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Il sole cadeva in picchiata sul fuoristrada, arroventandolo e rosolandoci con calma. Dietro di noi, le ruote alzavano polvere secca e stantia. Ai lati, le vigne erano rigogliose e verdi, i grappoli erano ingrassati a buon punto, la raccolta doveva essere ormai vicina.

«Secondo te, perché per la vecchia il marito è in paradiso e l’altra all’inferno?», mi chiese Drug Machine con un’aria piuttosto concentrata.

«Forse le piace pensare che avrà una seconda opportunità, senza che qualcuna le rompa le uova nel paniere».

«Mmm... Secondo me, invece, è perché lui è un uomo».

«Per me spera solo di rivederlo e ricominciare».

«Mi sa che rimarrà delusa allora dopo il grande salto».

«Chi lo sa... Pensavo, l’amante di Gasparri se ne è andata proprio nel periodo in cui Khanysha è scomparsa».

«Sì, ho fatto anch’io due più due, voleva un figlio e non poteva averlo, a Gasparri capita un’occasione: una bambina non registrata, in una famiglia indifesa... Ne certifica la morte e si ritrova con l’amante soddisfatta».

«È probabile. Ma allora chi lo ha ucciso e perché?».

Drug Machine ci pensò un istante, poi ipotizzò: «Forse l’omicidio non è collegato alla sparizione di Khanysha».

«Forse...».

Svoltammo in una stradina stretta. In fondo, un casolare circondato da pini alti. L’edera si arrampicava intorno a tutta la casa, lasciando scoperte solo le finestre. Cercai di concentrarmi, di non farmi sopraffare dalle emozioni. Ma, man mano che il fuoristrada si avvicinava al casolare, sentivo la tachicardia aumentare. Ci fermammo a pochi metri dall’ingresso e scendemmo dall’auto passando accanto a un piccolo orto. Bussammo un paio di volte, con fermezza. Ci aprì una donna di una certa età, aveva i capelli tinti castano scuro, la pelle secca e tirata dal sole e gli occhi celesti avevano una patina vitrea. Era alta e magra. Nonostante gli anni e le rughe, i lineamenti non nascondevano che doveva essere stata una gran bellezza ai suoi tempi.

«Salve, che posso fare per voi?», chiese con una voce delicata e timida.

«Siamo qui per conto dell’ambulatorio di San Buono». Mi sorprese, Drug Machine. «Possiamo entrare? Abbiamo delle cose da chiarire». La donna si guardò indietro, e annuì.

«Certo, certo che potete entrare, prego, prego».

La seguimmo. All’interno, la casa era tappezzata di carta da parati a fantasia floreale rosa su sfondo bianco, tutto era in ordine e un odore di biscotti appena fatti mi fece sentire rilassata. La donna ci portò in una grande cucina, dalle mattonelle gialle, al centro del tavolo un vaso con delle margherite grosse come un pugno. Guardai Drug Machine, portava un paio di pantaloni al ginocchio verde militare e una maglietta blu scuro con uno strappo sotto l’ascella. Non sembrava dello staff di un ambulatorio, e io men che meno, con addosso jeans corti e canottierina bianca. Ma se quella se la beveva, chi ero io per sottilizzare? La donna ci fece cenno di sederci al tavolo, si coprì il vestito bianco con un grembiule giallo e, aiutandosi con due presine, sfornò dei biscotti spettacolari, li rovesciò su un grosso piatto in modo da formare una piramide e poi lo mise fra me e Drug Machine.

«Prego, prego, servitevi pure». Intanto stava riempiendo una brocca d’acqua che portò in tavola con tre bicchieri, alla fine si sedette anche lei.

«Sono ottimi», disse Drug Machine, senza preoccuparsi di ingoiare prima di parlare.

«Grazie, giovanotto. Ma ditemi cosa posso fare io per l’ambulatorio di San Buono? Sono in pensione ormai da nove anni...».

«Che lavoro faceva?», chiese Drug Machine agguantando un altro biscotto.

«L’infermiera, giovanotto. Non è per questo che mi volevate parlare?», domandò con aria di scherno.

