Le donne nelle chiese paoline

La testimonianza più eloquente ci viene fornita dalla lettera di Paolo ai Romani,1 in cui egli saluta diversi membri della congregazione chiamandoli per nome, ed è interessante notare come in questi saluti compaiano anche moltissime donne. Benché Paolo citi più uomini che Bart D. Ehrman

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donne, queste ultime sembrano non essere in alcun modo inferiori ai loro omologhi maschili nella Chiesa. Paolo cita Febe, diaconessa (ovvero ministro) della chiesa di Cencre e protettrice di Paolo stesso, alla quale egli affidò la consegna della lettera ai Romani (16, 1-2). Cita inoltre Prisca, che insieme al marito Aquila è una delle principali responsabili della missione gentile e che ospita una congregazione a casa propria (16,3-4; si noti che viene citata prima del marito). Saluta Maria, una sua compagna che opera tra i Romani (16, 6) e cita Trifena, Trifosa e Perside, che «hanno lavorato per il Signore» (16, 6.12). Parla inoltre di Giulia, della madre di Rufo e della sorella di Nereo, che sembrano tutte avere un alto profilo in questa comunità (16, 13.15) e, cosa ancora più eccezionale, fa il nome di Giunia, che definisce come una «degli apostoli insigni» (16, 7). Il gruppo apostolico era quindi evidentemente più numeroso e comprendeva altre persone oltre ai dodici uomini che quasi tutti conoscono.

Altre Lettere di Paolo danno un’impressione analoga del coinvolgimento diretto delle donne nelle chiese cristiane. Dalla sua lettera ai Corinzi, per esempio, apprendiamo che alcune donne partecipavano attivamente alle funzioni religiose usando le proprie «doti spirituali», che consentivano loro, tra le altre cose, di pronunciare alla congregazione profezie divinamente ispirate (1 Cor 11,4-6). Nella lettera ai Filippesi, inoltre, gli unici membri della congregazione che Paolo chiama per nome sono due donne, Evodia e Sintiche, il cui dissenso causa una certa preoccupazione all’apostolo, apparentemente per via della loro posizione di rilievo all’interno della comunità (Fil 4,2).

Se il cristianesimo fosse stato una religione incentrata unicamente sugli uomini, come qualcuno ha sostenuto, risulterebbe difficile comprendere il perché degli importanti ruoli che le donne pare abbiano avuto nelle chiese paoline. Ma come possiamo spiegare questa situazione alla luce dei reali insegnamenti di Paolo sugli uomini e sulle donne? Nel caso di Gesù, abbiamo visto che fu probabilmente il suo messaggio apocalittico ad attrarre molte donne spingendole a diventare sue seguaci: nel regno a venire si sarebbe assistito a un’inversione delle sorti, in cui gli oppressi avrebbero ricoperto posizioni di potere. In un simile annuncio le donne, naturalmente, non potevano che leggere un messaggio di speranza, in particolare quelle che dovevano sottostare all’autorità dei membri maschi della famiglia nelle antiche società patriarcali. Come abbiamo visto, anche Paolo era un apocalittico; c’è quindi da chiedersi se questo possa Bart D. Ehrman

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contribuire a spiegare i ruoli di rilievo che le donne avevano nelle sue chiese e il fatto che, in un certo senso, stessero già attuando in questo mondo gli ideali del regno a venire, sovvertendo le concezioni patriarcali della società e svolgendo lo stesso ruolo degli uomini negli ambienti sociali più ristretti delle chiese.

Un versetto fondamentale per comprendere la percezione che Paolo aveva delle donne è il 3, 28 della lettera ai Galati, in cui dichiara che ogni cristiano «battezzato in Cristo» ha già cominciato a provare la libertà dalle distinzioni sociali esistenti all’epoca: «Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Stando a questo versetto, ci sarebbe da aspettarsi che non vi fosse alcuna distinzione nelle comunità cristiane sulla base dello stato o della condizione sociale: tutti sono uguali «in Cristo». Eppure, da altri scritti di Paolo emerge chiaramente che anch’egli, come Gesù, non incoraggiò mai una rivoluzione sociale in cui le distinzioni di questo mondo sarebbero state spazzate via grazie all’avvento di una società migliore. Paolo, per esempio, non incoraggia mai l’abolizione della schiavitù, ma presume invece che continuerà a esistere come istituzione sociale in questo mondo (si veda la sua lettera a Filemone). E anche se «in Cristo … non c’è uomo né donna», la realtà è che tutti, cristiani compresi, continueranno a vivere in questo stesso mondo sino alla venuta del regno.

Pertanto, anche se Paolo premeva affinché alla fine non vi fossero più distinzioni fra uomini e donne, per il momento le differenze continuavano a esistere.

Ecco perché egli può dire alle donne a Corinto che quando pregano e profetizzano in chiesa, devono farlo indossando il velo (1 Cor 11, 2-16).

Alcune donne della congregazione, infatti, dovevano averlo preso sul serio quando aveva affermato che in Cristo non vi erano distinzioni di sesso, e presero così a parlare in pubblico a capo scoperto, un gesto che all’epoca era per loro socialmente inopportuno. Paolo sostiene invece che, anche se alla fine le distinzioni sarebbero state abolite, per il momento continuavano a esistere, ed è per questo che le donne non avrebbero dovuto vestirsi né comportarsi come gli uomini e, a differenza loro, avrebbero dovuto coprirsi il capo.

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