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La sala d’attesa dell’ospedale era mezza vuota, ed ebbi la netta sensazione che alcuni vecchietti fossero lì per godere dell’aria condizionata, sembravano in gran forma e leggevano riviste scherzando fra di loro. Mi avvicinai all’accettazione, una corpulenta donna di mezza età masticava una gomma a bocca aperta, i suoi capelli biondo spento formavano grossi ricci che finivano prima delle orecchie.

«La mia amica sta male, urina sangue da qualche giorno». La donna mi diede uno sguardo indifferente, uno di quelli che scivolano senza registrare nemmeno un particolare. Prese un foglietto verde numerato e me lo passò dal buco nel vetro.

«Grazie».

Mi diede un’altra occhiata masticando la gomma per poi chinarsi sulle sue parole crociate.

Tornai da Lu’ e da Drug Machine. Lei era in uno stato catatonico, fissava lo sgabello vuoto di fronte a sé.

«Be’, siamo l’ottantaquattro, fra dieci numeri tocca a noi». Sorrisi, ma non riscossi un gran successo. Mi sedetti in fila con loro, spalle al muro, davanti a un distributore che prometteva aranciata, cola e Schweppes, con tanto di cascata tropicale disegnata, alla fine della quale troneggiavano tre lattine con i rispettivi nomi e loghi. Sotto di loro, cubetti di ghiaccio si ammucchiavano fra bollicine effervescenti... Nel distributore però c’era solo acqua, quindi mi tenni la voglia di aranciata che mi aveva fatto venire il coloratissimo disegno. Dalla finestra entrava un sole caldo che, in contrasto con l’aria condizionata, era piacevole. Non sarebbe sembrato nemmeno un ospedale, se non fosse stato per una cicciona immensa che si lamentava in un angolo con fare plateale. Una delle due gambe era ancora più gigante rispetto alla sua corporatura giunonica: era gonfia e cianotica e intorno al bluastro della pelle erano rimasti appiccicati pezzi bianchi di pelle morta. La donna era sicuramente una barbona, aveva con sé un grosso trolley celeste e lercio, indossava ampi abiti neri e i capelli brizzolati erano appiccicati alla testa. Con i grossi occhi celesti scrutava tutt’attor-no in cerca di uno sguardo di commiserazione per la sua gamba. Aveva accomodato il piede, anch’esso gonfio come uno zampone rimasto in acqua per settimane sopra un giornale, e di tanto in tanto minacciava di spaccare tutto se non l’avessero curata. La donna puzzava parecchio, era un misto di odori stantii e con tutta probabilità se l’era fatta addosso da qualche giorno senza essersi presa la briga di pulirsi. Quel tanfo riempiva la stanza. Sarebbe stato pure sopportabile, se di tanto in tanto non si fosse trascinata dietro la gamba lamentandosi. Strusciava il giornale per tutta la sala d’attesa e si fermava nei punti più ricchi di persone per sfiancarli con il suo puzzo insopportabile. Secondo me, lo sapeva benissimo quanto maleodorava e ne andava piuttosto orgogliosa, tanto da sentire un impellente bisogno di condividerlo con tutti. Oppure il suo era un puro atto di malvagità.

Alla fine, due infermieri entrarono spingendo una barella: una donna veramente vecchia era sdraiata sulla schiena, il suo volto scheletrico era pieno di rughe, i suoi capelli bianchi sembravano cotone sul cuscino. Qualcosa la svegliò prima che la barella raggiungesse la porta del reparto. La donna protese le braccia sottili in avanti e aprì gli occhi, velati da una spessa cataratta, agitava le mani contro il soffitto urlando: «Mamma, mamma, aiutami, mammina».

Uno dei due infermieri le prese le mani e gliele tenne dolcemente sul petto, mentre l’altro continuò a spingere la barella oltre la porta, lungo il corridoio, facendola sparire dalla nostra vista.

Una morsa mi accartocciò lo stomaco. Mi dispiacque molto per lei, piccola e sola a invocare l’aiuto di un fantasma.

