CAPITOLO IV
QUANDO furono in strada la signora aprendo lo sportello della Cadillac, gli chiese:
«Dove desidera essere scaricato?»
«Se non le rincresce, signora, all’Istituto Rockefeller.»
«Bene. Istituto Rockefeller, allora», e mise in moto.
Dopo neanche un chilometro, mentre nell’interno dell’auto si guardava da tutte le parti torcendosi il collo, Beckford disse:
«Scusi, signora, ma questa non è la direzione per l’Istituto Rockefeller».
«Certo no. Ma io in quella casa», e stese la mano mostrando un edificio di venti piani, «ho una lieve visita da fare.»
«Aspetterò qui, signora.»
«Durerà troppo. Ma se ha tanta fretta di giungere all’Istituto Rockefeller, troverà qui a sinistra, all’angolo, una stazione della metropolitana, e in pochi minuti sarà a destinazione.» «Eccellente idea.»
«Mi consente di rivolgerle una preghiera, signor Beckford?»
«Ma certo. In tutti i casi le sono già debitore di una squisita colazione araba.»
«Non sia scortese.» «Bene, che cosa posso fare per lei?» «Aspettarmi domani all’ingresso di questo edificio, alle undici e mezzo.» «Niente di più facile.»
«Ripeto: mi vuole aspettare qui domani alle undici e mezzo?»
«Bene, signora, sarò puntuale.»
«Bene. A domani.»
Beckford andò alla stazione.
Il giorno dopo, alle undici e mezzo esatte, si trovò dinanzi al palazzo degli uffici.
Dieci secondi dopo comparve la signora, che aveva appena lasciato la sua vettura nella vicina autorimessa.
«Mi rallegro. Molto puntuale, signor Beckford», disse salutandolo.
«S’impara a esserlo nel corpo dei marines, signora. È una mia vecchia abitudine.»
Entrarono nell’edificio.
Salirono con l’ascensore fino al decimo piano.
Si trovarono in un corridoio. Una lunga fila di porte da entrambi i lati recavano sulle vetrate i nomi delle ditte in modo così vistoso che si aveva l’impressione che adescassero con voce rauca nuovi clienti.
La signora avanzò lungo il corridoio e si fermò dinanzi a una delle porte.
Beckford l’aveva seguita. Quando gettò uno sguardo sulla lastra di vetro che formava la metà superiore della porta, si lasciò sfuggire un’esclamazione a cui seguirono le parole: «Che! Che… questo non sono io, di certo».
«E chi può essere?» disse la signora. «Lei naturalmente.»
Sulla lastra di vetro, dipinta nell’interno, risaltava in densa tinta nera, incorniciata d’oro discretamente e con gusto, la scritta:
REGOLAMENTAZIONI FLUVIALI
E PROGETTI DI CANALI
CLEMENT BECKFORD
PRESIDENTE
Beckford la fissò per alcuni secondi, e allora capì che cosa quella signora voleva da lui. Era un terreno neutrale, assolutamente innocente e senza sospetti, quello, dove potevano incontrarsi per piacersi reciprocamente. Nessuno avrebbe visitato questa ditta completamente sconosciuta. E per andare a passo sicuro, nel caso non volessero venir disturbati, a lui bastava appendere fuori sulla porta un cartoncino con la scritta:
Chiuso nel pomeriggio.
«Entri nel suo ufficio», lo invitò la signora, senza tradire anche soltanto con uno sguardo quanto fosse divertita per la sorpresa così ben riuscita.
Egli aprì la porta, gettò uno sguardo nella camera completamente arredata con mobili d’ufficio e disse fra sé: «Ancora ho sbagliato. Nulla che lo faccia somigliare a un nido».
Infatti, dietro a una grande macchina per scrivere nuovissima, poggiata su un tavolino d’acciaio nuovissimo, stava seduta una graziosa dattilografa di circa ventitré anni, la quale nel momento in cui la porta si aprì, lasciò scivolare dalle mani sotto il tavolino l’ultimo numero delle True Confessions. Si fece rossa in viso per essere stata colta sul fatto, benché, a dire il vero, non ne avesse colpa, dato che da due settimane sedeva in quel posto senza che nessuno fosse venuto a disturbarla nella lettura di avventure amorose presumibilmente vissute anche da lei.
Balzò in piedi facendo qualche passo dietro la macchina per scrivere come aveva imparato nella scuola commerciale e attese di essere interrogata.
La giovane signora, facendo un lieve cenno del capo alla signorina, disse rivolta a Beckford: «La signorina Amy Greengold, la sua segretaria provvisoria». Poi volgendo lo sguardo alla signorina Amy e quindi di nuovo a Beckford: «Il signor Clement Beckford, il presidente», al che Amy ossequiosamente rispose: «Come sta, signor Beckford?» Questi a sua volta, pure ossequioso, rispose: «E lei, come sta, signorina Greengold?» al che la signorina Greengold sempre ossequiosamente replicò: «Mi chiami Amy, signor Beckford».