«No, no, signora, vede...». Cercai le parole per essere delicata, non mi vennero, quindi provai almeno a non essere troppo esplicita.

«Stavamo cercando le cartelle del dottor Gasparri, non sono state rinvenute nel suo studio e nemmeno a casa sua... Ci hanno detto che forse poteva averle lei».

Drug Machine intervenne.

«Sa, stiamo riordinando lo schedario per passarlo nel computer».

Lo guardai interdetta, sembrava piuttosto tronfio per quella frase e si stava già premiando con un altro biscotto. La donna, intanto, bevve un grosso sorso d’acqua fredda.

«Sì? E chi vi ha detto che potevo averle io le cartelle?» «La moglie del dottore». La donna guardò in basso, dall’abbronzatura affiorò un rossore delicato.

«Dunque, la vita non si dimentica di nulla... È possibile, dovrei cercare fra le cose di Giuliano, ho conservato tutto nel suo studio, datemi un minuto». Si alzò sistemandosi le pieghe del vestito e, slacciandosi il grembiule, uscì dalla cucina.

«Come ti è venuta la storia dei dati?» «Che volevi dirle, Danny? Sono la sorella della bambina che pensiamo abbia rapito?» «Sì, in effetti hai ragione, bella trovata. Ora inventati qualcos’altro, io mi vado a fare un giro per la casa».

Nell’attesa mangiammo un paio di biscotti. Adelina tornò con una ventina di cartelle in buste marroni.

«Eccole, sono del periodo di San Buono». Posò i fascicoli sulla tavola vicino ai biscotti e vi passò una mano per levare la polvere. Sembrò una carezza mentre il suo volto sorrideva, pieno di nostalgia.

«Dovrei andare in bagno, signora. Dov’è?» «Le faccio vedere».

«Non si scomodi».

«Bene, torni all’ingresso e prenda il corridoio di sinistra, è l’ultima porta a destra».

«Grazie».

Ovviamente, invece di prendere il corridoio, salii per le scale facendo attenzione a non produrre rumori che mi tradissero. Mi trovai di fronte a una sfilza di stanze chiuse, avanzai piano aprendo delicatamente le porte: una camera da letto, un bagno, uno sgabuzzino, lo studio di Gasparri. Questo era diverso dal resto della casa, tutto in legno scuro, arredato come la cabina di una nave, persino la finestra era a forma di grande oblò. Mi misi alla scrivania di legno massiccio e iniziai a rovistare cercando non so bene cosa, ma qualcosa trovai. Uno dei cassetti era socchiuso e vuoto, doveva essere da lì che Adelina aveva preso le cartelle. Ci infilai le mani percorrendone i bordi con le dita, in fondo sporgeva una linguetta di stoffa. La tirai e si aprì un doppio fondo, in cui c’era una cartella uguale a quelle portate poco prima dalla signora. La infilai dietro la schiena, dentro i pantaloncini, sotto la canottiera. Diedi un’altra occhiata in giro, ma pensai di aver già trovato quello che cercavo. Richiusi il cassetto e uscii. Mi mancava una sola stanza. Quando aprii la porta ebbi un sussulto.

Era una cameretta piccola, le pareti erano decorate con i personaggi delle fiabe in un bosco colorato, sotto la finestra un lettino dalle coperte rosa, una piccola scrivania e un armadio a fiori. Per un istante rimasi paralizzata. Poi mi addentrai nella stanza dove il sole entrava diretto filtrato dalle tendine gialle, rincarando il colore oro dei suoi raggi. Aprii l’armadio, vestiti da bambina appesi in buste di cellophane, in basso scarpette di vernice colorata, sembrava tutto praticamente nuovo. Quando rientrai in cucina, Drug Machine aveva quasi finito i biscotti e Adelina mi guardava come se sapesse esattamente che ero andata in giro a rovistare.

«Grazie della disponibilità, ora togliamo il disturbo».

«Nessun disturbo cara, torna pure quando vuoi, la mia casa è aperta». E mi sorrise come se avessi dovuto intendere qualcosa. Non intesi, ma le sorrisi anch’io.

