La biblioteca di Nag Hammadi
Nel Codice da Vinci Leigh Teabing, quando cerca di convincere Sophie Neveu che i primi documenti sul Cristo lo ritraggono in termini più umani che divini, decide di mostrarle le prove. Discutono dell’argomento nello studio di lui e Teabing prende da uno scaffale un libro intitolato I vangeli gnostici, dicendo che contiene «fotografie di brani ingranditi di antichi documenti». Quindi informa Sophie: «Queste sono fotocopie dei Rotoli di Nag Hammadi e del Mar Morto … i più antichi documenti cristiani» (p.
288).
Abbiamo già detto che i Rotoli del Mar Morto non sono antichi documenti cristiani. Specifico anche che il libro citato da Teabing non contiene foto di antichi documenti ma è uno studio dei testi di Nag Hammadi della famosa autrice Elaine Pagels (citata anche nel libro di Dan Burstein I segreti del Codice). Ciononostante, Teabing fa un’affermazione importante: la biblioteca di Nag Hammadi conteneva davvero scritti gnostici, alcuni dei quali significativi per capire come Gesù era visto nella Chiesa primitiva. Peccato che Gesù non vi sia affatto presentato in termini umani.
Anche in questo caso, è meglio cominciare dicendo come avvenne la scoperta della biblioteca. Siccome nel Codice da Vinci ha un ruolo più importante rispetto a quella dei Rotoli del Mar Morto, la presenterò in modo più dettagliato. Si trattò di un altro ritrovamento assolutamente fortuito, simile a quello di Qumran, ma avvenne un anno e mezzo prima e in un’altra parte del mondo, non nel de serto di Giudea vicino al Mar Morto, ma in quello egiziano sulle sponde del Nilo.
Ilritrovamento
La biblioteca fu rinvenuta nel dicembre 1945 da sette contadini beduini che stavano scavando alla ricerca di sabakh, un concime ricco di azoto, vicino alla parete rocciosa di Jabal al-Tarif, lungo l’alto corso del Nilo.4
Usavano il concime sulle colture del piccolo villaggio di al-Qasr, al di là del fiume rispetto a quello più grande della zona, Nag Hammadi, circa Bart D. Ehrman
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quattrocentocinquanta chilometri a sud del Cairo e sessanta a nord di Luxor e della Valle dei Re. Il leader del gruppetto, l’uomo che si assunse la responsabilità dei reperti e che in seguito divulgò i dettagli della scoperta, si chiamava niente meno che Mohammed Ali. Ma fu il fratello più giovane a ritrovare i documenti, accorgendosi di aver colpito con il piccone un oggetto duro. Si trattava di uno scheletro umano.5 Scavando nelle immediate vicinanze, i contadini dissotterrarono una grossa giara di terracotta alta una sessantina di centimetri e sigillata da una ciotola.
Mohammed Ali e i suoi compagni erano riluttanti ad aprirla, per paura che contenesse un genio malvagio; ma dopo attenta riflessione, conclusero che avrebbe anche potuto contenere dell’oro e senza indugiare oltre la frantumarono con i picconi. Conclusione: niente genio e niente oro. C’era solo una manciata di vecchi libri rilegati in pelle, di ben scarsa utilità per un gruppo di beduini analfabeti.
Ali distribuì i ritrovamenti, strappando i libri in modo che ognuno ricevesse la parte che gli spettava. Ma gli altri non erano interessati, così Ali avvolse il malloppo nel suo turbante e, tornato a casa, lo ripose nel capanno dove teneva gli animali. Quella sera sua madre prese alcuni dei fogli sgualciti per accendere il fuoco su cui avrebbe cotto la cena.
A questo punto la storia si complica e si mescola con la vita reale in un modo quasi irreale. Tra Mohammed Ali e la sua famiglia e una tribù di uno dei villaggi vicini era in corso una faida. Tutto era cominciato sei mesi prima, quando il padre di Ali, guardiano di notte incaricato di custodire dei macchinari per l’irrigazione importati dalla Germania, aveva sparato a un intruso, uccidendolo, e il giorno dopo era stato assassinato a sua volta dai familiari della vittima. Parecchie settimane dopo la scoperta dei vecchi libri, Mohammed Ali e i suoi fratelli vennero a sapere che l’assassino del genitore dormiva sul ciglio della strada, accanto a un vaso di melassa di zucchero di canna. Afferrati i picconi, andarono a cercarlo e, trovatolo, lo colpirono a morte. Quindi gli squarciarono il petto e ne estrassero il cuore ancora caldo per mangiarlo, atto estremo della vendetta di sangue.
Ma c’era un inconveniente - per la verità, in questa storia ce n’è più di uno - e cioè il fatto che la vittima era figlio di uno sceriffo del luogo.
Mohammed Ali aveva cominciato a pensare che forse i vecchi libri che avevano trovato potevano valere qualcosa e temeva che, essendo lui e i suoi fratelli i principali sospettati dell’omicidio, la sua casa sarebbe stata perquisita alla ricerca di indizi. Quindi diede al prete copto del paese uno Bart D. Ehrman
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dei libri perché lo custodisse fino a quando le acque non si fossero calmate.
Si dà il caso che il cognato del sacerdote fosse un professore itinerante di inglese e storia. Era suo ospite una volta alla settimana, durante il giro delle scuole parrocchiali della zona. L’insegnante di storia capì che il libro poteva davvero essere una scoperta importante - almeno abbastanza da guadagnarci dei soldi - e andò al Cairo per cercare di venderlo. Ma il tentativo non ebbe il successo sperato: il libro fu confiscato dalle autorità.
Alla fine gli fu comunque permesso di venderlo al Museo Copto.
Il direttore del museo aveva un’idea più che precisa del libro e, per farla breve, insieme a Jean Doresse, un giovane studioso francese di antichità che aveva conosciuto a Parigi - e il direttore doveva conoscerlo piuttosto bene, visto che in precedenza aveva chiesto la mano della donna che poi era diventata la signora Doresse - riuscì a reperire la maggior parte dei volumi rimanenti e ad acquistarli per il museo.