Beckford pensava fra sé: «Ancora una volta ho sbagliato. Con simile sorvegliante, niente da fare quanto al nido d’amore e al reciproco volersi bene. Grossa cantonata d’indovino. E così non riesco proprio a raccapezzarmi. Che cosa vorrà da me questa profumatissima signora? A guardare poi questa Amy, penso quanto di frequente mi troverò solo con lei, naturalmente solo per dettare, ma chi mi dice che non possa accadere qualcosa di serio, e che il cartoncino Chiuso nel pomeriggio non raggiunga lo scopo. Bella, è bella. Peccato, veramente peccato che non possa vedere le sue gambe.»
«Quanto tempo dovrò tenere aperta la porta, perché lei possa prendere possesso del suo ufficio privato, signor Beckford?»
Infatti la giovane signora stava in mezzo alla porta aperta e lo invitava con un lieve cenno della mano a entrare nella seconda stanza.
Egli si sentì confuso e in quell’attimo avrebbe voluto prendere se stesso a schiaffi per quel suo continuo distrarsi.
«Scusi, signora, stavo proprio pensando se non era meglio mettere i due scaffali in quell’angolo per non impedire la libertà di movimento della signorina Greengold.»
«Una buona idea», disse la signora, «davvero una buona idea, la sua. La gente che ha portato qui i mobili, si dà poco pensiero come e dove le cose stanno meglio. Non li mettono mai al posto giusto. Accade sempre per ogni nuova abitazione.» Come Beckford vide il secondo ufficio, non poté soffocare un’esclamazione di sorpresa e di stupore. «Ma questo è… questo è… ma io non so proprio…» Sopra un grande tavolo stava esposto un modello in altorilievo che riproduceva il completo sistema di canali dell’Europa centrale dal Rodano alla Vistola. Un museo non avrebbe potuto possederne uno più bello e lavorato con maggiore precisione.
La scala era indicata nell’angolo destro inferiore, e sebbene Beckford conoscesse poco la geografia dell’Europa, riconobbe a prima vista che le proporzioni dovevano essere esatte, tanto esatte quanto era possibile con un simile modello. Come un bambino guarda meravigliato un giocattolo mai visto, così egli ammirava ammutolito quel capolavoro.
Il suo sguardo passò alla parete di fronte, piena di carte da cima a fondo, su cui erano esclusivamente disegnati dei canali. Il canale di Suez in tutti i particolari, il canale di Panama, il canale dal mare del Nord al mar Baltico. Canali d’Olanda, della Russia, della Cina, dell’India orientale, dell’Africa, dell’America settentrionale.
Canali, di cui non aveva ancora letto o sentito parlare. Anche dei canali d’America, all’infuori di quello di Panama, sapeva ben poco.
La signora accennò un tavolo, su cui c’era una montagna di carte arrotolate. «In queste carte troverà altri canali, e in più i disegni particolareggiati di tutti i canali che lei vede sulle carte appese alle pareti, spiegati fino nei minimi particolari, tutte le difficoltà che dovettero essere superate, le riparazioni che furono necessarie dopo l’apertura di ciascun canale, e nei libri che sono là, troverà la storia di ogni canale dal giorno in cui per la prima volta affiorò l’idea di costruirlo fino al giorno in cui vi passò la prima nave.»
Egli si avvicinò ai libri. Senza prenderne in mano alcuno, con lo sguardo esaminò la moltitudine addirittura incredibile di tutti quei libri, allineati in scansie che scendevano dal soffitto fino al pavimento. Nemmeno all’Istituto tecnologico, dove talvolta aveva passato ore e ore nella biblioteca, gli era accaduto di trovare una simile quantità di opere, che si occupavano della costruzione di canali, argini, dighe e di regolamentazione fluviale.
Non seppe pronunciare nemmeno una parola. Avvicinò la sedia alla libreria e si sedette per esaminare i libri, come si sarebbe seduto in una pinacoteca davanti a un quadro famoso. Era solo con se stesso e coi suoi pensieri; sognava a occhi aperti, mentre quelle centinaia di libri scomparivano lentamente dietro una nebbia sottile.
