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«Dove cazzo li troviamo trentamila euro?».

Mi alzai dal letto per raggiungere il frigobar, presi una miniatura di Montenegro e tornai a sedermi sul letto.

«Dove cazzo li trovi, Danny?» «Le ho detto che li avrei trovati, non che lo farò... Sicuramente ho guadagnato tempo».

«Tempo per cosa?» «Per riflettere».

«Su cosa? Su una comunissima truffa?» «Non lo so, Drug Machine. Non lo abbiamo appena fatto questo discorso? Lo so che non sei d’accordo, ma più riesumiamo questa storia, meno i conti tornano. Non credo a quella donna, ma sento che c’è qualcosa dietro questa faccenda e voglio, devo scoprirlo. Insomma, se ci pensi, c’è gente che fa investimenti più stupidi di questo e poi... trentamila euro sono tanti soldi, ma non è una cifra introvabile».

«Sì che lo è per noi!».

«I soldi non li ho, e quella donna non mi ha dato prove così convincenti».

«Ti ha dato un mucchietto di niente, ecco cosa ti ha dato».

Buttai giù un sorso pieno.

«Ok, allora se non salta fuori niente, la settimana prossima all’incontro le dirò che non se ne fa nulla. I cinquemila li detrarrai dalla mia paga, a rate e interessi zero. Ci scorderemo di questa storia e andremo avanti, ok?» «Mi spiace Danny, ma è l’unica cosa da fare».

«Sì, senz’altro, l’unica...».

Strinsi le ginocchia al petto, e guardai fuori dalla finestra, una pioggia fitta aveva ricominciato a cadere veloce, ma non aveva più la pretesa della minaccia.

Khanysha, con la testa gonfia di riccioli, che sorride con gli incisivi grandi, nel vestitino giallo, con un calzino solo e in mano la pecorella di pezza con la rosa in bocca, cucita da mamma. Quanto avrei pagato perché fosse ancora viva?

La mano di Drug Machine si stese sopra la mia spalla e la strinse. Mi voleva bene, ma non mi sentivo per niente meglio, si era aperta una voragine dentro di me e fingere di non vederla non poteva far altro che allargarla.

Drug Machine si sdraiò sul singolo. Mi ricordava a grandi linee Riccioli d’oro che prova il letto dell’orso più piccolo. Spegnemmo la luce e la pioggia, fuori, si prese una notte da solista, riempì le mie confusioni e mi fece addormentare come un narcotico pesante.

La mattina mi svegliai con la mente annebbiata, la stanza piena di sole e Drug Machine non era nel suo letto. Mi infilai le scarpe, andai in bagno e feci un paio di gargarismi con l’acqua. Odiai il fatto di non essermi portata il cambio, perciò mi tenni il maglione color malva di Drug Machine con il quale avevo dormito e mi infilai i suoi jeans che, non sapevo per quale motivo, erano ancora sulla sedia. Strinsi la cinta il più possibile e uscii.

Nell’atrio, la donna della notte prima era già bella sveglia, pettinata di fresco e pronta a fare conversazione.

«Signora, ha sentito che nottata? Ho avuto una paura, mio marito è partito ieri e a casa da sola con quei tuoni, mamma mia... Può immaginare il mio spavento, in notti come quella chissà chi va in giro... Dormito bene?». E sorrise più che poteva, stirando le labbra in una maschera allegra.

Chi andava in giro con quel tempo?

«Sì, certo, tutto bene, è stato un bel temporale, ma oggi è tutt’al-tra giornata».

«Ah, qui è sempre bel tempo», disse con tono promozionale. Mi avviai verso la grande porta a vetri della sala da pranzo: nello stomaco la sensazione di un vuoto immenso, ma non era fame.

Sui lunghi tavoli, al centro della sala, erano posizionate le bevande: latte, caffè, succhi di frutta dai colori improbabili. Poi brioche, fette biscottate, marmellate, prosciutto, formaggio e pane. Un andirivieni di gente con i piatti colmi fino all’orlo: mi ero ritrovata in un mondo pieno, sveglio e in vacanza. Solo la notte prima l’albergo sembrava deserto. Mi sedetti al tavolo 220, che poi era il numero della nostra camera, cercai il 221 e lo trovai vuoto, ancora apparecchiato. Il mio era di fronte alla vetrata che dà sulla veranda e poi sul mare, piatto. Doveva essere presto perché le onde ancora non si vedevano e gli ombrelloni aperti erano pochissimi. Sul bagnasciuga vidi la piccola figura di Drug Machine in boxer e maglietta Harley-Davidson che correva, si fermava, faceva una serie di ganci e jab, per poi tornare a correre. Una ragazza abbronzata e in divisa bianca e nera mi venne a versare una tazzina di caffè. Lo mandai giù amaro, cosa che non facevo mai e in quel preciso momento mi ricordai il perché. Mi sembrava adatto a quella mattinata.