60

 

La stanza era piena. Una camerata lunga ed enorme. Dozzine di letti a baldacchino, l’arredamento sontuoso dalle rifiniture in oro massiccio. Accucciate per terra e sui letti, bambine di tutte le razze e anche qualche ragazza. Le bambine erano truccate e indossavano camicie da notte color pastello. Le ragazze avevano l’aria sbattuta e gli occhi cerchiati, mi salì un conato ma prima di arrivarmi alla gola si dilatò e diventò una sensazione ripugnante... I miei occhi scorrevano i volti e, a mano a mano che li guardavo, notavo che i loro sguardi non erano da bambine ma da donne provocanti, e anche le loro posture e i movimenti. Non c’era paura in loro.

Fra quei visi e quegli occhi, all’improvviso, sbattè le palpebre e le riaprì. Occhi enormi, ciottoli scuri al centro della pelle d’oro. Labbra grosse che si distendono in un sorriso tempestato di gemme d’avorio, una spezzata. I capelli afro tirati indietro da una fascia, come esplosi in un’aureola di ricci tutt’intorno al volto. Il corpo discinto raccolto, il mento sulle ginocchia.

Silenzio.

Era lei. Distante pochi metri, distante sedici anni. Ora non era più reale, era un sogno meraviglioso. Meravigliosa sorella divenuta donna in un altro universo, in un altro spazio. Sorella estranea, desiderio enorme, disperato, impossibile... Viva.

Khanysha.

Il tempo sbocciò all’improvviso perché la potevo toccare, una manciata ridicola di passi ora era l’unica cosa che ci separava.

E allora feci il primo e il dolore non c’era più, perché Khanysha sorrideva di fronte a me.

Crollai in ginocchio davanti a mia sorella, il mio corpo si proiettò contro il suo e lei non svanì. Sentii il suo profumo, identico a quello di nostra madre, e mi sorpresi a rinascere con la testa affondata nei suoi capelli. Le sue braccia mi si appoggiarono intorno al collo, il tocco del miracolo e il suo corpo osseo, concreto fra le mie braccia. La alzai facilmente, sentivo le sue ginocchia cedere sotto il peso inconsistente del suo corpo. Incontrai gli occhi di Drug Machine, erano rossi e lucidi. Sorrideva stringendo la mandibola. Sentii uno sparo partire dal corridoio e lo vidi piegarsi e scattare dentro la stanza, esplosero altri spari ed entrarono anche gli altri. Drug Machine era stato colpito e fu chiaro che non era ancora finita.

Portai Khanysha vicino a uno dei letti e la lasciai a sedere lì.

«Ti vengo a prendere fra poco, va bene?».

Mosse la testa su e giù per dirmi di sì e abbassò lo sguardo con timidezza, sorridendo fra sé e sé. Feci per andarmene e mi accorsi che si era aggrappata alla mia mano, le accarezzai il volto con dolcezza e mi liberai dalla sua presa.

Sorrise ancora arrossendo e lasciando scivolare via la mano per farla atterrare inerme sul materasso, gli occhi si fissarono assenti sul pavimento. Mi girai, Drug Machine si era accucciato per terra e si teneva la spalla, Mariolino e Milo si sporgevano alternandosi dalla porta per sparare, il bestione stava strappando un lenzuolo per fasciarsi il fianco.

Corsi verso Drug Machine e mi inginocchiai per controllare la ferita.

«L’hai trovata».

«L’abbiamo trovata».

«Ora pensa a portarla via di qui, Danny. Noi possiamo coprirvi».

«Fammi vedere che ti sei fatto».

Spostò la mano: il proiettile era entrato nella spalla di lato. Non c’era foro d’uscita, non sapevo che volesse dire, ma ero certa che sarebbe stato meglio averne uno.

«Qui ci serve una mano, cazzo!», gridò Mariolino.

«Ce la fai ad alzarti?».

Drug Machine annuì e, appoggiandosi al muro, si tirò su con un urlo muto. Mi alzai anch’io. La gamba mi faceva un gran male, ma mi sentivo come se nulla mi avesse potuto fermare. Mi feci avanti puntando la Glock e sparai un caricatore intero contro delle figure scure che si affacciavano da dove il buio mi aveva fatto credere che finisse il corridoio.