In seguito alla partecipazione impostagli a una guerra che gli era completamente indifferente, e che in fondo sembrava non servisse a nessuno all’infuori di qualche gruppo enormemente influente di produttori di petrolio, di grandi industriali e speculatori di borsa, Beckford aveva perso ogni interesse per la sua personalità di uomo, ogni ambizione di affermarsi utilmente nella società. Negli ultimi mesi gli era divenuta del tutto indifferente la sua stessa vita. Non poteva più concentrarsi, nemmeno per pochi minuti, per riflettere se l’uomo avesse uno scopo di vivere o se questo cosiddetto scopo non fosse che una suggestione, ch’egli si creava intenzionalmente e che nulla potesse provare, per convincersi ch’egli si differenziava dagli animali, ch’era stato creato da un Dio personale a sua immagine e somiglianza e avesse pertanto potuto, senz’alcuno scrupolo, fare degli animali, uccelli, insetti, e di tutto ciò che trovava sulla terra, quel che gli piacesse, senza dover temere che le sue violazioni della natura finissero col ritorcersi contro di lui lasciando sussistere l’insetto come il solo padrone invincibile della terra.
Beckford vegetava; passava la sua vita tra i sogni. A che scopo vivere? A che scopo affannarsi? Mettere al mondo figli che un giorno, per gli stessi suoi motivi di ora, si sarebbero trovati dinanzi ai medesimi quesiti, ai quali non avrebbero saputo rispondere, come lui oggi? Perché logorarsi, innervosirsi, sovraccaricarsi di vani pensieri? Per chi? Per che? Che cosa gli importava del mondo? Che cosa degli uomini? A che servono gli ideali? Una nuova guerra, ed egli vi si sarebbe trovato dentro fino al collo. E sarebbe stata la fine. A che scopo tormentarsi con equazioni che non quadrano mai? Che valeva trastullarsi con radici cubiche, parabole tangenti, logaritmi, potenze, con la quadratura del circolo? A che scopo affannarsi? La bomba all’idrogeno, l’arma atomica di dieci tonnellate, teleguidata da un sicuro sotterraneo avrebbe risolto in pochi secondi tutti i quesiti e tutti i problemi, che mai si siano posti gli uomini. Perché tormentarsi, se in ogni caso il risultato è sempre il medesimo?
Beckford si alzò e incominciò a prendere qualche libro. Leggeva il titolo del libro, il nome dell’autore, quando era stata scritta la prefazione e quando il libro era stato stampato. Fece questo con una dozzina di libri, e di nuovo venne a trovarsi in uno stato di perplessità.
«Come si deve intendere tutto questo?» si chiese. «Qui c’è un libro, terminato da appena sei mesi e stampato otto settimane or sono. È stato pensato per le prossime due generazioni. E qui c’è un altro libro, stampato un anno fa. In quell’epoca a tutti era noto, e specialmente all’architetto che scrisse il libro, che c’erano bombe all’idrogeno, e in grandi quantità, sia in Occidente sia in Oriente. E all’ingegnere, che scrisse quest’altro libro, era noto che dalla terra si potevano teleguidare aeroplani con un carico di bombe all’idrogeno fino alla distanza di cinquemila chilometri. Questi signori scienziati non rinunciano quindi alla speranza che il mondo continuerà a sussistere. Altrimenti si sarebbero risparmiati la pena di scrivere libri così ponderosi e di darli alle stampe. Per chi? Per gli insetti sopravviventi? Questi uomini seri, sono fermissimamente convinti del perdurare degli uomini, che di questi libri avranno bisogno. E se questi uomini, che lavorano seriamente, credono nel perdurare del mondo, chi sono io, paragonato a loro, e perché mi voglio convincere ch’è inutile lavorare per il futuro?» Mentre Beckford così filosofeggiava tra sé, la giovane signora studiava le carte appese alle pareti con una attenzione, che le donne generalmente non portano a cose del genere.
«Quella porta», disse interrompendo il corso dei pensieri di Beckford e accennando una seconda uscita, «conduce anch’essa nel corridoio. Perciò lei può lasciare il suo ufficio senza farsi vedere dai visitatori che aspettano in anticamera; la qual cosa, sia detto di passaggio, talvolta presenta qualche vantaggio.» «Curioso», pensava Beckford fra sé, «curioso che abbia affittato per me un ufficio con due ingressi, in modo che qualcuno possa venirmi a cercare senza essere visto da Amy. Che cosa vuole dunque questa donna da me? Un amorazzo certo non è nelle sue intenzioni. Ha fatto le cose con troppa evidenza. Tutto qui ha l’aspetto di un ufficio. Canali. Argini.
Dighe. Che cosa ha a che fare la dama con tutto questo? Sono imprese, queste, che sono dirette esclusivamente da uomini. Forse ella si propone di regolare l’irrigazione di una sua grande azienda agricola nel West, e io, che non ho la laurea d’ingegnere, potrei eseguire il suo progetto con minore spesa. Ma perché poi questo ufficio elegante in un quartiere d’affari di New York, così caro, dove gli affitti sono di migliaia di dollari? Non mi ha parlato dello stipendio che intende darmi. Giurerei che si tratta di suo marito. Sicuramente multimilionario, e lei vorrebbe sbarazzarsene.
