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Una volta dentro il locale, Drug Machine mi adagiò sul tavolo.

Io gli sorrisi ma non dovevo essere un bel vedere perché, mentre sorridevo, disse: «Cazzo, Danny. Ma che t’ha fatto?» «Nulla, non è riuscito a farmi nulla». E gli strinsi la mano, scoprendomi ancora più debole di quel che pensavo. Lui uscì con il fucile in mano e tornò poco dopo trascinando il bestione per il collo della maglietta. Aveva ripreso i sensi. Feci per alzarmi, ma mi dovetti fermare e restare seduta per un po’. Mi sembrava di avere una cassa da rave al posto della testa: pulsava e faceva male. Riuscii ad alzarmi e barcollare fino al bastardo, iniziai a sferrargli calci sulla pancia, lui non si ribellava nemmeno e colpendo lo stronzo mi sentivo rinvigorire, ma era evidente che non gli stavo facendo male.

«Drug Machine, mi devi aiutare».

Era andato in cucina per telefonare alla polizia, si affacciò e vide che ero troppo debole per fare quello che stavo facendo.

«Danny, avresti dovuto restare sdraiata», disse con aria di rimprovero, poi si mise di fronte a me e guardò il bestione, che ora sembrava preoccupato.

«Buongiorno», disse con un sorriso bonario prima di iniziare a prenderlo a calci con tanta forza da rompergli tutte le costole. Potevi sentirle scrocchiare. Il bestione si lamentava.

«Amico dei negri, guarda che me la paghi».

Drug Machine si girò verso di me.

«Cosa vuoi che faccia?» «I denti. Faglieli sputare». Il calcio del fucile aveva già fatto parte del lavoro, Drug Machine si mise a cavallo della pancia del bestione e con una serie di diretti dritti sulla bocca finì il lavoro. Ora dietro le labbra c’era una poltiglia sanguinolenta. Il tipo svenne, e lui continuò senza entusiasmo ancora per un po’. Mi accorsi che le lacrime mi bagnavano le guance, poi sentii le gambe cedere sotto il mio peso.

Buio.

Quando rinvenni, la polizia era già arrivata. Il bestione, mi dissero, si chiamava Corrado Vicentini, una vecchia conoscenza della polizia locale.

Era di Gissi, un paese vicino San Buono, su di lui pendevano già delle denunce.

«Ma con questa lo inchiodiamo, Danny. Parola che lo lascio marcire in cella talmente tanto che, quando esce, potrà usare il pisello solo per pisciarsi addosso», disse Mariolino mentre mi faceva dei primi piani con una polaroid. In effetti, non mi ero ancora guardata. Strappai dalla macchinetta la fotografia appena scattata, la pozza bianca che velava la mia immagine si restringeva e si delineava una figura inclemente, in tutto e per tutto simile a quella di Elephant Man, ma in versione afro e ricoperto di sangue.

«Merda, m’ha conciata per le feste».

Drug Machine lanciò un’occhiata furente a Mariolino, che sembrò diventare ancora più piccolo e magro.

«È solo gonfio, fa effetto, ma fra qualche giorno sarai come nuova, parola mia. Ora ti accompagno all’ospedale». Mi afferrò per la vita e io mi sostenni appoggiandomi a lui. La gamba faceva proprio male, ma il vero problema era il pallone di ferro arroventato che mi ritrovavo al posto della testa.

«Sì, andate pure. Mi basteranno le foto che ho scattato. Più tardi vengo in ospedale a prendere la tua deposizione». Io e Drug Machine ci girammo.

«Mariolino, passa domani verso le undici e mezzo e porta delle ciambelle e un buon caffè caldo per la signora. Direi che per stasera ha avuto abbastanza grane».

«Certo, giusto, allora a domani».

Drug Machine mi adagiò sul sedile, poi salì anche lui sul fuoristrada e avviò il motore. Lo guardai, lo conoscevo da quando eravamo bambini e ne avevamo passate di tutti i colori insieme, era la mia famiglia. Alla luce cruda della luna, il suo volto mi apparve segnato dal tempo, i suoi trentacinque anni riecheggiavano fra i solchi delle prime rughe agli angoli degli occhi. Aveva una faccia da figlio di puttana, era grosso e, quando si incattiviva, come poco prima con il bestione, i suoi occhi neri diventavano fessure e sapevi che gli si era chiusa la vena che fa affluire il sangue al cervello. Allora era capace di non fermarsi più. Ma era un giusto. Le lentiggini che gli ricoprivano il naso e le guance erano l’unica cosa riconoscibile del bambino che conservavo nella mia memoria.

La macchina procedeva adagio per le curve di strade familiari, ormai ero al sicuro e mi addormentai. Ero troppo stanca, la paura e le botte mi avevano fiaccata come un palloncino bucato.

Sognai il giorno in cui io e Drug Machine ci conoscemmo. Era ricreazione e nel cortile della parrocchia i miei compagni avevano proposto di giocare ai Tre Moschettieri. Mi avevano affidato il ruolo di Milady, che nel cartone animato era la femme fatale cattiva. Un gran pezzo di figa. Accettai, lusingata, ma le cose si misero male, tutti volevano picchiarmi per le mie malefatte, cercai di scappare. E mi ritrovai davanti un muretto che mi bloccava la strada. Girandomi, vidi un bel gruppo di ragazzini inferociti che mi venivano incontro menando le mani. A quel punto, arrivò Drug Machine, che si mise fra me e loro. Era più grande di cinque anni, e a quell’età la cosa era rilevante. Iniziò a far roteare i pugni nell’aria, avvicinandosi minaccioso ai bambini, che si dispersero nel cortile. Poi il cortile divenne buio e comparve il bestione che afferrò la testa di Drug Machine bambino e lo sollevò da terra, sbattendolo al suolo con ferocia.

Mentre lo massacrava, mi guardava con quel suo enorme sorriso bucato.

Mi svegliai sudata e con gli occhi pieni di lacrime, ero in un letto d’ospedale attaccata alla flebo, Drug Machine era in piedi, di fronte alla finestra e guardava il cielo terso. Per un attimo credetti che anche lui stesse ripensando a quell’episodio. Chissà se se lo ricordava ancora.