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La via lattea seguiva la traiettoria della via piana e in quella nottata era più carica che mai di stelle. Bonnie mi aspettava all’ultimo lampione della strada deserta, era appoggiata al muretto con i gomiti, in posa da pin-up. Fece finta di non accorgersi che mi stavo avvicinando. Il profilo perfetto del suo volto sembrava rapito dal buio sottostante. Era bella, così bella da farmi sospettare di essere di fronte a un abbaglio.

Indossava un abito nero allacciato a scaldacuore con una scollatura ampia sul décolleté e una sulla schiena, sandali neri alti. Quando mi appoggiai con il sedere al muretto, simulò sorpresa.

«Parla».

Si tirò su, con i tacchi mi superava di poco in altezza. Il suo profumo sfidò le mie resistenze. Continuai a guardare dritto, senza incrociare i suoi occhi, cercavo di evitare l’effetto fata Morgana che avevano su di me.

«Ho una nuova proposta, penso sia più onesta della prima».

Sorrisi.

«Onesta?» «Nel senso di equa. Guarda che tu e tua sorella non mi riguardate e se ti aspetti che ti aiuti per solidarietà...».

«Non farla tanto lunga».

«Stai tirando fuori un caratterino capriccioso».

«Anche il tuo non è un granché». Con la coda dell’occhio capii che sorrideva, il suo corpo dondolava lento sui tacchi alti.

«Ci mettiamo in società, io ti aiuto fino a quando non trovi Khany e tu mi paghi». A quel punto non potei non guardarla, ed ecco che subito il resto del mondo reale diventava sempre più lontano e sfocato e buio. In luce c’era il suo primo piano d’autore.

«Ho idea che tu sia una compagnia piuttosto costosa, e poi non ho bisogno di te».

«Sì, invece. Tra una settimana mi vedo a Roma con uno dei ragazzi che stava nella casa in cui ho conosciuto Khany. Che dici? Partiamo insieme?» «Questo non vale trentamila euro».

«Magari dopo l’incontro puoi darmene una parte e, più ti avvicino a quelli delle orge, più arriviamo alla cifra che mi interessa». Mi tese la mano, lunga e nivea dalle unghie smaltate di nero lucido.

«D’accordo. Ma se mi freghi...».

«Parti all’attacco con il tuo spray, senza remore». Restò con la mano tesa fino a quando capì che non mi sarei mossa. Distolsi lo sguardo da lei.

Ancora la sensazione che non stesse calando tutte le carte che aveva in mano. Decisi di provare a giocare al rialzo per vedere se la costringevo a scoprire il bluff.

«Del dottor Gasparri che mi dici?» «Chi?» «Il dottor Gasparri, la soda caustica, un bambino che ingerisce acido?». Rimase immobile, fissandomi imperscrutabile, per me in mano poteva avere una coppia di sei come una scala reale. Iniziò a camminare avanti e indietro, spingendosi sempre di più dal lato senza lampioni. Fino a non tornare più alla luce. E quando pensai che se ne fosse andata, si accese la fiamma di un accendino che le illuminò bene il volto. Stava squagliando del fumo.

Mi inoltrai anch’io nella zona d’ombra della via piana.

Rollò in tempo record una canna lucida e trasparente. Era appoggiata a una BMW Zi coupé, rosso ciliegia. Allungò il braccio all’interno della macchina e accese l’autoradio, la luce blu elettrica dei led ci illuminò, un vecchio blues infestò l’aria.

«Che cartine usi?» «Sono brasiliane, cento per cento cellulosa. Così non fumi la carta che, per darle il colore bianco, viene trattata con metalli pesanti come piombo o arsenico e chissà cos’altro».

«Invece così fumi cellulosa e chissà cos’altro...».