Perciò ha montato questa trappola così elegante. Qui si può entrare e uscire senza essere visti. Che cosa non farebbe una donna, per incassare senza fatica alcuni milioni e nello stesso tempo liberarsi del suo vecchio Nicodemo traballante? C’è qualche cosa che non va; dico io, qualche cosa che non va.»
«E là in quell’angolo», esclamò la signora un’altra volta interrompendo i suoi pensieri, «c’è la cassaforte d’acciaio.» Con un cenno del capo gliela indicò, togliendo dalla borsetta un piccolo cartoncino. «Qui troverà i numeri della combinazione. Non li perda. Di proposito non ne ho fatto una copia per me.»
«Ma guarda un po’, anche questa», pensava Beckford. «Niente copia? E io dovrei crederci? Colpo mancato, mia cara.» Prese il cartoncino e lo ficcò nel taschino della giacca.
«Se ha bisogno di denaro, signor Beckford, lo troverà nella cassaforte. Tutto quanto le occorre; basterà che vi lasci una ricevuta!»
Poi andò alla scrivania, su cui stavano due apparecchi telefonici. «Questo», disse accennando uno di essi, «è il telefono d’ufficio. L’altro è il suo apparecchio privato.
Il numero di quest’ultimo non figura nell’elenco telefonico. La sua segretaria o chiunque si trovi nella prima stanza, non può ascoltare la sua conversazione; questo lo può fare soltanto col telefono d’ufficio.»
«Tutto previsto molto abilmente fin nei minimi particolari», disse Beckford fra sé.
«Assassinio perfetto. Impossibile scoprirlo. Ma per ora voglio starne lontano finché non vedrò chiaro che cosa il prestigiatore nasconde nel suo cappello.»
La signora sollevò il ricevitore dell’apparecchio privato.
Beckford si avviò verso la porta, per lasciare la stanza, affinché ella potesse parlare indisturbata.
«Grazie per l’attenzione», disse la signora sorridendo, mentre componeva il numero, «ma può rimanere, perché quel che ho da dire riguarda anche lei.»
Subito gli venne il pensiero: «Ora la trappola viene messa in azione. Hai troppa fretta, bambola; il papà dev’essere anch’egli presente».
«Mio marito, prego», disse la signora nel telefono. E subito dopo: «Come va, mio caro? Bene? Sono lieta. Volevo soltanto dirti che stasera porterò un ospite a pranzo.
Un giovane ingegnere, di belle speranze. Sì, ingegnere. Sì. Dove l’ho pescato? Be’, ascolta; io non pesco i miei ospiti. Gli ho attraversato la strada. È tutto. E avrei piacere che tu lo conoscessi. Sa parlare a meraviglia di terribili inondazioni e di logaritmi e di equazioni che non quadrano, e di parabole e tangenti e di Pitagora. Sì, Pitagora. Pitagora, mi chiedi? No, non so dove abiti al presente. Ma deve essere qualcosa come un maestro di scuola che in pieno giorno va in giro con una lanterna.
Ma, non dire sciocchezze. Non lasciarti abbindolare così facilmente da me! Dovresti conoscermi. Dunque, per il pranzo. No, no. Naturalmente non verrà in smoking, anche tu non occorre ti dia fastidio per il frac. Del resto, da quanto mi risulta, il tuo
frac e i tuoi due smoking si trovano dal tintore. Bye-bye.»
Abbassò il ricevitore e guardò Beckford. «Dunque è invitato a casa mia.» «Senza avermi interpellato?» «Siamo vecchi amici, non occorre interpellarla.
E perché lo sappia subito: la nostra casa è sempre aperta per lei. La consideri come sua.»
Beckford effettivamente non sapeva come comportarsi di fronte a un enigma così inatteso. Rifiutare l’invito? Oramai era troppo tardi. Tutto ciò che poté dirsi, fu: «La trappola è montata, e io mi ci trovo dentro».
Ma mentre pensava così, si rese conto che finalmente quella sera egli avrebbe potuto stabilire che cosa si voleva da lui. Gli procurava una certa soddisfazione il fatto che fin dall’inizio e in ogni momento aveva avuto ragione: questa misteriosa evocazione magica di cose che egli non aveva voluto, il grande ufficio non era che il paravento, dietro il quale doveva prodursi la eliminazione del marito, ricco a milioni, ma non amato e infinitamente noioso, e in una maniera condotta senza rumore e tecnicamente così perfetta che su nessuno, e meno di tutti sulla fedele e amorosa moglie, potesse cadere anche il più piccolo sospetto. «Sebbene mi trovi in trappola, alla fine si accorgerà d’avere sbagliato i calcoli», disse a se stesso.