Capitolo 13

Alla fine, dopo aver camminato per quasi un chilometro verso la casa famiglia con Lucy che lo seguiva a passo d’uomo in macchina, Gavin si arrese e le consentì di portarlo all’ospedale. La detective chiamò Robbie, che stava finendo il turno alla casa famiglia e aspettava il collega del turno di notte. Le suggerì di portare Gavin al pronto soccorso, dove l’avrebbe raggiunta non appena fosse stato libero di uscire.

La sala d’attesa era piuttosto piena, nonostante non fosse tarda sera e le tipiche vittime degli incidenti causati dall’alcol non si vedessero ancora. C’erano alcune persone con evidenti fratture. Un giovane finito contro una porta a vetri fu portato dentro d’urgenza, lasciandosi dietro una scia di sangue, nonostante i tentativi di fermare l’emorragia al braccio.

Gavin se ne restò chiuso in un cupo silenzio accanto a Lucy, intento a giocare con lo smartphone, in una posa scomposta e rilassata sulla sedia e con il cappuccio della felpa tirato sulla testa.

Lucy lanciò uno sguardo al telefono. «Stai giocando ad Angry Birds?».

Il ragazzo le rispose senza guardarla. «Quella è roba antica».

«Bello smartphone. È nuovo?».

Lui voltò la testa all’interno del cappuccio, lasciandole vedere soltanto l’occhio sinistro, che si stringeva sospettoso. «Non l’ho rubato, se è questo che stai pensando».

«Non l’ho pensato», ribatté Lucy, anche se le tornò di colpo in mente il nuovo cellulare che Karen Hughes si era procurata.

«E comunque, non è uno smartphone. È un iPod Touch. Me l’ha comprato mio nonno».

«È bello».

Gavin rispose con un vago grugnito e tornò a giocare.

«Mi è dispiaciuto per Karen».

«Che schifo», borbottò lui. «Era una ragazza gentile. Quando sono entrato in casa famiglia, lei… ecco, è stata buona con me».

«Tra la morte di tuo padre e ora questa storia di Karen… lo so che non era una tua parente, ma, ecco… devono essere state settimane difficili, per te».

«Mio padre era un bastardo inutile. Non mancherà a nessuno, ora che si è ammazzato».

Lucy non rispose, lanciando un’occhiata alla coppia di fronte a loro, che li stava guardando, forse cercando di capire come fosse possibile che Lucy, a meno di trent’anni, potesse avere un figlio dell’età di Gavin.

«Aveva dei problemi», riprese di colpo il ragazzo, sollevando le mani per fare il gesto delle virgolette con le dita. «O almeno, così mi ha detto lo strizzacervelli».

«Lo strizzacervelli?»

«Mi ci hanno mandato. Da una donna. Per parlare di quella storia».

«E come sta andando?»

«È una marea di cazzate. Dice che tanti uomini che hanno vissuto il Conflitto nordirlandese adesso si stanno suicidando. Dice che hanno inter-nonsocosa i sensi di colpa e la rabbia».

«Interiorizzato».

«Sì, quello».

Smise di far scivolare le dita sullo schermo dell’apparecchio. «Cosa significa?», chiese piano. «Non volevo chiederlo a lei, non volevo che mi credesse uno stupido».

«Tu non sei stupido».

«Non ho detto di esserlo. Ho detto che non volevo sembrarlo. C’è una differenza, sai?».

Lucy ignorò il commento. «Significa che quando c’è stato il Conflitto nordirlandese, la gente aveva qualcosa contro cui indirizzare la rabbia, scaricandola. Quando è finito tutto, quella rabbia non se n’è andata. Era ancora lì, ma tanta gente non aveva più un modo di liberarsene».

«Come quando partecipava alle rivolte o altro».

«Esatto. O anche semplicemente approvando in silenzio quello che stava succedendo. O chiudendo un occhio di fronte a certi avvenimenti. Si può diventare complici di qualcosa anche senza parteciparvi attivamente».

Il ragazzo non rispose, e Lucy capì che non la stava seguendo più, anche se non l’avrebbe ammesso mai, non dopo il commento di poco prima.

«Be’, comunque… significa che, non potendo più liberarsi di quella rabbia, o del senso di colpa che provavano, come nel caso di tuo padre, nel modo in cui lo facevano prima, l’hanno rivolta verso l’interno. Contro loro stessi».

«Facendosi del male. Come faceva Karen».

Per un attimo, Lucy fu sorpresa di scoprire che la ragazza avesse confessato a Gavin del proprio autolesionismo. Non si conoscevano da molto tempo. Del resto, vivevano nella stessa casa famiglia, entrambi abbandonati dai rispettivi parenti. Sulla stessa barca.

«Sì», annuì. «Come Karen».

Gavin annuì.

«Karen ti ha mai parlato di qualche ragazzo che stava vedendo? Un certo Paul Bradley, magari?», gli domandò Lucy. Se gli aveva confidato che si faceva del male, quando avevano vissuto sotto lo stesso tetto, forse gli aveva parlato anche di quel suo nuovo ragazzo, sempre che Bradley fosse stato questo, per lei.