Sparammo per un bel po’, poi non sentimmo più nessuno rispondere al fuoco.

«Andiamo a controllare, poi ce la filiamo».

Così, con le armi spianate, uscimmo lungo il corridoio e avanzammo dove il buio rendeva illeggibili i contorni. Incappai in qualcosa che provocò un tintinnio metallico. Mariolino usò il suo accendino, ero inciampata in una gamba e ai miei piedi vidi un grosso coltello da caccia accanto a tre uomini con abiti ecclesiastici, riversi per terra. Erano morti, li avevamo colpiti. Alzai lo sguardo, c’era un altro corridoio sulla sinistra, da sotto una porta chiusa usciva una sottile striscia di luce. Mi avviai come una falena attratta da quel bagliore. Quando la aprii di scatto, lui era lì, seduto dietro la sua scrivania imponente, mi stava puntando la pistola all’altezza della faccia. Io tenevo la Glock abbassata lungo il fianco. Errore da dilettante.

«Danny, pensavo che non ti avrei più rivista». Deglutii, vidi con la coda dell’occhio i ragazzi avanzare di soppiatto, ma con quel piccolo movimento mi ero tradita.

«Posate le armi se non volete vedere come è fatta dentro la nostra Danny». Poi, rivolto a me, «Anche tu».

I ragazzi si arrestarono, io lasciai andare la Glock.

«Se non sento le armi cadere a terra, le sparo».

Drug Machine fu il primo a buttare il fucile e appoggiare la sacca dei preziosi, poi Mariolino si girò puntando la pistola contro Milo e il bestione, che a loro volta lasciarono cadere le armi.

«Bravi, fatele scivolare in modo che le veda», ordinò fratei Pio.

Così calciarono via le armi, che slittarono dietro di me. Mariolino li teneva ancora sotto tiro.

«Ora venite avanti con le mani alzate, qualunque movimento vi costerà la vita». Alzarono tutti le mani e avanzarono fino a quando non raggiunsero la porta, Mariolino era rimasto nel corridoio, nascosto.

«Come sei arrivata a me?» «Bonnie. Mi ha portato un messaggio di Khanysha. Chiedeva aiuto».

«E tu perché le hai creduto?» «Ho frugato nel passato. Non mi tornava la morte di Khanysha, né quella del dottor Gasparri... e da lì ho cercato dei collegamenti».

«Mmm...».

Scorsi con la coda dell’occhio Mariolino che con la mano mi fece cenno di continuare.

«Cosa è successo a Khanysha? E a Gasparri?», provai a temporeggiare.

«Non sai ancora come sono andate le cose?». Rise. Le ombre sul suo volto si allungarono in modo satanico.

«Tua madre all’inizio mi piaceva parecchio, ma non mi avrebbe mai permesso di toccarvi. Così chiesi a Gasparri di aiutarmi. Doveva solo fare una dichiarazione di morte, guarire tua sorella e prendersi i soldi. Invece Khanysha ci mise un bel po’ a riprendersi e Gasparri le si affezionò. Lì per lì me la consegnò, ma non riusciva a rassegnarsi, continuava a chiamarmi dicendomi che voleva vedere la bambina, che mi avrebbe ridato i soldi con gli interessi se gli avessi consentito di tenerla con sé. Che potevo fare? Mi ha costretto. Chiesi al nostro Corrado di ammazzarmelo, e lui lo fece».

«Che c’entrava il figlio di Gasparri?».

Rise ancora, in preda alla pazzia.

«Il piccoletto non c’entrava nulla, ovviamente, ma era lì, e tanto è bastato. Lo sai come lo chiamano, vero? “Buon Natale”, perché il suo cervello è rimasto bloccato a quel giorno... Lo sai perché lo fa? Perché quando il padre stava morendo, Corrado gli si è avvicinato e gli ha detto: “Buon aperitivo, te lo offre Natalio”. E lui ripete all’infinito il nome dell’assassino di suo padre. Quel nome che ripete disperatamente è diventato il suo. La vita ha un suo umorismo, non trovi?».

Un brivido mi prese la calotta cranica. Quel brutto figlio di puttana era un mostro, un pazzo sadico, il male assoluto.

«Cos’hai fatto...», e mentre lo stavo dicendo sentii qualcosa di terribile strisciarmi dentro, «...a Khanysha?».

