CAPITOLO III
CINQUE settimane erano trascorse dal giorno avventuroso in cui una Cadillac impazzita aveva ridotto in poltiglia Beckford. Egli poté personalmente convincersi di questo fatto leggendo la vera storia nel The Manhattan News il giorno della sua fuga dall’ospedale.
L’angolo, in cui egli era stato stritolato, con sua sorpresa corrispondeva esattamente al vero, e così pure il giorno e l’ora.
Però la Cadillac era divenuta un Dodge. La patente era dello Stato dell’Idaho. Era intestata a Earl Jones, domiciliato a St. Louis. L’uomo anziano, vestito piuttosto dimessamente che guidava il Dodge, era potuto scomparire rapidamente prima che la polizia, come sempre ligia al dovere, avesse potuto impadronirsi di lui. Ancora una volta, come il giornale deplorava, uno dei casi indegni di hit and run: stritola e scappa! Ciò ch’era avvenuto del cadavere, se fosse rimasto sul posto o se qualcuno se lo fosse portato a casa per studiarvi sopra anatomia, non appariva dalla notizia ed era cosa del tutto indifferente per il lettore, perché per lui era più importante correre alla pagina sportiva per accertarsi se il cavallo, su cui aveva scommesso dieci dollari, aveva vinto.
Quando Beckford ora attraversava una strada, lo faceva con la prudenza di una mamma che porta in braccio il suo ultimo marmocchio, tenendone un altro per mano e trascinandosi dietro un terzo, aggrappato alla gonna.
Ma per quanto prudentemente attraversasse le strade, per quanto a lungo aspettasse il momento preciso in cui nessuna automobile era in vista, della quale un poliziotto avesse potuto giurare che lo aveva travolto, un giorno gli accadde, verso il mezzodì, che un’automobile, di cui non avrebbe mai saputo dire da quale parte fosse sbucata, si fermasse così vicino ai suoi piedi senza il minimo rumore che involontariamente tirò indietro la faccia temendo per il suo naso.
La cosa era andata così in fretta che non ebbe neanche il tempo di pensare a un tassì per togliersi di mezzo e sfuggire all’ospedale. Ogni sua fibra fu invasa dal terrore quando si rese conto come fosse stato vicino al pericolo di essere catturato dagli assistenti medici, i quali non aspettavano altro che mettersi a frugare sul suo corpo.
In quel momento udì una voce di donna. «Oh!, giovanotto, eccola finalmente. L’ho cercata come si cerca una moneta d’oro nella sabbia di Atlantic City.»
Beckford fu assalito da un nuovo spavento, quando riconobbe la signora. «Niente trasporto d’emergenza all’ospedale, signora, altrimenti commetto un assassinio su di me o su uno di quegli pseudo guaritori. Intesi?»
«Niente ospedale, giovanotto. Ho raccolto per lei una pila di libri alta come una torre, che trattano di inondazioni, argini e dighe. È un’intera biblioteca, e tutto quanto ha a che fare con l’acqua, come la si governa e la si incanala.»
«Tutto ciò è buono e bello, signora», disse Beckford esitante, «ma proprio non so se avrò la calma e l’ambiente necessario per dedicarmi a questi studi.»
«Il luogo glielo procuro io. Potrà studiarvi i suoi libri con tutta calma.»
In quel momento risuonò il fischio acuto d’un poliziotto. A chi era diretto? La giovane signora non lo capì, ma pensando che si trattasse di lei, disse:
«Salga sulla mia auto! Conosco un locale tranquillo, dove si mangia bene e dove potremo discutere sui particolari. Non blocchiamo il traffico più a lungo». E fece cenno col capo a sinistra. «Ecco che sta avvicinandosi. Salga subito e partiamo prima che possa leggere il numero della targa.»
Con un viso non proprio soddisfatto, Beckford salì. «Che cosa vuole questa donna da me?» si chiese, mentre chiudeva lo sportello e l’auto prese a ronzare.
Mentre questa avanzava attraverso le vie brulicanti di mezzogiorno, in direzione di Uptown, i pensieri di Beckford facevano ridda nella sua testa.
«Che sia in cerca di un amorazzo? Non direi. Troppo elegante. Troppo ricca.
Sicuramente maritata. Ma questo non sarebbe un ostacolo. Capita spesso.
Probabilmente annoiata a morte. Che io possa innamorarmi di lei? Non credo. Non è proprio il mio tipo. È bella, sì. Ma la maggior parte è smalto e vernice. Profumo di marca. Amore? Non lo so. Proprio ora dovrei cascarci! Chi me lo fa fare?
«Sembra abbia due o tre anni più di me. Forse non è per niente più vecchia.
