17
La strada che porta da San Buono a Vasto è in gran parte asfaltata, pochi tratti sono rimasti sterrati e polverosi. Il panorama è composto da campi coltivati, vigne e qualche piccola fabbrica. È quasi tutta dritta. Anche se i lampioni sono radi, è sicuro percorrerla. Ma all’ombra di quella notte, con il vento che aveva deciso di portarsi via tutto ciò che incontrava, quella strada aveva perso ogni traccia di sicurezza. Gli abbaglianti illuminavano il turbinio di polveri secche che si sollevavano dal suolo, e il fuoristrada avanzava lentamente. Più volte una volpe o una lepre attraversarono, fermandosi a guardare gli occhi gialli della macchina mentre inchiodava, per poi riprendere a fuggire col vento. Di fronte a noi, in direzione del mare, una tempesta magnetica apriva vene violacee fra le nubi che frustavano il cielo. In macchina la conversazione era sospesa: anche noi, come gli altri animali, eravamo in allerta. L’unico rumore di sottofondo era il soffio arrabbiato del vento che passava tra gli alberi, emettendo un ululato da notte dei tempi. La busta con i cinquemila era stretta fra le mie mani, guardavo fuori dal finestrino ipnotizzata dalla furia delle forze elettrostatiche. Le luci dei night, che apparivano sporadiche da una parte o dall’altra della strada, lampeggiavano passando lentamente dal buio al neon rosa fluo. Dopo una serie di tornanti fra roccia e strapiombo, da un lato apparve il mare, che spumava fragorosamente contro gli scogli, immenso e nero come una belva in cattività. Un TIR ci passò così vicino da sembrare un effetto in 3D. Ci guardammo con gli occhi fuori dalle orbite, e tornammo a fissare io il mare, lui la strada.
«Dopo potremmo farci il bagno di mezzanotte».
«Hai visto che bello?» «Sì, bello».
«Già. Andrà tutto bene?» «Danny, andrà tutto bene!».
«Be’, andrà come deve andare».
Arrivammo nella via dell’Hotel Sabrina, qualche goccia aveva iniziato a pungere la strada. Presto la grandine sarebbe cascata come sassi lanciati da angeli-ultrà. L’insegna dell’Hotel Sabrina era un sole giallo per metà immerso in ondine celesti, su sfondo bianco, in stile rétro. Svoltammo per entrare nel parcheggio, lasciammo la macchina e corremmo verso l’ingresso, per non bagnarci.
Era un albergo elegante e informale allo stesso tempo, o almeno speravo, perché Drug Machine indossava dei jeans che non lavava da una dozzina d’anni e una maglietta bianca con la stampa di una donna piegata a novanta sul sedile di una Harley-Davidson. Lo avevo pregato di non mettersela, ma era arrivato con quella addosso e con un quarto d’ora di ritardo. Ero solo riuscita a fargli poggiare il maglione color malva sulle spalle, le maniche coprivano il più del disegno. A una prima occhiata poteva funzionare, comunque andai avanti io, indossavo un vestito nero, corto e scollato. L’avevo usato poche volte, quella mi sembrava un’occasione. Chiesi alla signora della reception di annunciarmi alla stanza 221. La signora fece un sorriso enorme, poi armeggiò velocemente con il telefono e, in una frase formulata a tempo record, mi annunciò, riagganciò, mi sorrise di nuovo e con la biro che teneva in mano mi indicò l’ascensore.
«Secondo piano». Sorrise pure a Drug Machine. «Anche a me piacciono le Harley-Davidson».
«Grazie!».
«Per cosa?» «Per non averle risposto».
«è stato difficile per me, mi fa piacere che lo apprezzi».
Le porte si aprirono suonando, un uomo di corporatura media, in giacca e cravatta, ci aspettava fuori dall’ascensore. Fece cenno con il capo di seguirlo. Ci scortò fino alla porta della camera.
«Lei doveva venire da sola, Danny. Ha con sé i soldi?». Ero pronta a rispondere, mi ero preparata una frase perfetta, dura e accomodante al tempo stesso. Ma Drug Machine mi precedette.
«è questo il punto, cagnolino. I soldi sono miei e li consegnerò io. Se il tuo padrone è d’accordo, bene, se non è d’accordo, meglio. Non ho una gran voglia di darglieli».
L’uomo indietreggiò di un passo, fece cenno con la mano di aspettarlo, senza voltarci le spalle entrò nella camera. Guardai lungo il corridoio, dei quadri raffiguranti il golfo di Vasto si alternavano alle porte numerate delle camere; una bambina bionda, in fondo al corridoio, si stropicciava gli occhi, un uomo la raggiunse e la prese in braccio. La porta di fronte a noi si aprì e ricomparve l’uomo elegante.
«Mi faccia vedere i soldi».
Presi la busta dalla borsa e la aprii.
«Se li vuoi toccare, dovrai iniziare a renderti disponibile».
«Accomodatevi». Si girò e aprì la porta.