Gavin considerò per un attimo quel nome, poi scosse la testa. «L’ho vista una o due volte con un tipo. Un po’ più grande di lei, con i capelli corti e scuri. Tutto qui. Non me ne ha mai parlato, però. E non ha mai fatto nomi. Perché, è un sospetto?»

«Ha conosciuto qualcuno su Facebook. Non sappiamo se il nome sia vero o no. È una pista che stiamo seguendo», spiegò lei. «A proposito di seguire… perché quella gang stava inseguendo te, prima?»

«Forse anche loro avevano problemi di rabbia repressa», rispose ridacchiando cupamente Gavin, per poi rimettersi a giocare.

Quando Robbie arrivò, il ragazzo era già entrato nell’ambulatorio del medico di turno. Si era tolto la maglia, rivelando una serie di evidenti lividi che iniziavano a formarsi sulla schiena e sulle costole, tra il rosso e il violaceo. Ce n’erano altri, ormai sbiaditi, che testimoniavano precedenti pestaggi.

«Sono segni fatti sopra altri segni», dichiarò il medico, disgustato, dopo la visita. «Ha delle contusioni sulle costole, quindi gli farò fare una lastra. Ha preso anche qualche colpo in testa, ma non ci sono segni di trauma cranico. Cercate di tenerlo d’occhio, per stanotte. Svegliatelo qualche volta per assicurarvi che stia bene. Ve lo riportiamo dalla lastra appena possibile».

Robbie e Lucy tornarono nella sala d’attesa e l’assistente sociale prese due caffè dal distributore che ronzava in un angolo. Era la prima volta che si trovavano insieme da quando Lucy aveva messo fine alla loro relazione, un mese prima, dopo aver saputo da una delle ragazze della casa famiglia che Robbie si era baciato con una collega durante la festa di Halloween. Lui aveva cercato di spiegarle che non c’era stato niente, oltre quel bacio. Ma per Lucy, era già andato troppo oltre. Quando lo guardò avvicinarsi, con quei due bicchieri di polistirolo fumante, si domandò, e non per la prima volta, se non avesse esagerato.

Il primo ubriaco era arrivato, e stava declamando a tutti gli altri presenti nella sala d’attesa perché il Natale era così schifoso. Attese un quarto d’ora prima di dichiarare che stava aspettando da troppo tempo, quindi se ne andò. A nessuno fu chiaro perché fosse entrato al pronto soccorso.

«Grazie per il caffè», mormorò Lucy, sorseggiandolo.

Restarono seduti in silenzio per un po’.

«Non devi restare per forza, se devi andare», le disse Robbie.

«Lo so», rispose lei.

Lui annuì. «Allora, cosa farai per Natale?»

«Non lo so ancora. E tu?»

«Farò il turno di giorno, così i miei colleghi che hanno una famiglia potranno stare a casa con i bambini. Poi la sera credo che tornerò a Omagh. Ai miei piace ancora averci tutti a casa per Natale. Facciamo il cenone insieme. È sempre bello. Almeno per un’ora. Poi cominci a ricordarti perché sei andato a vivere da solo».

Lucy ridacchiò sommessamente. «Io non ricordo i miei Natali in famiglia», ammise. «Ho vaghi ricordi di Babbo Natale e cose del genere, ma ce n’è uno solo che mi è rimasto davvero in mente. Avevo otto anni, mia madre se n’era appena andata. Papà decise che ero abbastanza grande per sapere la verità, dopo aver letto la mia letterina per Babbo Natale».

«Perché?»

«Gli avevo chiesto di riportarmi la mamma». Lanciò un’occhiata a Robbie e all’espressione preoccupata sul suo volto. Sorrise. «È stata la prima e l’ultima volta che l’ho desiderato, credimi».

«Comunque, Babbo Natale è un bastardo», commentò lui. «Io avevo sempre voluto Mousetrap, e non me l’ha mai portato. Quello, e la valigetta di James Bond».

Lucy rise, per poi riportare l’attenzione sulla tazza di polistirolo che aveva tra le mani, strappandone il bordo e ripiegandolo verso l’esterno.

Robbie la sfiorò su un braccio e le passò un foglio ripiegato.

«Cos’è?», chiese lei. Lo prese, aprendolo, e ci trovò un indirizzo.

«Mi avevi chiesto dove fosse finito il fratellino di Mary Quigg, Joe. Prima che noi due… sì, ecco. Prima».

Lucy annuì. «Grazie, Robbie», sussurrò, ripiegando lentamente il foglio e infilandolo nella tasca posteriore dei pantaloni.

«Un pegno del mio dispiacere», riprese lui. «Per tutto quello che è successo».

«Dispiace anche a me», ribatté Lucy, anche se probabilmente non si riferiva agli stessi eventi di cui stava parlando Robbie.

«Niente di rotto», annunciò Gavin, interrompendoli. Alzarono gli occhi a guardarlo. «Non le ossa, almeno», soggiunse lui, spostando lo sguardo dall’uno all’altra.