Di colpo diventò serio e sembrò rifletterci, poi fece un sorriso, le fossette si scurirono.

«Avvicinati».

Sentii la gamba ferita inchiodata a terra, la guardai, era diventata molto più scura dell’altra e quasi non la sentivo più, il sangue aveva colorato tutto lo stivale e aveva formato una pozza sotto il tacco. Mossi per prima la gamba buona trascinandomi dietro l’altra. Più mi avvicinavo a fratei Pio, più sentivo la violenza crescermi dentro con ferocia. Diede due colpetti sul vetro che si trovava sopra al legno della scrivania. Mi appoggiai lì, davanti a lui, fissando la pistola puntata contro di me.

«Non faresti in tempo a muovere un muscolo, non ci pensare».

Aveva ragione, mi avrebbe sparato a bruciapelo sul petto. Restai ferma mentre mi metteva la mano sinistra sul ginocchio e si arrampicava con l’indice sulla mia coscia. “Viscido bastardo, fai pure, distraiti, dammi un’occasione”, pensai, mentre serravo gli incisivi e la bocca mi si riempiva di saliva. Non lo vedevo, ma potevo sentire Drug Machine incattivirsi dietro di me.

Fratei Pio riprese il discorso: «Le persone, devi sapere, quando ti vedono come la loro grande possibilità, fanno qualunque cosa per te, qualunque. Le donne poi, sono incredibili. Hanno un orgoglio tutto loro quando ti si consegnano mani e piedi, tua madre era una di quelle».

“Puoi dire quello che vuoi. Sono invincibile, sono Wonder Wo-man, aspetto un piccolo cedimento del braccio, un gesto distratto. Dài, pezzo di stronzo”. Ma la bocca della pistola ringhiava cieca.

«Era così disperata che si sarebbe strappata tutti e due gli occhi per farvi vivere lontane dalle guerre, dalla violenza. L’ho accontentata e per anni è stata la mia schiava e io il suo carnefice. Se sapessi quanto mi era riconoscente per avervi portate via dall’Afri-ca...». Sorrise, la sua mano stringeva la mia coscia, capii cosa volesse dire avere la rabbia, sentivo la mandibola pronta a scattare, i denti ansiosi di stringere. Lo avrei ucciso a morsi.

Purtroppo non andò così.

«Dopo qualche anno non ci provavo più gusto. Nemmeno negli affari che gestivo in Africa, stringendo accordi con i guerriglieri, organizzando campi di lavoro per l’estrazione di preziosi. Tutti vendevano tutti per due soldi».

«Non me ne frega un cazzo. Ti ho chiesto di Khanysha». Fratei Pio mi guardò, poi scattò, con una mano mi afferrò la mandibola facendomela aprire, poi mi ficcò la pistola in bocca facendola scorrere avanti e indietro. Drug Machine represse un gemito. Eppure non riuscivo ad avere paura di lui, come se la mia collera fosse uno scudo protettivo. I miei occhi continuavano a promettergli vendetta, mi sfilò la pistola e l’asciugò sulla mia faccia, in bocca il sapore del metallo si mischiava a quello del sangue. Fratei Pio si riaccomodò sulla sua poltrona. Quella cazzo di pistola sembrava avere una volontà sua, perché non smetteva di puntarmi dritto in faccia, qualunque cosa Clark Kent facesse.

«Ci arrivo, Danny. La pazienza è una virtù, lo sai?».

Non mi trattenni e gli sputai in faccia saliva rossa. Il calcio della pistola mi arrivò sulla tempia come una martellata, mi fece piegare la testa da un lato. Quell’occhio non riuscivo più ad aprirlo, cazzo. Con un po’ di fatica mi rialzai. Nemmeno la botta, comunque, mi aveva insegnato che quell’uomo poteva farmi male, era talmente tanto in debito che niente, neanche la sua pistola, mi avrebbe potuta fermare.

«Allora dicevo... Tua madre e tutte quelle donne non mi davano più gusto, nemmeno il lavoro o gli ometti che sodomizzavo, tutto era noia e io invece volevo la scarica d’adrenalina, come quella che mi stai dando tu proprio ora... quella che te lo fa rizzare sull’attenti». “Figlio di troia, non mi tocchi. Un errore e sei fatto”.