«Meglio che arsenico e chissà cos’altro... Tu mi piaci», disse appoggiandosi al coupé di spalle e inarcando l’addome in avanti. Si muoveva come farebbe una gatta randagia in calore. Mi fissava sorridendo di un sorriso arrogante, bella e certa di esserlo. Mi sentii esattamente in trappola e non sapevo quanta forza avevo per uscirne. Prese la canna fra le dita e gettò indietro il collo, liberando i polmoni dal fumo. Era una visione piena di peccato. Mi sentii sciogliere qualcosa nel bassoventre per finire dritto a bagnarmi le mutandine. E lei se ne accorse, lo aveva fiutato nell’aria che ero eccitata, come un animale selvatico. La luce blu dei led la illuminava, lasciandola galleggiare sospesa in quel bagliore artico.

Si girò di spalle, i muscoli della schiena si riempivano di pozze di buio per poi tornare a bagnarsi nella luce. Aveva iniziato a muoversi piano, a ballare piano. I fianchi ondeggiavano da un lato all’altro, roteando al ritmo delle melodie che crescevano oscene, come i suoi movimenti. Si contorceva con calma, facendo danzare la colonna vertebrale.

La testa le ciondolava offrendo ora questo, ora quell’angolo del collo. Sempre ballando si girò verso di me, con la testa buttata al-l’indietro, mentre la bocca sbuffava fumo, la mano con la canna compieva piccoli cerchi nell’aria, il suo corpo si muoveva esplicito avanti e indietro. All’improvviso, aprì i lunghi occhi, puntandomeli contro. Senza smettere di muoversi, si appoggiò con i palmi delle mani al dorso della macchina e salì veloce sul cofano, puntando i tacchi sulla ruota anteriore.

Le dita sulle ginocchia, che apriva e chiudeva piano, sempre di più, fino a quando la debole luce fredda non le riempì le cosce, lasciandomi a guardare. Lei sorrise, vittoriosa. Mi avvicinai e le posai le mani sulle gambe, le lasciai scivolare lungo le cosce, e più salivo, più erano bagnate dal caldo e dalla voglia.

Continuava a muovere il corpo avanti e indietro, gli occhi socchiusi non smettevano di fissarmi, le mani erano arretrate fino a farla scivolare sui gomiti, quasi sdraiata, definitivamente aperta. Le mie dita si stavano muovendo dentro di lei, disarticolate, a frugare, a impiastricciarsi fra i petali di carne sbocciata. La bocca era così allargata che sembrava dover ingoiare il cielo sopra di lei, mentre il collo veniva in avanti in piccoli scatti e il ventre aveva iniziato a sussultare. Spingeva il sedere in avanti per prendere ancora di più le mie dita, la mia mano. Frenetica, in un assolo del suo corpo. Una cosa era chiara: aveva ancora lei il controllo. Provai ad afferrarla per la vita e tirarla a me facendola scendere dal cofano e rigirandola, piegandola, con le gambe aperte dritte, il sedere proiettato all’insù. Con un gesto secco le spostai il vestito, scoprendole anche la schiena, la guardai spalancata, respirai nel vortice del suo odore. Le presi i capelli nel pugno, costringendola a tenere la testa alta mentre continuavo a toccarla il più forte possibile, la sua voce si liberava distorta dai gemiti.

E Bonnie non ne aveva ancora abbastanza, continuava a spingere mentre vedevo chiaramente dal profilo del suo viso che non smetteva di sorridere, e la mia stava diventando disperata ricerca di controllo, un controllo che proprio non riuscivo a toglierle. Si rialzò con il vestito scomposto. Un seno le era uscito dalla scollatura a V, una valchiria in guerra. Il volto arrossato aveva assunto un’espressione arrendevole. Mi prese la testa fra le mani e mi infilò la lingua profumata in bocca. Mi accarezzò dolcemente, spostandomi i capelli dalla faccia e stringendomi a sé, e tutta la dolcezza che non c’era stata, ora era calata su di noi. Si inginocchiò e mi baciò piano, poi la sua lingua prese a muoversi in un lentissimo rodeo.

Sentii il profumo della terra e della notte che scivolava profonda dentro le sue ore più buie.