«Ottantuno». Sentenziò dall’accettazione la donna con la gomma da masticare, non si mosse nessuno.

«Ottaniadue». Nulla.

«Porca zozza! Ottantatré?». Si alzò una giovane coppia, la ragazza zoppicava senza dare l’impressione di soffrire troppo. Passarono vicino alla grossa donna e la ragazza si lasciò scappare un commento inclemente a proposito dell’odore che emanava. La mastodontica figura non aspettava altro.

«Mi fa schifo gente come questa, mi fa schifo, ma l’avete visto? Un ragazzo bello e giovane che mi guarda, c’ha la ragazza e non si vergogna a guardarmi».

Allora il donnone si alzò per cambiare posto, trascinandosi come prima, e si andò a sedere in mezzo a un gruppo di vecchietti. Fece l’effetto di un fungo atomico, intorno a lei si creò un vuoto a tempo di record.

«Ottantaquattro». Ancora la signora dell’accettazione.

Ci alzammo, le porgemmo il numero.

«Seguite i pallini verdi per terra, fermatevi al primo corridoio alla quarta porta a destra... La quarta porta, mi raccomando... Una volta sono dovuta andare a ripescare dei tizi all’obitorio, e non mi piacciono i cadaveri. Se posso, evito volentieri di andare là dentro, chiaro?». Annuimmo e ci avviammo.

«Carina, eh?» «Come un porro».

«Secondo voi, è grave?» «Inutile fare ipotesi, fra poco ci diranno che non hai niente, ok?».

Lu’ annuì, poco convinta. Bussammo alla porta, una voce profonda ci invitò a entrare.

«Noi siamo qui fuori, se hai bisogno, coraggio».

«Grazie ragazzi», ed entrò nello studio.

«Secondo te, è grave?» «Non ho studiato medicina, ma perdere sangue non è mai un buon sintomo».

«Dio, se ha qualcosa...».

Gli posai la mano sulla spalla.

«Non finire questa frase, non portare sfiga».

Restammo in silenzio a camminare avanti e indietro di fronte alla porta celeste. Provammo a origliare, ma non si sentiva proprio niente. La puzza della cicciona mi era rimasta nelle narici e non se ne voleva andare, aveva fatto rimescolare qualcosa di acido nel mio stomaco e ora lo percepivo salire fino alla gola. La visita durò parecchio. Quando Lu’ uscì, aveva il volto rilassato ma era sempre molto seria. Porse a Drug Macine un barattolino di vetro con il tappo.

«Come stai?» «Bene, devo fare degli esami, sembra essere una banale infezione alle vie urinarie». E sorrise imbarazzata. «Mi sento un’idiota ad avervi fatto agitare per nulla».

Drug Machine la abbracciò, inglobandola totalmente.

«L’importante è che stai bene, sono così sollevato».

«A proposito, riempilo di pipì, potrei averti contagiato».

Drug Machine guardò il barattolino.

«Ora?» «Che c’è, non ti scappa?» «No, non è quello, non me lo aspettavo, ecco tutto».

«Si può trasmettere facendo sesso e visto che ne abbiamo fatto un bel po’... Su, se mi dài il campione, lo faccio analizzare per te».

Drug Machine entrò in bagno e uscì con il barattolo pieno fino all’orlo, sembrava un bicchiere di succo di mela.

«Ora andate pure, mi devo fare le analisi. Se conosco gli ospedali, ci vorrà pazienza, torno a San Buono con un taxi».

«Sicura?» «Se mi ospiti ancora...».

«Certo che ti ospito, sei sicura che non vuoi compagnia?» «Direi che starmene da sola per un po’ non può certo farmi male, e poi sono adulta, anche se non ne ho dato prova ultimamente».

Si baciarono e ci avviammo.

«Danny?». Lu’ mi chiamò, quando ci eravamo allontanati di una decina di metri.

«Non sei poi la bastarda che pensavo».

Dovetti riflettere un attimo per capire se era davvero un complimento.