«Pensai di essere finito, di aver bruciato la candela dai due lati, di essermi preso tutto troppo in fretta, ma un giorno un sacerdote mi aiutò. Mi diede questa nuova idea. Lui non sapeva che con la sua confessione a cuore aperto, quella mattina mi stava prendendo per mano e mostrandomi il mio nuovo domani. Quel sacerdote mi raccontò di una bambina che doveva formare per la comunione, e di come l’aveva toccata, sotto le mutandine, dentro la carne asciutta e stretta, inconsapevole mentre lui la violava. Oh, quel racconto... Se penso a quella confessione mi bolle ancora il cervello. Allora provai. All’inizio, per esempio, volevo prendere te e non Khanysha. Tu eri già formata, una ragazzina bellissima, ma non eri più addomesticabile, me lo dimostrasti bene, proprio come vorresti fare adesso, vero? Lo vedi? Eri e sei irrecuperabile, ho aspettato troppo ad ammaestrarti e non potevo portarti con me. Khanysha, invece, era così remissiva, indifesa, facile. Alla prima influenza che si prese, la portai via scollandomi di dosso te e tua madre».

Non respiravo più, sentivo la pelle della schiena accapponarsi e i muscoli tesi, pronti. Aprii l’occhio offeso per scoprire che ci vedevo a chiazze.

Fratei Pio posò il gomito sulla scrivania, puntandomi sempre l’arma contro, ma non mi guardava, fissava un punto indefinito e annuiva, gli angoli della bocca erano inclinati all’ingiù. Ebbi la netta sensazione che fosse a un passo dal capire lucidamente cosa aveva fatto, la vigliaccheria di cui si era macchiato. Ma quel passo non lo fece, come per proteggersi dal suo stesso riflesso. Ormai non me ne fregava niente, avrei voluto semplicemente dieci minuti da sola con lui, disarmato.

Poi, dopo un lungo silenzio in cui i nostri pensieri si muovevano come mostri nell’aria, fratei Pio trasalì, spostando la pistola da me al bestione.

«Corrado, sei un bel figlio di puttana, credevo fossi un cane fedele, e invece sei un bastardo, eh?».

Quello abbassò la testa, la vena al lato della fronte gli si era gonfiata in modo inverosimile.

«Hai qualcosa di mio dentro quella sacca?».

Il bestione annuì.

«Portamela, allora».

Avanzò a testa bassa, compiendo i dieci passi che lo separavano da fratei Pio, e spostò la sacca da dietro la schiena al rigonfiamento del suo stomaco.

«Aprila».

Obbedì e fece scorrere la zip, mostrando le pietre preziose. Mi voltai, i rubini sembravano una ferita aperta fra i colori delle altre pietre. Fratei Pio lo guardava fisso con un ghigno agghiacciante.

«È stata Maria Bonaria a organizzare tutto questo, vero?».

Annuì di nuovo.

«Così mi hai tradito dopo tutti questi anni, eh?».

Il bestione mosse la testa su e giù.

E la rialzò in tempo per ricevere un proiettile in mezzo agli occhi e cadere scaraventato all’indietro. In quel momento, Marioli-no venne fuori ed esplose tre colpi, beccando due volte fratei Pio alla spalla destra e facendogli cadere la pistola dalle mani. Ma quello era comunque riuscito a sparare e Mariolino finì in ginocchio reggendosi lo stomaco, gli occhi spalancati pieni di sorpresa. Drug Machine si precipitò su Mariolino, io su fratei Pio.

Lo guardai bene prima di cominciare, la vena principale della fronte era gonfia e lui aveva un’espressione spaurita, ridicola, odiosa. Gli diedi una testata in faccia per poi chiudere il pugno e farglielo atterrare sullo zigomo. Prima che si rigirasse, avevo già caricato un altro colpo che immediatamente portai a segno, gli avevo spaccato il labbro ma volevo renderlo irriconoscibile. Gli avevo infilato i pollici negli occhi e stavo premendo, quando sentii Drug Machine chiamare Mariolino con insistenza. Mi girai e Mariolino era caduto supino, immobile. Lasciai la faccia gommosa di fratei Pio e recuperai la pistola, poi mi avvicinai a Mariolino, il respiro era leggero ma c’era ancora. Quando rialzai la testa, vidi che Milo aveva recuperato l’Uzi e l’altra sacca di gioielli. Drug Machine si era occupato di fratei Pio, gli puntava contro l’arma.