Soltanto eccesso di lavoro. Avrà tre o quattro marmocchi. Dove mi porterà? Può darsi voglia servirsi di me per sbarazzarsi del marito assicurato magari per un milione di dollari e anche più. Con me niente da fare. E forse non è affatto maritata. Qualcuno del suo ceto le ha regalato un bambino, e ora cerca chi la sposi. Su una corda di questo genere io non ballo con nessuno, nemmeno se avesse tanto denaro da annegarvi dentro. Forse fiuta la coca e pensa che io possa procurargliela, perché sa che sono stato in Corea, dove si può comperare la polverina bianca a ogni angolo di strada e in ogni sala da tè, per dieci dollari la mezza libbra.»
L’automobile faceva veramente fatica a sgusciare fra quel traffico imponente senza riportare ammaccature.
«O forse ha interesse che io mi occupi di argini e dighe? E perché poi argini e dighe? Possederà da qualche parte una fattoria di migliaia di ettari che subisce frequenti inondazioni, che causano la perdita del suo cotone o del suo bestiame, o che so io. Ecco, forse ora sono sulla via giusta. E magari, una volta installatomi in questa fattoria, in una bella casa, in un ambiente gradevole si metterà in mente di sistemarmi là definitivamente con lei. Bello, no? Le apparenze sono invitanti. Ma nonostante tutto ciò, se tu pensi di poter fare con me ciò che ti passa per la testolina, mia cara bambola, hai fatto male i tuoi calcoli. Io mi conosco bene, e tu puoi benissimo mettere i tuoi occhi su qualcun altro, prima che io… Ma, in fondo, che cosa so io di te, e bisogna pur essere cattivi e gretti a fare tutte queste supposizioni…»
Questi pensieri che gli mulinavano nel cervello furono a un tratto troncati, quando l’elegante vettura, che in realtà sembrava piuttosto un boudoir, si arrestò di colpo e così inaspettatamente ch’egli si vide sbalzato in avanti. La luce verde tornò ad accendersi, e la signora attraversò lentamente la strada, proseguì per alcuni secondi, poi fermò l’automobile, tirò il freno, si voltò e gli disse con un sorriso invitante:
«Siamo giunti, giovanotto. Lunch». Beckford la seguì nel ristorante. Un cameriere in pantaloni larghi, che portava un fez troppo grande per la sua testa, invitò i due ospiti a prendere posto a un tavolo. La signora non badò all’uomo col fez, sorvolò sulla sua presenza e i suoi denti digrignanti e si avviò verso un altro tavolo, sul quale era un cartellino con l’indicazione stampata «riservato», appoggiato a un vaso di fiori.
Beckford tirò indietro una sedia per farle posto e stava anch’egli per sedersi allorché il cameriere giunse trafelato.
«Scusi, signora, è riservato.» La signora si tolse con lentezza i guanti, fece saltare via con l’indice il cartoncino così abilmente che il cameriere poté appena afferrarlo e disse con voce melliflua: «Caro mio, non vede che sono qui seduta, o ha forse bisogno d’un telescopio per accorgersene?»
«Very well, signora», rispose il cameriere con un lieve inchino, con cui fece intendere in modo espressivo che una mancia inferiore a tre dollari sarebbe stata al disotto della sua dignità di arabo.
La signora prese dalla borsetta uno specchietto, vi si guardò sorridendo, lo ripose sotto i guanti e disse:
«Volevo andare in una sala da tè. Ma poi mi sono ricordata di questo caffè. È
siriano o turco o libanese. Non so. A mangiare qui non ci si annoia, anche a venirci tutti i giorni. Ha mai mangiato lo jocoque? Oppure il doneraqui o il quipe? Qui può avere tutte queste vivande. E una specie di torta con le mandorle e un caffè che se li sognerà di notte». Intanto giocherellava con la lista delle vivande, ma senza guardarla.
«Debbo scegliere io per lei, giovanotto?» «Come vuole, signora.»
«Questo chiamarla ‘ giovanotto ’ comincia a diventare una cosa mortalmente noiosa, non pensa? Non le è stato affibbiato un nome, subito dopo essere venuto al mondo?»
«Naturalmente, signora. Ma finora lei non me l’ha mai chiesto.»
La signora sorrise. «Ha ragione. È colpa mia. Come si chiama, dunque?»
«Beckford, signora, Clement Beckford.» «Dunque, Beckford», ripeté lei lentamente, come se volesse bene imprimersi il nome nella memoria. «Suona bene, questo nome. Beckford.»
Così dicendo, pescò con le mani nella borsetta e ne trasse un libretto e una matita sottilissima, scrisse qualcosa su un foglietto che strappò e lo diede a Beckford.
«Il mio nome e il mio indirizzo.» Senza guardare il foglietto, Beckford lo arrotolò mettendolo da parte, così soprappensiero che si sarebbe potuto scommettere che più tardi, quando avesse voluto veramente leggerlo, non avrebbe ricordato dove l’avesse riposto.
«Non desidera conoscere né il mio nome né il mio indirizzo?» chiese la signora stupita.
«Per questo avrò abbastanza tempo dopo, quando sarò di nuovo solo con me stesso.»
«Sotto un certo aspetto lei, signor Beckford, non m’interessa né molto né poco, ma m’interessa.» «Come desidera, signora.»
