo.
Beckford si aspettava di essere respinto. Invece Aslan non fece il minimo tentativo di difesa. Lo guardava soltanto, né spaventata né stupita, né ipnotizzata, e nemmeno allarmata.
Questa situazione durò alcuni secondi. Che potesse essere congedato con una potente pedata come la notte precedente, Beckford lo riteneva molto probabile. Ma ricordò di avere ricevuto tante pedate in vita sua che, una più una meno, non gli importava, specie se l’avesse ricevuta dopo il sollazzo su cui contava, e come attestazione di un’impresa eseguita a dovere.
Privo com’era di ogni comprensione dei sentimenti di una donna, che non fosse una di quelle, Beckford anche questa volta interpretò male l’enigmatico comportamento di Aslan.
Sulle labbra di lei era comparso un sorriso da Gioconda, che poteva significare tutto e niente. Quel sorriso confuse Beckford. «Forse ha nascosto in qualche parte un pugnale», pensava, ricordando una scena analoga di cui era stato protagonista in Corea.
Ma in quell’istante la sua bramosia era giunta all’acme e il pensiero di un pugnale nascosto, di una pedata, di un marito infuriato armato di rivoltella non avrebbe potuto avere alcun effetto su ciò che stava per avvenire o che per metà era già avvenuto.
La strinse forte alle spalle premendola sul divano con tutta la sua forza di sergente dei marines. Aslan si coprì col braccio sinistro gli occhi, tenendo libero il destro come se, allo stesso modo della notte precedente, pensasse di fare un piccolo tentativo per allontanare le mani di lui dal suo corpo.
Il sorriso sulle sue labbra, che poteva significare tutto e nulla, era diventato di una sfumatura più chiaro.
Egli volle baciarla per spegnere quel sorriso, ma Aslan col palmo della mano allontanò il suo viso, mentre premeva sempre più forte il braccio sinistro sugli occhi.
Beckford le sollevò l’abito; più su di quanto fosse necessario, pensava Aslan fra sé.
E ancora lasciò che tutto avvenisse, ma non ne rimase appagata. Nulla.
Indifferenza estrema. Una sensazione di vuoto. Non sentì né disgusto, sia pur lieve, né disagio morale.
Egli cercò nuovamente di baciarla. E altrettanto inaspettatamente come nella notte precedente Aslan lo cacciò via da sé col piede, ma questa volta colpendolo così forte all’inguine ch’egli cadde gemendo al suolo.
Ella si alzò, tirò giù l’abito, aggiustò la sottoveste e raggiunse la stanza da letto, chiudendo dietro di sé la porta rumorosamente.
Rientrato rapidamente in se stesso, Beckford si rialzò subito, come s’addiceva a un bravo sergente dei marines. Durante gli addestramenti gli avevano insegnato a sopportare trattamenti ben più duri e più brutali del calcio che lo aveva colpito, e che a Beckford, nella sua gagliarda ingenuità, sembrava un segno d’amore sferratogli nel momento della massima voluttà da quella donnina finalmente domata. Si ricompose e lasciò la camera.