La camera era in penombra, la luce arancione della lampada sul comodino era l’unica illuminazione. La stanza era piena di fumo, denso come un budino. L’odore dell’hashish dominava sugli altri. Una vetrata lunga quanto la parete mostrava chicchi di grandine grandi come noci cadere con violenza sulla spiaggia sottostante, mentre più in là il mare si muoveva minaccioso. Dietro la vetrata, dentro la stanza, lei. La luce ne disegnava solo la silhouette di un lato. Spiava il nostro riflesso sul vetro. Tra le sue dita longilinee, come un’estensione, proseguiva una canna sottile, arrotolata in una cartina trasparente. Non si girò quando entrammo nella stanza, restò di spalle a lasciarsi guardare, le lunghe gambe da ballerina erano nude, e i piedi con le unghie smaltate di nero erano in equilibrio su sandali verdi alti come trampoli. Indossava un vestito di seta verde bottiglia, che finiva dopo la curva armoniosa del suo sedere. Da come la stoffa seguiva i fianchi, avrei scommesso che il vestito era l’unica cosa che aveva indosso. Una fascia la stringeva lungo il primo fianco, poi la seta le si increspava morbida sui lati aprendosi in due, lasciando una buona porzione di schiena scoperta. I capelli corvini erano corti e sfumati sulla nuca, sul davanti lunghi fino al seno, in una rivisitazione del carré anni Trenta. Si girò di scatto, la sua bocca rossa prese a stringere il filtro per succhiarne via il fumo. I suoi occhi, neri come biglie e con dei riflessi verde petrolio, erano piantati nei miei. La bellezza mi mette a disagio. E tutta quella bellezza dominante del suo volto mi aveva presa e stordita. Iniziò ad attraversare la stanza a passi lenti, facendo indurire i muscoli delle gambe con maestria mentre ancheggiava verso di me. Prese fra le dita la lunga collana di perle che le faceva due giri, il primo stretto intorno al collo, il secondo dondolava fin sotto il suo ombelico. Quando mi fu vicina, si fermò, risucchiò ancora fumo dalla canna e me lo sbuffò in faccia, poi sorrise gettando appena la testa all’indietro. Pensai che avrebbe dovuto vivere in bianco e nero. Mi sfilò la busta dalle mani e l’aprì. Annusò il contenuto.
«Grazie, Khany non mentiva! Era sicura che avresti pagato per quel fazzoletto. Ora possiamo negoziare per il resto. Quanto offri?».
Di nuovo quella voce da sirena, maledizione!
«Quanto offriamo per cosa?» «Ma per sapere dov’è Khany, zucchero, non è ovvio?». Si avvicinò così tanto da infettarmi con il suo profumo.
«Ah, era solo un anticipo? Non avevo capito. Aspetta vado a vendermi un rene così tu mi puoi raccontare dov’è la tua amica Khany. E se ci aggiungo qualcosa, mi dici pure dove vive Babbo Natale?».
Rise forte, esageratamente, toccandosi i fianchi con le mani, aiutando il vestito a svelare qualcosa in più delle sue gambe. Non aveva più di ventisette anni. All’improvviso, tornò seria, diede un’altra bella boccata e si girò verso il comodino. L’uomo elegante si diresse verso il mobile, aprì il cassetto e ne tirò fuori un fazzoletto.
«Hai buttato giù un altro paio di righe? Tipo: “Dàlie i soldi, distinti saluti, Dio”», disse Drug Machine.
Lei lo ignorò. Mi sorrise mentre stendeva il braccio verso l’uomo che le consegnò il fazzoletto. Sempre con quel suo sorriso troppo bello per guardarlo, allungò il collo, avvicinandosi così tanto alla mia faccia che la sua bocca mi fece venire le vertigini.
«Vi assomigliate, si vede che siete sorelle. Tu però hai un qualcosa in più».
“Più anni in Africa”, pensai. Sempre sorridendo, mi toccò le mani, fu un contatto morbido e freddo. Mi girò il palmo all’insù, come se chiedessi l’elemosina, e lasciò che il fazzoletto si srotolasse. Un piccolo pezzo di ceramica rettangolare cadde sul mio palmo. La guardai stupita.
«Per quella cifra potevi almeno incastonarlo nell’oro, quel pezzetto di plastica».
Drug Machine afferrò la busta dei cinquemila euro. L’uomo elegante gli puntò un’automatica alla testa.
«Non così in fretta. Evidentemente non sono stata chiara. Quei soldi sono per il mio disturbo in questa faccenda. Ora, se volete altre informazioni, posso darvele, altrimenti ci salutiamo qui. Ma i cinquemila sono miei».
«E questo sarebbe?» «È la ricostruzione dell’incisivo destro di tua sorella. L’ha perso per difenderti, ricordi? Vogliamo sederci e parlare o dico a Milo di accompagnarvi fuori?».
Milo sistemò due sedie dietro di noi, Drug Machine mi lanciò un’occhiata furente quando vide che mi stavo sedendo, ma poi lo fece anche lui.
«Come fai a sapere del dente di Khanysha? Con chi hai parlato?» «Con lei. Khany è in pericolo, vuole il tuo aiuto, io la sto sostenendo e per farlo sto rischiando molto, quindi non vi dirò nient’al-tro, se non per altri trentamila euro. Posso spiegarvi dov’è e come raggiungerla. Credo che vi servirà del tempo per pensare, ho prenotato una camera per voi. è di fronte a questa, avete tempo fino alle quattro di stanotte, poi io e Milo partiremo».