«Come desidera, signora… come desidera, signora… possibile che non riesca a dire una volta: ‘ Questo non posso tollerarlo ’ o qualcosa di simile, anche per non darmi sempre ragione?» «Perché? In fondo è lo stesso.» Incominciò a consultare attentamente la lista delle vivande, e questo diede a lui l’occasione di studiare più a fondo il suo volto.
«Guardandola così, potrei dire ch’è veramente bella», pensava. «Ma, se sapessi una buona volta che cosa vuole da me! Come mai era così contenta d’incontrarmi di nuovo inaspettatamente? Ha urgente bisogno di me? Certamente sposata con un fesso, molto più vecchio di lei, e si annoia mortalmente. Uno che pensa soltanto a far denari. Ma io non me ne voglio impicciare. È di quelle che possono procurare il mal di capo, e che mal di capo, se ci si fa accalappiare. E se uno vuol liberarsene, è una di quelle che fruga nella borsetta in cerca di una rivoltella, poi spara e dice che hanno tentato di farle violenza. Legittima difesa. E poi si mette a strillare dinanzi ai giurati, mette in mostra le sue belle gambe, e i giurati dichiarano: Innocente! E io non ho visto nemmeno una volta le sue gambe. Certo una di quelle che ogni notte esige almeno tre volte il pasto…»
Beckford si era lasciato trascinare così in là dai suoi pensieri che pronunciò a voce alta le ultime parole e rimase terrorizzato. Si morse a sangue le labbra. Si fece rosso in viso, perché credette d’avere forse detto molto di più a voce alta di quanto in quel momento potesse ricordare.
«Pasto…» ripeté lei, «pasto… È bene che lo dica. Certo lei deve avere fame come un… come un…»
«… come un leone», le venne in soccorso.
«Non credo che intendessi dire proprio leone.» Gli sorrise. «Io non so nulla circa i leoni. O non molto. Di tutti i leoni che ho visto in uno zoo, nessuno mi parve che soffrisse la fame.» Cambiò tono. «Crede, signor Beckford, che gli animali in uno zoo, o comunque in prigionia, siano più felici di quelli in libertà?»
«Che vivano più felici, non direi; ma penso che siano più contenti. Non hanno bisogno di procurarsi il cibo, hanno sempre a disposizione l’acqua e un tetto e sono protetti dai loro nemici, anche contro i pidocchi, le pulci e le zecche, che possono rendere insopportabile la vita a un animale.»
Non gli era stato chiesto quale delle dodici diverse portate che si trovavano sulla lista egli desiderava per la colazione.
Quando il cameriere portò in tavola la focaccia di frumento, un ampio piatto colmo di radicchi, porri, cipolline, crescione e due grandi bicchieri di jocoque, ella disse sorridendo e quasi incidentalmente: «Penso che le piacerà quel che ho scelto per lei».
Era quasi in procinto di esplodere: «Sono abbastanza adulto per sapere ciò che vorrei mangiare», ma si seppe contenere e riconobbe che la signora non meritava assolutamente uno sfogo così scortese, tanto più che egli non conosceva quelle vivande esotiche e non voleva rendersi ridicolo dinanzi all’uomo in fez e soprattutto davanti alla sua ospite.
Tutto quel che in quel momento seppe dire fu il suo ritornello: «Come desidera, signora».
Ora fu lei ad essere quasi in procinto di diventare scortese con lui.
«Lo sa che potrei mettermi a bombardare la sua faccia con queste cipolline a causa di quel suo eterno: ‘Come desidera, signora’ così privo di senso! Se almeno lo pronunciasse con un altro timbro di voce, e non con quel tono mezzo assonnato!
Perché non dice una buona volta ’ Vada al diavolo o almeno ‘ Lasciami in pace ’?
Nemmeno un cane bagnato lo sopporterebbe.»
Il respiro gli si mozzò in gola. Ora si divertiva di quel suo aspetto spaventato.
«Be’, che succede? Ora è diventato muto?» Cambiò tono. «Le piacciono questi cibi?»
«Mai mangiato qualcosa del genere prima d’ora. Buonissimi. E per ciò che concerne il ‘ come desidera, signora ’, prometto di correggermi.»
«Bene. Ma non migliori troppo. Un eccessivo miglioramento potrebbe guastare il suo carattere.»
Le focaccine di mandorla furono liquidate e fu consumato il denso caffè schiumoso. La signora chiese il conto e pagò. L’uomo col fez aveva sbagliato di un dollaro. In luogo dei tre dollari che egli, da quell’eccellente conoscitore di uomini che si riteneva, si aspettava dalla signora, ne ebbe solamente due.
Comunque si consolò, perché era quattro volte più di quanto ricevesse dai clienti abituali del locale. Si riteneva fortunato di poter lavorare in quel locale. Non aveva documenti. Era sceso nel porto di New York da una nave da carico greca, dove era stato cuoco. Potevano passare degli anni prima che cadesse nelle grinfie della polizia e che fosse rispedito nel Libano, o in quel qualunque paese da cui proveniva.