In quel momento mi accorsi che c’era qualcuno alle mie spalle. Khanysha. Sorridente, appoggiata alla porta, malferma e intontita. La tunica bianca le arrivava alla fine delle cosce e mostrava in trasparenza il suo seno, libero sotto la stoffa, una spallina le era scivolata lungo il braccio lasciando la spalla nuda, i capelli sembravano i serpenti della Medusa.

In mano reggeva un enorme coltello da caccia.

Khanysha, ridacchiando, iniziò ad avanzare giocherellando con la lama, gli occhi fissi su fratei Pio. Strusciava i piedi per terra, ma li teneva ben saldi per assicurarsi un equilibrio maggiore. Era drogata fino al midollo.

«Ciao piccoletta, vuoi la banana?», iniziò a dire lei con voce seducente. «Io ho la banana che si succhia, negretta puttanella».

«Basta Khanysha, non fare così», provai a dirle afferrandole il braccio, ma lei si girò talmente in fretta che il coltello fischiò nell’aria per bloccarsi a minacciarmi. La lasciai andare e lei continuò ad avanzare brandendo l’arma, senza più sorridere. Nella sua ombra vedevo chiaramente l’Africa contorcersi insaziabile. Un demone nero le dava forza e volontà, appena risvegliato dopo un lunghissimo sonno nutrito da incubi orrendi e sogni di vendetta.

Ormai era arrivata alla scrivania, la aggirò per avvicinarsi a fratei Pio.

«Vuoi il ciucciotto? Culetto bello, culetto stretto».

Appena gli fu davanti, sferrò un colpo. Fratei Pio fece per proteggersi con la mano sinistra, visto che il braccio destro era già stato colpito da una pallottola. Il coltello trapassò la carne da parte a parte e Khanysha strattonò all’indietro per sfilare la lama. Fratei Pio urlava, lei invece rideva. Si girò verso di me con aria divertita e complice. Poi tornò a lui. Aveva molta più forza di quel che sembrava, molta di più. All’improvviso, era in grado di stare bene in piedi su se stessa e continuare a lavorare di coltello.

«Fighetta, passerina, tettine, quando crescono? Quando ti crescono le tettine?». E gli infilò di scatto il coltello nella guancia e lo tirò di nuovo via. Ora fratei Pio non assomigliava più tanto a Superman, ora aveva molto più a che fare con una maschera di sangue, urlava parecchio e mugugnava, era in agonia. E io soffrivo come non avevo mai sofferto, le parole di mia sorella erano pugni nelle mie orecchie.

«Che dici, lo mettiamo dentro? è troppo grosso per questo buchino?».

E iniziò a infilare piano e rigirare lentamente la lama dentro uno dei fori del proiettile sul muscolo del petto, gli stava cavalcioni con le ginocchia appoggiate sulla poltrona. La sua espressione era terribile, la bocca aperta in un sorriso, gli occhi stralunati, posseduta dall’Africa nera. La lama era dentro per intero e fratei Pio cominciò a essere scosso dagli spasmi, le mani puntate sui braccioli, la bocca e gli occhi sbarrati. Una lacrima scivolò lenta sul suo volto per perdersi nell’incavo della fossetta. Khanysha piegò la testa di lato, in un gesto che avevo visto fare molte volte a Huan quando non capiva qualcosa. Poi si alzò e, appoggiando il sedere sulla scrivania, puntò un piede sul petto di fratei Pio, sfilando con forza il coltello. Lui urlò ancora.

«Non piangere, cattivello. Devi sorridere mentre ti dimostro che mi piaci».

Gli tirò i capelli all’indietro. «Ti faccio sorridere io ora». E gli aprì uno squarcio da orecchio a orecchio. Fratei Pio sputò sangue, il tuorlo celeste dei suoi occhi mi guardò vibrando nell’albume della cornea, poi si rovesciò.

Noi eravamo rimasti immobili, arresi. Khanysha, come se niente fosse, lasciò cadere il coltello e si strofinò le mani imbrattate, poi mi guardò con un’espressione di innocenza buia.

«Ora sono stanca, torniamo a casa».