Sulla strada del ritorno aprii la cartella che avevo trovato nel doppio fondo del cassetto. Sulla prima pagina, battuto a macchina al centro del foglio bianco: IL CASO K.

«Che cosa hai trovato?».

Chiusi la cartella e ne guardai la copertina marrone, lì dentro forse poteva esserci la verità su Khanysha.

«Questa cartella intitolata IL CASO K e una camera per bambini con un armadio zeppo di vestiti da femminuccia, praticamente nuovi».

«Tutto quello che riusciamo a trovare si intorcina come un budello».

«Si direbbe proprio di sì, comunque abbiamo una pista ora, con tanto di movente, e questo fascicolo potrebbe anche darci una schiarita alle idee».

«Non lo leggi?».

Ci pensai un istante.

«Non ora, credo che sia una lettura da affrontare con una certa concentrazione».

«Ok, ma se trovi qualcosa che ci porta in un altro paese nei dintorni, stavolta aspetti almeno fino a domani mattina prima di prendere e partire».

«Perché, sei stanco?» «Perché Lu’ è ancora a casa mia e, fin quando ci resta, ne voglio approfittare».

«Molto nobile, Drug Machine, molto nobile. Prometto di aspettare se, prima di defilarti, leggiamo insieme la cartella. Anche a casa tua, se hai fretta di rientrare».

«Prima di tutto, non ho fretta di rientrare perché ho nostalgia di casa, ma per fare cose che non richiedono la tua presenza. Secondo, Lu’ ti odia».

«No che non mi odia, sta sempre a sorridermi».

«Credimi, sorride perché dentro di sé immagina di farti del male in modi sadici».

«Salgo, leggiamo il fascicolo e ti lascio alla tua notte di lussuria».

«Ti odia più di quanto odia il pollo al curry, ed è allergica al curry».

«Non mi odia, forse è un transfert e a odiarmi sei tu. Mi spiace, a me stai simpatico».

«No, no, te lo assicuro, quando sogna di investirti con un tosaerba e di sporcarsi con gli schizzi del tuo sangue, si sveglia sorridente e canticchia».

Cazzo.

La casa di Drug Machine era apparentemente in ordine, anche se sapevo che la sua idea di ordine era nascondere ciò che faceva casino negli anfratti più reconditi del mobilio. Lu’ era sul divano color vomito, appena mi vide entrare mi fece un gran sorriso. Guardai Drug Machine.

«Visto?». Lu’ si alzò e mi venne a salutare con due baci sulle guance. Poi si avvinghiò al collo di Drug Machine e gliene stampò uno sulle labbra.

«Danny, da quanto tempo... Come te la passi?» «è un periodo piuttosto... intenso. Tu che mi racconti? Novità nel settore immobili?». Mi sferrò un pugnetto sulla spalla con le nocche, ci mise una certa forza.

«Sempre a scherzare, che simpatica che sei».

«Senti Lu’, ora io e Danny dobbiamo controllare delle ricevute del bar, che ne dici se ci porti un paio di birre e vai a vedere se di là c’è qualcosa che potrei cucinarti?» «Ma che stacanovisti siete. Ti porto le birre e sai che ti dico? La cena la preparo io». Lu’ scomparve in cucina e tornò con le birre.

«Ti fermi a mangiare con noi?». Nel suo tono c’era una nota di terrore.

«No, grazie, finito qui vado a far fare un giro a Huan».

«È ancora vìvo?» «Ha solo tre anni».

«Be’, tu lo sai meglio di me». Prima di andarsene, diede un bacio imbarazzante a Drug Machine.

«La trovo bene, l’hai consolata senza farle versare una lacrima».

Mi sorrise, fiero di sé.

Aprimmo il fascicolo.

IL CASO K era tutto battuto a macchina, sul lato sinistro c’erano delle date e sul lato destro dei nomi di farmaci. Quelli che riconobbi erano antibiotici, ma la sfilza di dati e medicinali continuava per tre pagine. Per il resto del fascicolo c’erano delle cifre in lire. Appunti di spese giustificate: vestiti, cibo, costi dei farmaci, per un totale di tre milioni. Alla fine, nell’ultima pagina, al centro, c’era la cifra di cento milioni di lire. Io e Drug Machine ci guardammo esterrefatti.

«L’ho detto: intorcinato come un budello».

«Sì, l’hai detto. Ci sfugge ancora qualcosa».

«Forse K non è riferito a Khanysha».

«E chi cazzo ha come iniziale una kappa a San Buono? È riferito a lei, le date e i farmaci coincidono con il periodo in cui si era ammalata, e guarda che sorpresa, proseguono ben oltre la data del decesso».

In quel momento tornò Lu’, si era levata i jeans per sostituirli con una minigonna viola e si era tolta il maglioncino restando con un top che mi faceva facilmente indovinare che aveva un neo vicino al capezzolo destro. Era una ragazza carina, un pochino tonda e non molto slanciata, però aveva un volto grazioso, i capelli corti e spettinati le donavano. Come la vidi, chiusi il fascicolo.

«è quasi pronto, amore. Ciao Danny, alla prossima».

«Sì, vado, è proprio ora, stammi bene Lu’. Noi due ci vediamo domani».

«Non ci giurare, cara, potrei tenermelo tutto il giorno».

Sorrisi. «Sicuramente hai argomenti validi per non farlo muovere da qui per un mese o due».

Così mi trovai a camminare verso casa, era una notte tersa e le stelle scintillavano serene. Cosa voleva dire quella cifra? Cento milioni di lire, che al tempo era come dire centomila euro. Un mucchio di soldi. Forse qualcuno sapeva del rapimento e ricattava Gasparri. Forse avrei potuto mettere sotto torchio Adelina e farla confessare, calare le carte in tavola. Perché la cameretta era ancora una stanza per bambini? Forse Gasparri non era riuscito a guarire Khanysha e io stavo facendo tanta strada solo per scoprire che mia sorella era morta sedici anni fa, però in una casa estranea tra gente sconosciuta. Scacciai immediatamente quel pensiero. Per me era viva.

Arrivai a casa pronta a esaminare di nuovo le cartelle, e il giorno dopo avrei fatto una ricerca per saperne di più sui medicinali che non conoscevo nella lunga lista di tre pagine. Valutai tutte le possibilità che riuscivano a venirmi in mente, persino che Gasparri fosse una specie di scienziato matto che voleva fare una sperimentazione farmacologica su Khanysha. Ma a tutte le mie ipotesi mancavano ancora dei tasselli, molte domande restavano aperte.

Quando rincasai, Huan mi aveva fatto il solito scherzo, si era nascosto dietro la tenda della cucina. Ma, appena aprivo la porta, non riusciva a trattenere la coda, che sbattendo contro il muro tradiva la sua posizione, quindi lo chiamai come se non sapessi dove fosse, cercandolo un po’ qui, un po’ lì. Quando venne fuori, finsi sorpresa e lo abbracciai, poi lo lasciai uscire. Posai la cartella sul tavolo e mi misi ai fornelli per preparare qualcosa da mangiare. Appena sistemai la pentola sotto l’acqua per riempirla, squillò il telefono.

«Buonasera, signorina spray al peperoncino...». E rise di gusto. Bonnie. Era uno di quei cazzo di pitbull che non mollano la presa nemmeno se li prendi a calci nelle palle.

«Cosa vuoi?» «Sempre i trentamila, zuccherino».

«E cosa mi prometterai questa volta?» «Sono a San Buono, così se trovi interessanti le mie novità potrei riavere quei soldi. Sai, li ho annusati e mi è piaciuto».

«Ci avrei giurato. Va bene, Bonnie, scendi in piazza e prendi la strada a sinistra dando le spalle al campanile».

«Certo».

«Fra dieci minuti».

Tornai in cucina, l’acqua era uscita dalla pentola e stava per fare lo stesso dal lavandino, chiusi il rubinetto. Pensai di chiamare Drug Machine, ma quell’idea schizzò via in un lampo. Questa ce la saremmo giocata uno contro uno.